di Dziga Cacace
Se ne cadono ‘e palazze e a nuje ce abbrucia ‘o mazzo
Pino Daniele, Ce sta chi ce penza
179 — Footloose del diabolico Herbert Ross, USA 1984
Il male messo su pellicola con precisione chirurgica: questo film è come gli anelli di cipolla fritti in abbondante panatura cartonata, junk food e guilty pleasure cui non puoi dire di no. Io, questo adorabile e ineludibile pillolone, l’ho preso in corsa in un accidioso sabato postprandiale e non ho saputo staccarmene perché Footloose è un film pressoché perfetto, dove si mette in scena la ribellione giovanile soft in un mondo reazionario soft, e dove basta parlarsi per trovarsi d’accordo. Chi non s’identifica? Chi – se non sopraggiungono filtri ideologici degni di una guardia carceraria nordcoreana – non ci casca? Footloose è il monumento all’astuzia volpina di Hollywood. Il protagonista è un ribelle, accettabilmente ribelle, e buono: perché Kevin Bacon studia, fa sport, non ha i capelli troppo lunghi e non gli puzzano né piedi né ascelle perché si lava. In più vuol bene alla mamma (tante scene emblematiche, appoggiate lì). Ma, provenendo da Chicago e insediandosi in un paesino di bifolchi, ha qualche problemino a farsi accettare. Dà fastidio perché ascolta il rock (i Man At Work, figurati!) e non vuole accettare le assurde imposizioni della cittadina, dove non si possono bere alcolici, né organizzare feste, né ballare. Togligli anche le tette e il teen-ager americano medio sbarella. L’irrequieta figlia del reverendo, altra ribelle soft che umanamente non vede l’ora di darla via, s’invaghisce del “diverso” e il conflitto si radicalizza: Bacon vs. reverendo, l’ottimo John Lithgow. Il quale non è cattivo, eh, si badi, ha solo l’elasticità mentale a metà strada tra un cubo di porfido e Carlo Giovanardi. Infatti il povero predicatore ha perso un figlio in un incidente d’auto dopo una festa e sragiona come la mamme che vogliono fermare le “stragi del sabato sera”. Insomma: il cattivo della vicenda è in realtà un buono dalla rettitudine morale mai messa in dubbio, cui aprirà gli occhi l’onestà di Bacon e il consiglio della saggia moglie (la splendida Dianne Wiest). Volemose bene a stelle e strisce, con belle facce, bravi attore e tutte le scene topiche calate al momento giusto, non un secondo prima, né uno dopo. Non c’è conflitto vero, c’è solo bisogno di comunicazione paziente e disciplinata. L’epilogo se vogliamo è la cosa più debole: finalmente si riesce a organizzare una festa danzante e tutti si capiscono, perché come diciamo a Genova, “tutti hanno i suoi problemi”. Che poi la cittadinanza abbia qualità tersicoree degne di una compagnia di professionisti di Broadway e ogni paesanotto esegua al volo coreografie che neanche Franco Miseria in acido, è cosa che non si spiega, giacché ‘sti qui non dovrebbero ballare da anni, ma tant’è. Footloose è il classico film che unisce genitori e figli, maschi e femmine, finti ribelli e conservatori ed è girato con mestiere e astuzia (le scene/clip di ballo, per esempio). Non lo vedevo dagli anni Ottanta: siamo rimasti catturati (anche se Barbara ogni tanto russava come un tricheco) e mi sono divertito, provando piacevole imbarazzo nel ricordarmi certe scene o taluni dialoghi e scoprendomi prigioniero di una trama scopertamente reazionaria e commerciale nel più ambiguo dei modi. Avrebbe dovuto girarlo quel fessacchiotto di Cimino ma glielo tolsero dalle mani dopo pochi mesi, sostituendolo col navigato e professionale Ross. Tra gli attori: Lori Singer, Chris Penn e Sarah Jessica Parker, oggi star di Sex and the City e già qui ossessionata. Colonna sonora spesso sintetica, ma con la title track rockeggiante e gustosa. (Diretta su Italia1; 1/09/01)
180 — Memento del mnemonico Christopher Nolan, USA 2000
Caution spoiler area. Sabato sera supergiovane al cinema a tre passi da casa. Ci portiamo dietro Simona, che a fine visione ululerà di rabbia, non avendo capito una minchia. In effetti, già dopo la prima sequenza, capisci che saranno cazzi amarissimi, infatti il film alterna l’ultima scena del plot con la prima, la penultima con la seconda e così via, concludendosi con l’inghippo risolto solo alla fine quando si arriva al nodo centrale della vicenda. Non ci avete capito una mazza? Neanch’io! Memento è una grande ideona formale che fa risplendere il contenuto, che però dopo un po’ mostra la corda. Nel senso che lo sforzo che ti richiede (titanico, per me) non è premiato dalla lunga durata e dalla soluzione dell’intrigo. Forse. O forse no, perché mica so se ho capito tutto, sai? Comunque il film si fa vedere eccome, anche se non siete tra quegli eccentrici che amano bere l’urina o giocare con la Settimana Enigmistica, ecco. Leonard è un ex investigatore assicurativo con un problemino mica da niente: non ha più memoria breve, cioè dimentica in pochi minuti tutto quello che gli accade — più o meno quel che succede a me mentre vedo il film e che avrei difficoltà a seguire anche in rigoroso ordine cronologico. Ricorda solo ciò che ha acquisito prima di un fantomatico incidente in cui la moglie è stata violentata e uccisa e il suo unico scopo – dimenticando in tutti i sensi il resto – è uccidere John G., l’assassinio della consorte. Memento inizia con Leonard (Guy Pearce, faccia da bambolo lesso e perverso) che fa secco Teddy. E lo ammazza perché non deve credergli, secondo ciò che si è annotato in passato su una polaroid, una delle tante istantanee che utilizza per ricordarsi tutto: la faccia di chi fidarsi, dove tornare a dormire, qual è la sua macchina. Mentre la storia si riavvolge e va avanti, capiamo che Natalie (la superba Carrie-Anne Moss), per esempio, lo ha utilizzato ai suoi fini. Leonard fa ricorso alla scrittura continua di ciò che deve ricordare, particolarmente sul suo corpo dove i tatuaggi sono le informazioni definitive, incise nella carne, quelle a cui credere assolutamente. Se ho capito bene Teddy è un poliziotto che ha usato la rabbia vindice di Leonard e poi è rimasto vittima anche lui del meccanismo che sfrutta (rivela a Leonard che gli ha fatto ammazzare un uomo facendogli credere che fosse John G., di conseguenza non è degno di fiducia). Quello che non si capisce (e probabilmente non si vuol far capire, per lasciare tutto in un limbo interpretativo) è quanto la morte della moglie sia vera o inventata da Leonard per giustificare la sua missione nei confronti di ‘sto cazzo di John G. (e di conseguenza se questo imperativo non fosse stato creato da qualcuno che voleva sfruttare il disturbo di Leonard). Il dubbio viene perché prima dei titoli di coda appare una breve sequenza di fotogrammi in cui c’è Leonard già tatuato, a letto abbracciato alla moglie. E si intravede che sul torace Leonard s’è scritto “I’ve done it”, tatuaggio che aveva promesso di farsi allorché avesse compiuto la sua missione (ricordandoselo). Un gran casino, insomma, e mentre scrivo è già passato qualche mese dalla visione, per cui è probabile che abbia scritto delle fregnacce clamorose. L’idea — come detto — è splendida (sia lo spunto narrativo, sia il montaggio) e la difficoltosa messa in scena mi pare coerente. Il difetto principale di Memento è però nella lunghezza (1 ora e 50), un tempo che, dovendo rielaborare continuamente quello che scopri, è pesante: il finale ti arriva tra capo e collo quando sei già tramortito da decine di informazioni da mettere nel giusto ordine cronologico. Però io ho il lobo parietale offeso e non faccio testo. Fate voi. (Cinema Mexico, Milano; 1/09/01)
181 — Freaks dell’ambiguo Tod Browning, USA 1932
Il week-end è passato tra lavoretti vari, non ultimo la messa a punto del nuovo PC battezzato Gioacchino su cui ora sto allegramente digitando. Ma alla cena manca ancora un’oretta. Azzardo una proposta indecente (le uniche che so fare) e Barbara cede al primo colpo. Chissà cosa si credeva. Freaks è corto, ma potente. L’avevamo visto già tante volte, ma l’ho ribeccato una notte trasmesso a tradimento da Fuori Orario e non ho saputo resistere e adesso mi rinfresco la memoria. In un circo ambulante la trapezista Cleopatra circuisce un nano per impadronirsi della sua eredità. Ma la vittima se ne rende conto e orchestra una terribile vendetta assieme agli altri freak del circo — un cast di nani e ballerine paragonabile a quello di Buona Domenica, solo un po’ meglio —, riducendo la maliarda a una sorta di donna-gallina, dopo giulive amputazioni. Tra l’altro la maliarda è tale Olga Baclanova (a-aah! Ecco chi!) ma ho pensato per tutto il film che fosse Dita Parlo (quella de La magnifica illusione e L’Atalante, per noi cui piacciono le pollastrelle fresche fresche), probabilmente perché Madonna, donna-gallina nella realtà, ostenta autentica venerazione per la Parlo ma in realtà assomiglia molto alla Baclanova. Non so cosa c’entri tutto ciò, ma questi sono strani giorni. Tra l’altro, scusate: se la cantante Veronica Louise Ciccone, cioè Madonna, è un po’ zoccola, è una bestemmia unire il suo nome artistico al termine “porca”? Ok, basta, fine ricreazione. Torno a Freaks: morale del film — stringendo stringendo — è che, deformi, spaventevoli, orrendi, nel bene e nel male e anche nell’esercizio della vendetta, sono come noi, sono/siamo noi. Il film ebbe grossi problemi (in Gran Bretagna è stato a lungo vietato) per come metteva in scena deformità e handicap in maniera decisamente cruda. E poi: Browning era furbo o sincero? Voleva veramente innalzare un canto a queste vittime della natura o giocare con la loro immagine e far presa sul pubblico guardone? Oggi Freaks vale più come documento storico che per oggettivi meriti di regia (a tratti proprio elementare), ma sa ancora disturbare esponendoci alla nostra cattiva coscienza. Bello. (Vhs da RaiTre; 2/9/01)
182 — La rabbia giovane del filosofico Terrence Malick, USA 1973
La rabbia giovane è un film splendido e terribile perché nella sua semplicità parla di tutto senza mai essere didascalico. Due giovani in fuga attraverso l’America, irrequieti, banalmente violenti, infantili e puri. Contraddizioni che convivono senza forzature in una narrazione placida, un canto sommesso al Big Country dove c’è spazio per la fuga. Questa è una dichiarazione di libertà assoluta, accettandone le più estreme conseguenze. Ci sono la gioventù, l’innocenza, la bellezza, il viaggio, i media, l’eroismo, la ribellione senza causa apparente e la frontiera sterminata, così come – streminata – è qualche vittima incontrata per strada. Sissy Spacek, giovanissima, ha già la consueta inquietante faccia da strega di Salem e infatti poi diventerà Carrie, pessima come una canzone degli Europe (questa non la capisce nessuno, lo so). Lui è Martin Sheen, un po’ Marlon, un po’ James. La rabbia giovane è il brutto titolo affibbiato dalla distribuzione italiana e anticipa rozzamente quello che il titolo originale (Badlands) suggeriva. Ci sarebbe da discettare a lungo su Springsteen, ma non ne ho voglia e vi ricordo che il Boss ha omaggiato il film nella title track di Nebraska, non nell’omonima Badlands di Darkness on the Edge of Town. (Sono comunque due canzoni splendide in due album splendidi). (I Badlands erano invece una band hard rock di capelloni, confusi con tanto hair metal di inizi anni 90 ma in realtà bravi e blueseggianti. Così, tanto per dire). (Vhs da Tele+; 2/9/01)
183 — Ovosodo cotto a puntino da Paolo Virzì, Italia 1997
Lumière, quattro anni fa, assieme a Pitta e Franti. A me era piaciuto, a loro pure. A tutti gli altri che lo avevano visto in altre occasioni, no. A Pier Paolo, a Zook, all’Alessandra: niente, bocciato (si chiama name dropping, questo, mi dicono). Lo trovavano irritante, non veritiero, non rappresentativo. Boh: condussi una battaglia persa in partenza e mi acquietai. Oggi lo passa la Rai e Barbara, che non l’aveva visto allora, ottiene la rara visione in diretta. E anche stavolta il film mi piace. Anzi, vi dirò di più: mi piace tanto. Trovo tenera la storia, ben gestita come ritmo e invenzioni, ben diretta e ben recitata. Forse i quattro anni passati hanno abbassato la soglia del mio gusto, ma a fine visione sono proprio soddisfatto e avrei voglia di chiamare tutti i detrattori testé citati e farmi una bella litigata come si deve, eccheccazzo. Ovosodo, Gran premio della Giuria a Venezia ’97, racconta di Piero, figlio della dura Livorno operaia, con madre morta, padre carcerato e fratello handicappato. L’adolescenza è a margine dei ricchi, sfiorando la vita di Tommaso, ricchissimo che cade sempre in piedi e mai avrà problemi. Si passa dall’idealizzazione della maestra delle scuole medie al ricordo del 1982 da campioni del mondo di calcio; si rievoca la visione della topa (omaggio/plagio di Pazienza) o la guerra del 1991 nel Golfo. Colpi al cuore, illuminazioni, sgomento di fronte al diventare grandi e scoprire le cose (come le belle pocce di Regina Orioli). Piero cresce tra Che Guevara e Marcos, Ian McEwan e Benni, Chatwin e Pennac, la caduta del muro e Tien An Men, ma al di là della libresca istruzione liceale, sentimento e politica troveranno maturazione vivendo la fabbrica e dovendo portare a casa uno stipendio per il figlio. Intanto l’amico Tommaso troverà il modo di fare altri soldi senza mai stillare una goccia di sudore. Perché Ovosodo mi fa simpatia? (Non so se è bello, ma mi fa tanta, tanta simpatia, questo sí). Perché Gabbriellini te lo baceresti e la sua storia è vitale, sincera, dolce e amara, senza mai scadere nella commediola furbetta, fatta per piacere a tutti. E poi ho sempre odiato i falsi teatranti universitari e i borghesi veri che si schiantano di canne e si fanno problemi esistenziali, tanto poi, quando smettono, papà gli ha già preparato il posto. (Diretta su RaiUno; 3/9/01)
184 — Fratello, dove sei? di un perfuntorio Joel Coen, USA 2000
Tre evasi, nel Sud della Grande Depressione. Fuga e incontri, inseguiti da uno sceriffo demoniaco e accompagnati di volta in volta a un predicatore ladro, a un gangster alla ricerca della fama o a un bluesman nero che ha venduto l’anima al diavolo. I Coen si divertono un mondo, si vede. Chi non si diverte per niente sono io, con le palle in un frantoio, che desidero una trama vera, non un sottile filo per vedere i due fratelli sbizzarrirsi in tanti pastiches che alla fine rimangono inerti “corti”. Temevo questo film per i racconti di amici rimasti esterrefatti e lo avevo inseguito senza impegno mentre era nelle sale, perdendolo ogni volta per i più futili motivi (“Stasera ho un peso allo stomaco”, “Il cinema è scomodo e ha pure la proiezione trapezoidale, il fuoco scomposto, il mascherino sbagliato, la cassiera scortese”, etc.). Era il tacito segnale che né Barbara né io avevamo voglia di vederlo. Poi, di fronte alla mancanza di titoli che non avessimo già visto, abbiamo deciso di rischiare. Fatto sta che nella prima mezz’ora ho fatto veramente fatica a tenere gli occhi aperti. Adesso, da sveglissimo, direi che il titolo è l’invocazione del regista al fratello sceneggiatore perché quest’Odissea nel profondo sud, tra musica doo wop e country, Ku Klux Klan ed elezioni combinate è un autentico sfasciamento genitale senza direzione. Vagabondaggio omerico, okay, ma dammi una meta, un arrivo e soprattutto un senso al percorso. La messa in scena è molto curata, gli attori si ripetono un po’ (Clooney gigione, Turturro mattocchio), la musica è gradevole giusto il tempo della visione del film, le scenette comiche talvolta funzionano, altre sono troppo infantili per sorridere senza sentirsi un po’ ciula. A Cannes, dov’è stato presentato, Fratello, dove sei? è piaciuto; sui quotidiani l’accoglienza è stata più tiepida, ma sostanzialmente non s’è verificata nessuna scomunica. Va bene un film di personaggi come Il grande Lebowski, un film di immensi personaggi, in cui sentivo la mancanza di un plot forte, ma in questo Fratello, dove sei? manca un po’ tutto: una storia da seguire, personaggi da amare, illusioni da farsi raccontare. ‘Na stronzata, insomma. (Vhs originale; 4/9/01)
185 — Il giardino delle vergini suicide della figlia di Coppola, USA 1999
Film chiacchierato, visto da chi se ne intende, perso per un pelo nei cinema di mezza Milano e poi rincorso in videocassetta, aspettando la serata giusta. La serata è arrivata e… e bella musica, belle gnocche, bella fotografia, bella storia intrisa di nostalgia, mistero e conturbante voyeurismo e bla bla bla. Per un po’ ho avuto come l’impressione che Il giardino delle vergini suicide fosse il classico filmetto fatto dalla figlia di papà artistoide. In realtà i meriti della regista Sofia vanno al di là dell’illustre progenitura che, d’altro canto, qualche vantaggio avrà pur rappresentato. Ma questi son discorsi odiosi, ché magari lei è brava davvero e si merita tutto quello che ha ricevuto in dote, come, chessò, Emanuele Filiberto, per dirne uno. Vabbeh. Il film è sottile, impercettibile, e la qualità narrativa ci mette un po’ a convincerti. Ti entra sotto pelle e pian piano ti conquista. Quando Sofia Coppola viaggia sull’onda del ricordo e della ricostruzione storica, mediata dalla fantasia personale, riesce a costruire porzioni di racconto vagamente oniriche molto convincenti. È meno brava quando aggiunge delle svisate comiche, appesantendo una storia che non ha bisogno di sarcasmo. Ma tolte queste ingenuità rimane un gradevole sentimento ambiguo. Il legame fortissimo tra cinque sorelle intriga tutti i ragazzi del vicinato. Cosa lega queste splendide ragazze? Perché, morta suicida la più giovane, tutte le altre la seguiranno? Perché la reazione all’oscurantismo della madre (la Turner, appesantita come un tino di filtrazione per birra) è la deliberata scelta di lasciarsi morire, appassire, come gli alberi del viale destinati a essere abbattuti? Il film non vuole dare una risposta esplicita, lasciando anche a noi la malia del dubbio. I protagonisti del film s’interrogano raccogliendo e toccando tutto quello che riguardava le ragazze; noi proviamo a penetrare il mistero vedendo porzioni di memoria altrui. Non so quanto sia una metafora voluta, ma sembra quasi che il mistero riguardi anche un’epoca che era al tramonto per alcuni, per altri non ancora sbocciata. Le cinque ragazze, così solidali, così legate da un indicibile vincolo naturale, sono hippies-to-be, soffocate dalla borghesia di paese, dove la controcultura non sarebbe mai arrivata. Ma magari è un viaggio che mi sto facendo io, eh? Splendida la colonna sonora originale degli Air (molto fluidorosate, se capite cosa intendo) e non male le scelte di repertorio con le Heart, Todd Rundgren e gli Sloan. (Vhs originale; 5/9/01)
NO CHE NON CADONO
Tu, cosa facevi quell’11 settembre?
Avevamo previsto un cinema con Matteo e Nuria e poi è successo quel che è successo. Dopo pranzo stavo entrando in riunione, quando un redattore si affaccia alla porta e la butta lì: “Un aereo ha colpito un grattacielo a New York. Strano come incidente, no?”. E da lì il delirio, anche perché quando arriva il secondo aereo siamo tutti davanti alla tivù e vederlo in diretta ti fa realizzare in una frazione di secondo che, no, non è stato un incidente, quello di prima. Impossibile lavorare, mentre arrivano gli s.m.s. satirici, si diffondono notizie inverificabili (200 aerei in volo persi di vista) e body count scomposti, e aleggiano quesiti oziosi (cadranno, le torri? No che non cadono, dice lo strutturista, è impossibile) su immagini sempre più terrificanti. Poi si parla di un aereo sul Pentagono (sul Pentagono?!) e ancora non ci fanno vedere il buchetto e la bruciatura che può giusto procurare una scoreggia. L’angoscia cresce. E anche un po’ di revanscismo contro chi il buchetto e la bruciatura te l’hanno fatto per mezzo secolo. Il film catastrofico perfetto (L’inferno di cristallo + Independence Day) stavolta è vero, reale, in diretta. Ero lì dieci giorni fa, proprio in cima alle torri, a vedere l’opulenza dell’Impero. Ho toccato con mano la prepotenza, il sistema diviso per classi e mascherato dalla finta ricchezza a cui tutti credono di attingere. Son stato male, letteralmente, di fronte allo spreco. Oh, son genovese, io, e spengo la luce non solo quando esco da una stanza, ma anche quando ci son dentro. E lì, a New York, mi trovavo col naso per aria, la notte, a vedere il lucore incredibile sparato verso il cielo, mentre a terra dovevo stare attento a non calpestare un barbone o una pantegana. E adesso mi turbina tutto in testa, coi sensi di colpa e l’ipocrisia, e le immagini di questa vendetta biblica che ha colpito il supremo peccatore e corruttore del mondo e la paura per quello che accadrà domani. Finché non arriverà la risposta di Bush. Sbagliata.
186 — Bowfinger di un grande Frank Oz, USA 1999
Bowfinger è uno scalcagnato regista che vivacchia ai margini di Hollywood, sempre in attesa del grande colpo. La sceneggiatura di un non professionista lo entusiasma e decide di provare il colpo della vita. Assieme a un cameraman intraprendente mette in piedi una produzione raccogliticcia, esaltata però dalla presenza di un vero divo. Come ha fatto a convincerlo? Beh: le scene verranno girate a sua insaputa, in candid camera. Il divo è Kit Ramsey (Eddie Murphy), un paranoico attore nero di grandissimo successo che si sente al centro di un complotto planetario e non solo: è ossessionato dal far vedere il suo pistolino alle cheerleaders dei Los Angeles Lakers. Lo aiuta un guru (Stamp) che gli fa ripetere un semplice mantra: “mente calma, mente calma…” e lo convince che: 1) non ci sono alieni; 2) nessun piede gigante lo schiaccerà; 3) probabilmente non sarà vittima di autocombustione. Ma le esigenze dello Z movie di Bowfinger rendono vana ogni autodisciplina: al povero Kit appaiono marziani, i poliziotti si sfaldano davanti ai suoi occhi, una misteriosa sgnacchera lo invita a salvare l’umanità. Parodia di certo cinema (come genere, come pratiche produttive, come sottobosco) Bowfinger è anche un inno al cinema fatto col nulla. Sarà costato miliardi, ma sembra sincero e lo si intuisce nel momento in cui tutti i protagonisti (al loro posto: le star nelle poltrone buone, gli sfigati in prima fila con lo schermo triangolare) si commuovono rivedendo le scene che hanno contribuito a creare. Un film potrà non essere una gran cosa, ma è un sogno fissato su celluloide, è uno sguardo che passa alla storia, regalato agli spettatori. E poi il film si chiude con le nuove avventure dello strampalato team: una trasferta taiwanese per un wuxiapian in piena regola, perlomeno secondo le intenzioni di Bowfinger. Gran spasso. Tolto l’inizio stentato e qualche trovata comica telefonata (l’attrice esordiente Daisy che fa carriera passando di letto in letto), ha brio e gusto. Parte fiacco, facendoti temere la commediola stupidotta, poi Eddie Murphy prende il sopravvento, il ritmo cresce, le ghignate si sprecano. Conto almeno quattro grandissime scene comiche, pensate genialmente e realizzate altrettanto bene, con un talento (Murphy) a briglia sciolta. Più controllato Steve Martin (autore anche dello script) che sembra mettersi da parte per lasciar spazio all’incontenibile verve comica del partner. (Vhs da Tele+; 13/9/01)
187 — Point Break dell’ex di James Cameron, USA 1991
Se lo becchi al volo, in diretta, che fai? Ti butti, come Johnny Utah (Keanu Reeves), FBI, matricola a pieni voti a Los Angeles. Giovane, bello, carrierista: primo caso da risolvere la “banda degli ex presidenti”. Lo aiuta un veterano (Gary Busey, già in Un mercoledì da leoni). Si indaga su un gruppo di surfisti (trovato in maniera non troppo credibile, va detto) e Johnny rimane affascinato dal capo carismatico, Bodhi – che starebbe per bodishattva, ma evidentemente anche per “corpo”. Patrick Swayze è un filosofo del surf, dell’adrenalina come droga naturale e tutto il film si basa su quest’esaltazione della fisicità. Lo fa (non particolarmente bene) a parole e (invece benissimo) con l’azione: l’etica vitalistica dei protagonisti appassiona e anche noi come Johnny rimaniamo soggiogati dall’intraprendenza di Bodhi. Tra un onda gigantesca, un lancio nel vuoto senza paracadute e una rapina, Johnny rinuncerà a far arrestare Bodhi in nome di un’affinità, più che di un’amicizia, e soprattutto per rispetto della vocazione di un rapinatore che con le rapine — sempre senza feriti — si pagava la sua favolosa esistenza a base di festini sulla spiaggia, inseguendo l’onda perfetta. Ideologicamente si direbbe un film confuso e dalla trama perlomeno improbabile, ma è qui che risiede la sua forza: la regista non si preoccupa di costruire una vicenda attendibile, preferisce giocare con tante piccole nuances: legami omosessuali, virilità esibita e latente, eroismo decadente, sottile misoginia che è anche denuncia (la donna è debole e ingannata), culto del bello (come gesto e come corpo). Kathryn Bigelow sa fare i film più maschili di Hollywood, con la sensibilità tutta femminile di esaltare le forme e i dettagli (è ovvio che sto sguazzando in beceri luoghi comuni) e fornire un intrattenimento di alta classe: le due ore passano in un baleno e non ci si chiede come si possa dar retta a una trama così piena di accadimenti farlocchi. Tra gli attori c’è Anthony Kiedis, cantante dei Red Hot Chili Peppers, che rimedia un piede bucato. (Diretta su RaiTre; 15/9/01)
188 — La nona porta dell’effettato Roman Polanski, Francia/Spagna 1999
Il film parte alla grande, si sviluppa lentamente, convincendo, proprio come certo cinema degli anni Settanta; poi il poderoso impianto mostra delle crepe e nel finale va in vacca di brutto. Probabilmente il testo di Perez-Reverte cui Polanski s’è attenuto prevedeva questo sfaldamento, ma tra l’incedere thrilling, gli inserti sdrammatizzanti con la Seigner demone angelico e salvifico e il finale paranormale, il pastrocchio sembra inevitabile e le due ore e rotti di visione assumono tutt’altro significato. Peccato. Forse, però, è un problema mio che se sento puzza di zolfo sospendo ogni sospensione di credulità. Qui la vera sorpresa, comunque, non è nella rappresentazione, ma nei contenuti: c’è una placida sospensione di giudizio sull’operato satanico e ditemi se non è poco. La storia: Dean Corso (Johnny Depp con nome curiosamente beat) è un mercante di libri. Viene assoldato da un sinistro satanista, Boris Balkan, che vuole sapere se un suo libro demoniaco (di cui esistono altre due copie al mondo) è l’originale. Corso va in Portogallo e poi a Parigi a confrontare le diverse copie e scopre piccole differenza che se ben interpretate consentirebbero di oltrepassare la nona porta, l’ultima di un cammino iniziatico che porta all’illuminazione da parte di Lucifero. Bella tensione durante la progressiva scoperta del mistero, molto meno durante il finale, nonostante il rovesciamento inaspettato (l’eroe riceve due premi diabolici: uno carnale — leggasi chiavatona — e uno spirituale). Depp è l’eroe senza qualità, la Seigner il diavolo in scarpe da tennis. Fotografia scura e profonda di Darius Khondji. Nel cast anche Lena Olin, generosa e non meno luciferina della Seigner. (Vhs originale; 17/9/01)
189 — Sangue vivo del nobile Edoardo Winspeare, Italia 1999
Che fosse un bel film lo sospettavamo. Tantissimi riconoscimenti, articoli e anche l’invito al Sundance Film Festival, che se non altro significa un’attenzione che va al di là dei nostri confini nazionali. Lo abbiamo sul videoregistratore da tre giorni, ma Barbara tentenna e anche stasera prova a farmi perdere la pazienza. Prima vuol vedere Report. Dovremo pure pagare la penale. Quando Report è alle battute finali mi sfogo come un bambino di due anni e finalmente vediamo Sangue vivo, pur sapendo che sarà dura cominciare un film in dialetto salentino alle 11 di sera, prevedendo pure un passo narrativo iraniano… Per fortuna Sangue vivo non è pesante: ha ritmo, è alleggerito dalla taranta e dalla pizzica e possiede belle facce di attori. Due fratelli sono divisi da una tragedia che ha portato via il padre. Uno si arrangia con traffici poco puliti. L’altro si accompagna a balordi e si droga. La musica è l’unica cosa che potrebbe unirli. Finirà male, com’è ovvio. Il distributore, L’Unità, parla di thriller psicologico, ma non è vero niente. Tutto quello che ci viene raccontato non è lontano da cose risapute, ma c’è una grazia registica, una passione per i colori, i volti, i suoni, che è raro trovare nel nostro cinema. Ecco un film a basso costo dove non si sente la mancanza di denaro. Secco, pulito, generoso: un buon film. Tornando alla distribuzione de L’Unità: se è corretta la trasposizione su nastro, è però imbecille mettere i sottotitoli sulla pellicola e non nello spazio nero risultante sotto, eh. (Vhs originale; 20/9/01)
Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni
(Continua — 15)