di Maria Maddalena Mapelli
[Saggio pubblicato sul n. 347 della rivista Aut Aut, “Web 2.0. Un nuovo racconto e i suoi dispositivi”, luglio-settembre 2010. Maria Maddalena Mapelli, filosofa, si occupa di Rinascimento, virtuale e formazione. Coordina il blog Ibridamenti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.]
Facebook [1] — quattordici milioni [2] di utenti italiani — è un dispositivo social (siamo tutti “amici”) e sicuramente di successo (ma come, non sei su Facebook?), ma è anche un dispositivo persuasivo , nel senso che induce comportamenti automatici e prevedibili (ci vuole, appunto, tutti veri e social ) e al tempo stesso omologante, nel senso che induce, in noi utenti, assetti identitari, modalità di interazione e di narrazione, regimi di visibilità che ci rendono seriali e simili. Su Facebook si è più soggetti costituiti, che soggetti costituenti. Facebook accentua caratteristiche già presenti in altri luoghi della rete, rivelandosi così un esempio significativo di dispositivo-specchio, cioè di dispositivo che crea effetti di somiglianza con il “reale” e impone specifici assetti identitari.
Il dispositivo, dice Deleuze sviluppando un concetto foucaultiano, [3] è una macchina per far vedere e per far parlare : consideriamo allora anche i social network come dispositivi che abitiamo [4] e che orientano i nostri pensieri e la nostra immaginazione, disciplinano i nostri corpi e il nostro modo di interagire, veicolano, a seconda dei casi, differenti regimi discorsivi e di visualizzazione, promuovono, per continuare a usare la terminologia di Deleuze, processi di soggettivazione.
I dispositivi si rivelano appunto “regimi, da definire, del visibile e dell’enunciabile”, regimi di eventi discorsivi e non discorsivi al cui interno sono rintracciabili “linee di visualizzazione” e “linee di enunciazione” e, ancora, linee di fuga e di rottura innescate da precisi processi di soggettivazione. [5] Si tratta quindi di indagare, nei mondi virtuali contemporanei, la permanenza dei tratti distintivi dei dispositivi che hanno prodotto fin dall’antichità immagini virtuali e assetti identitari. Per dispositivi-specchio intendiamo dispositivi che producono immagini virtuali e perciò immagini riflesse; intendiamo quindi quelle macchine per far vedere e per far parlare generate all’incrocio tra saperi, pratiche (techne, arti) e poteri. Possiamo solo accennare ai capitoli di una genealogia del virtuale [6] che ne analizzi nei dettagli le caratteristiche: la catottrica euclidea, lo specchio non riflettente che nell’iconografia medievale è simbolo speculare del divino e del diabolico, [7] la macchina prospettica messa in scena da Brunelleschi, [8] lo specchio come fenomeno—soglia che “marca i confini tra immaginario e simbolico”, [9] lo specchio come metafora per eccellenza del filosofare [10] (metafora dei teologi, dei mistici e degli eretici, metafora-soglia tra uno e molteplice, visibile e invisibile, umano e divino, finito e infinito, documentale e finzionale), lo specchio come metodo per conoscere e accedere alla verità (dalla rivalutazione della facoltà aristotelica della phantasìa [11] avvenuta in età umanistico rinascimentale, alla recente scoperta dei neuroni-specchio [12] ). E ancora: lo specchio “maestro de pittori” (Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura ), lo specchio come elemento semiotico [13] che, all’interno del dipinto, inaugura una riflessione sui rapporti tra autore, opera e spettatore (Van Eych, Il ritratto degli sposi Arnolfini ) pe r divenire, poi, matrice dell’autoritratto e del ritratto proprio nel momento in cui, attorno al 1450 in Europa si affina l’arte di fabbricazione degli specchi piani grazie all’invenzione, da parte dei veneziani di Murano, del vetro cristallino , per approdare appunto ai dispositivi-specchio contemporanei che generano, incessantemente, attraverso gli schermi dei nostri computer, immagini virtuali.
Fatte salve le discontinuità e le linee di frattura presenti nella storia di lunga durata dei dispositivi-specchio , un elemento di continuità è rintracciabile nel fatto che, da sempre, l’immagine virtuale (l’immagine generata da uno specchio) appartiene all’ambito della techne : le immagini virtuali prodotte da uno specchio sono frutto di una techne di produzione umana. Il loro statuto ontologico, quindi, è differente da quello dei riflessi naturali, come l’immagine riflessa di Narciso che si specchia ad una fonte d’acqua, o come le ombre della caverna di Platone: le immagini generate da uno specchio sono invece artificio, illusione, inganno (allucinazione). Ecco che gli stessi dispositivo-specchio veicolano regimi discorsivi differenti – se non contrapposti – a seconda che in essi prevalgano la valorizzazione o la non-valorizzazione della techne , della capacità, tutta umana, di produrre, nel nostro caso, immagini virtuali e di veicolare assetti identitari.
I dispositivi-specchio: contro-spazi tra utopia ed eterotopia
Che tipo di dispositivo è lo specchio? Foucault mette a tema lo statuto speciale e ambivalente dello specchio quando definisce le utopie e le eterotopie . Lo specchio sta nel mezzo: è sia utopia “che consola” che eterotopia “che inquieta”. [14] Cerchiamo di capire perché.
Secondo Foucault, le utopie sono “spazi privi di un luogo reale [15] ”. Le utopie “ hanno con lo spazio reale della società, un rapporto generale di analogia diretta o rovesciata. Si tratta della società stessa perfezionata o del suo rovescio, ma, in ogni caso, le utopie sono degli spazi essenzialmente e fondamentalmente irreali”. [16]
Le eterotopie sono, invece, luoghi altri : “dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che sono predisposti nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili.” [17]
Esempi di eterotopie, di luoghi altri , tratti dal quotidiano sono, per i bambini, “l’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine […] il grande letto dei genitori” [18] , mentre per la società, i “contro-spazi, le utopie situate, i luoghi reali fuori da tutti i luoghi sono i giardini, i cimiteri, i manicomi, le case chiuse, le prigioni, i villaggi del Club Méditerranée e molti altri [19] ”.
Torniamo quindi allo specchio, che è esperienza “mista, esperienza promiscua […] tra le utopie e questi spazi assolutamente altri, queste eterotopie [20] ”. E’ in primo luogo un’ utopia : “Nello specchio mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, io sono laggiù, là dove non sono, una sorta di ombra che mi dà la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi là dove sono assente: utopia dello specchio [21] .”
Ma lo specchio, è anche un’ eterotopia : “funziona come un’eterotopia nel senso che restituisce lo spazio che occupo, nel momento in cui mi guardo nel vetro, come un posto assolutamente reale, connesso a tutto lo spazio che lo circonda, e al tempo stesso assolutamente irreale, perché, per essere percepito, deve passare da quel punto virtuale che sta laggiù [22] ”
Fin qui Foucault. Ora esemplifichiamo: lo specchio è utopia ed eterotopia: è vetro, manufatto, luogo esistente, prodotto tecnologico, che posso vedere, toccare, che, in quanto tale entra in relazione con me, e con tutto ciò che lo circonda. Al tempo stesso, tuttavia, lo specchio genera, attraverso la riflessione, luoghi che sono, rispetto a me che ne faccio esperienza, non-luoghi: si tratta di riflessi, di immagini virtuali, che si collocano, rispetto alla mia fisicità, in una dimensione altra, in un non-luogo. L’immagine prodotta da uno specchio piano, infatti, non è reale, bensì è virtuale: rispetto a me, che sosto in questo momento, davanti ad uno specchio, la mia immagine riflessa non possiede lo stesso statuto ontologico che dà esistenza e consistenza alla mia persona fisica. E ancora: la mia immagine riflessa nello specchio non possiede nemmeno la mia stessa forma: il fenomeno della riflessione produce, infatti, un’inversione dell’asse fronte-retro, crea un mio doppio “speculare” che è solo apparentemente uguale alla mia persona.
Il dispositivo specchio, quindi, crea effetti di realtà e di somiglianza senza creare oggetti esistenti né copie identiche. D’altro canto, è attraverso lo specchio, è attraverso un dispositivo reale che, tuttavia, genera immagini riflesse virtuali, che facciamo esperienza di noi stessi, dell’immagine altrimenti inaccessibile del nostro volto, dei confini del nostro corpo, della presenza di un io unitario. E’ all’interno di un’immagine riflessa virtuale, è a partire da un contro-spazio, che veniamo, in parte, costituiti così come siamo.
Poiché lo specchio è un artefatto crea utopie situate, crea eterotopie, ci fa fare esperienza di mondi che si presentano come apparentemente reali: è un efficace generatore di effetti di somiglianza e di assetti identitari.
Questa è dunque la caratteristica dei dispotivi-specchio: sono al tempo stesso generatori di utopie, e, contestualmente di luoghi-altri — eterotopie — in cui hanno origine continui riassestamenti, rovesciamenti e frammentazioni degli ordini discorsivi, dei regimi identitari e di visibilità degli assetti esistenti. Lo specchio moltiplica i piani dell’esistente attraverso un’incessante produzione di non-luoghi e di contro-spazi a partire dai quali accoglie e genera regimi di eventi discorsivi e di eventi non-discorsivi chiamati, ogni volta, a sovvertire, dissipare, opporre resistenze, rispetto a tutto ciò che sembra aver trovato un suo luogo “reale”, codificato, stabile e rappresentabile.
Nei dispositivi-specchio moderni e contemporanei, inoltre, l’immagine virtuale riflessa è fissata da un pittore o da un fotografo o da un utente della rete in un dipinto, in una foto o in un video ed è resa perciò disponibile, eternamente presente e sottratta alla fugacità che la costituiva; ecco che il dispositivo-specchio rafforza la sua capacità di generare mondi apparentemente reali, potenzia la sua capacità intrinseca di creare effetti di somiglianza così efficaci da farci pensare di essere di fronte a mondi “reali”. Il dispositivo specchio può generare paradossi ancora più efficaci, divenire matrice di eterotopie che, senza più utilizzare una superficie riflettente, ma servendosi di un altro supporto materiale (come nel caso della tela, della carta fotografica, o delle immagini digitali) mantiene la stessa forza utopica ed inquietante del dispositivo stesso, pur non apparendo più come “specchio”.
I dispositivi-specchio sono, in definitiva, dispositivi che — siano essi effettivamente riflettenti o meno – unendo utopia ed eterotopia, moltiplicano incessantemente la produzione di piani e di modi differenziati della presenza. Sono quindi le matrici del nostro essere “virtuali”, contro-spazi in cui la dimensione della virtualità non è solo immaginata e rappresentata sul piano utopico, ma anche agita e vissuta, presentificata e attualizzata in quei luoghi che abitiamo ogni qualvolta ci guardiamo allo specchio o accediamo a Facebook attraverso lo schermo del nostro computer.
Il dispositivo specchio Facebook
Su Facebook, dicevamo, a differenza che nel blogging[[23], le cogenze del dispositivo rendono più standardizzati i processi di soggettivazione. Non solo perché su Facebook i processi attivi di soggettivazione e di costruzione identitaria si sviluppano sempre a partire dal dispositivo, ma anche perché Facebook è un dispositivo-specchio che produce serialità e omologazione: si è più soggetti costituiti, che soggetti costituenti.
Se infatti la decisione di aprire un proprio profilo in rete “costituisce una pubblicizzazione del sé, una sorta di promozione identitaria che, come per i marchi, passa attraverso una strategica proposta di un’identità visiva”, [24] Facebook accentua, fin dal nome, la rilevanza assegnata alla promozione di un’identità visiva di sé: è il libro delle facce.[25]
Solo che, rispetto alla libertà espressiva che il blog consente, fin dai primi atti che noi compiamo, nel momento in cui siamo chiamati a produrre un’immagine di noi stessi, Facebook ci persuade a seguire un preciso regime di visibilità che non è esplicitamente prescritto ma che si articola su una serie di ingiunzioni.[26] Nel momento in cui ci iscriviamo a Facebook e iniziamo a costruire il nostro profilo, ci viene chiesto di inserire il nostro nome-cognome, la data di nascita, un indirizzo e-mail, una descrizione di noi stessi e una nostra immagine, il nostro avatar, il nostro alter ego digitale. “Upload a profile picture” è l’ingiunzione che tutti noi riceviamo. Possiamo scegliere di non far vedere a nessuno o di condividere solo con gli amici, alcuni dei nostri dati sensibili, quali la data di nascita o l’indirizzo e-mail. Quel che invece non possiamo in alcun modo nascondere è il nostro nome e cognome e la nostra immagine. Se decidiamo di non caricarne alcuna apparirà, al posto del nostro volto, un’immagine poco attraente: un grande punto interrogativo che in calce rinnova l’ingiunzione “Upload a profile picture”.
Ora: non si dice né che siamo obbligati a farlo, né che dobbiamo pubblicare una foto “vera” di noi stessi: ma, se non lo facciamo, saranno i nostri stessi “amici” a sollecitarci, perché tutti su Facebook hanno una loro immagine!
Quel che è specifico di questo dispositivo-specchio è proprio il fatto che la quasi totalità degli utenti è indotto ad utilizzare il proprio nome e cognome anagrafico e a pubblicare una foto vera di sé. In questo senso la promozione visiva di sé risponde alle finalità del dispositivo stesso, che non lascia eccessivi margini ad un’articolazione creativa della propria immagine, ma che ci vuole tutti presenti in un certo modo, un po’ come nella nostra carta d’identità, con dati anagrafici veri.
Nei “Principi di Facebook” [27] che ogni utente accetta nel momento in cui vuole iscriversi (ma che quasi nessuno legge prima di accettarli) si dice con chiarezza che la trasparenza e la sicurezza sono tra le finalità prioritarie del dispositivo. Il tutto è meglio dettagliato nella “Dichiarazione dei diritti”: “Gli utenti di Facebook forniscono il proprio nome e le proprie informazioni reali e invitiamo tutti a fare lo stesso”. E ancora: “[…] l’utente si impegna a non fornire informazioni personali false su Facebook o creare un account per conto di un’altra persona senza autorizzazione […] ad assicurarsi che le proprie informazioni di contatto siano sempre corrette e aggiornate.”
Facebook insomma ci vuole veri e reali in quanto individui ; Facebook induce processi di soggettivazione individualizzanti: induce una visione monolitica e coesa dell’identità, vietandoci in modo esplicito di giocare con riposizionamenti creativi del Sé. Questo aspetto del dispositivo, tuttavia, proprio perché caratterizza un dispositivo-specchio , potenzia enormemente l’effetto di somiglianza al reale del nostro alter ego digitale : così come noi siamo indotti a dare di noi stessi un’immagine “ vera ”, assegniamo anche agli altri “avatar”, agli alter ego digitali dei nostri “amici”, una consistenza che in altri luoghi della rete non possiede la stessa forza persuasiva. La centralità assegnata alla “faccia”, al “vedersi” riporta in primo piano le immagini: le pratiche del singolo utente della rete appaiono imparentate con le pratiche umanistico-rinascimentali e tardo-rinascimentali della costruzione di reti di immagini . [28] Se è del tutto nuova la tecnologia che ci fornisce lo sfondo in cui operiamo, non appare del tutto nuovo il modo di intrecciare saperi e pratiche per costruire reti di immagini. A distanza di secoli, anche oggi, si riattualizzano, pur in contesti ben differenti, pratiche simili, pratiche cioè che legano assieme la scrittura (e con essa anche le parole e quindi l’oralità [29] di cui è permeata la scrittura digitale ) e le immagini (e perciò i codici iconici, i mondi del visibile , siano essi l’avatar scelto per il proprio profilo o una fotografia digitale prelevata nel web , o testi più complessi come video o digital storytelling ); [30] pratiche che presuppongono la condivisione, la negoziazione e la costruzione di codici per scambiare contenuti, per comprendere i messaggi degli altri, per interagire. Il virtuale di oggi, riconsegnando all’immagine un ruolo centrale nella messa in rete delle persone, ne rimette in gioco tutti i poteri: anche quei poteri che la cultura Occidentale ha, a più riprese, sottratto all’immagine. [31]
Se tutti siamo educati a fare esperienza del fatto che l’immagine ha il potere di rappresentare ciò che non c’è (essa è segno, è rinvio a ciò che è assente) non tutti siamo consapevoli del fatto che su Facebook e su altri ambienti virtuali si riattivano altri due aspetti, complementari al primo, e intrinseci ad ogni immagine, sia essa materiale o psichica: [32] il potere di contenerci (“ l’image” come “enveloppe” , come involucro che ci contiene) e il potere di trasformarci (l’immagine come icona che contiene una presenza e che, in quanto tale, ci trasforma, interagisce con noi, come imago in cui si presentifica una persona, un’ anima , un mana , come talismano che, se toccato o guardato, ci fa del bene). Questi poteri complementari acquistano dimensioni nuove che vanno esperite da ciascuno di noi, a seconda del dispositivo che abitiamo in rete.
Facebook è il dispositivo della rete che maggiormente ci persuade a mostrare il nostro vero volto, [33] e se avete un account su Facebook, già lo sapete: l’impressione è di essere tutti lì , di poter sapere in ogni momento quello che i nostri “amici” fanno (“amici” spesso solo virtuali, mai conosciuti nella realtà) e di sentirci liberi di raccontare loro (a persone che non conosciamo ma alle quali assegniamo lo statuto speciale di interlocutori fidati) ciò che in ogni momento pensiamo. E’ facile essere indotti ad attribuire alle interazioni su Facebook il valore di presenze reali. Gli effetti di illusione, gli “effetti di somiglianza”, e con essi i poteri magici e di fascinazione propri di ogni immagine sono, nei social network, e su Facebook in particolare, riattivati con forza. Alla fine di novembre 2008, compare su Facebook l’account Alessandro Baricco . Il passa parola — hei, Baricco è su Facebook! — fa in modo che centinaia di persone, nel giro di poche ore, inizino a interagire con lui. Lui scrive: “Alessandro pensa che Fb sia un viaggio per viandanti pazienti” e bastano poche parole per dare il via allo scambio dei commenti nel suo profilo. C’è la sua foto, c’è il suo nome e cognome, c’è la sua data di nascita, … adesso forse ci racconterà del nuovo libro che sta scrivendo .
Dopo cinque giorni il profilo Alessandro Baricco scompare. Che cosa è successo? Si è stancato? Così presto? O Facebook l’ha bannato [34] ?
Nulla di tutto ciò, quello non era Alessandro Baricco , lo scrittore torinese. Era Giorgio Cappozzo, che su L’Espresso titola il suo esperimento: Miracoli web. Per 5 giorni sono stato Baricco. [35]
Scrive Cappozzo: “Mi hanno scritto, hanno scritto a Baricco, molti vip . Francesco Baccini, Selvaggia Lucarelli, Melissa P., Isabella Santacroce, Fabrizio Rondolino, Tommaso Labranca, Stefano Disegni, Roberto Cotroneo, Tiziano Scarpa e altri. A differenza della gente comune , e salvo rare eccezioni, non hanno mai messo in discussione la verità del profilo”.
E’ davvero interessante leggere il resoconto di Cappozzo, perché ci fa entrare nel virtuale , ci fa capire come in esso i poteri delle immagini vengano riattivati, come con estrema facilità si familiarizzi con il nuovo evento, come con estrema rapidità si costituisca una Community — gli “amici” di Alessandro Baricco – e al tempo stesso si generino reazioni del tutto diverse, di fronte agli stessi oggetti virtuali: chi ci crede senza nemmeno porsi il problema ( “Onoratissimo, Maestro” ) chi invece ha dei dubbi (“ Sei veramente Alessandro? ) chi accetta di soggiornare tra finzione e verità (“ Non so se sei vero o falso, però anche così mi stai simpatico ”). Ancora più interessante è che proprio l’intrattenersi sulla soglia tra verità e finzione , fa crescere rapidamente una Community che si rende protagonista di una narrazione collettiva che supera di gran lunga, nei contenuti prodotti, le intenzioni alla base della sperimentazione. Viene da chiedersi: ma è il dispositivo Facebook che di per sé facilita l’emergere di narrazioni collettive e di spazi creativi? La risposta è no. Anzi, Facebook definirebbe Cappozzo un “impostore”, la sua sperimentazione “furto di identità” e spiegherebbe anche, per filo per segno, cosa devo fare “se qualcuno finge di essere me.” [36]
Altrettanto rigido, su Facebook, è il regime discorsivo che regolamenta gli aggiornamenti di stato: con un massimo di 420 caratteri, spazi inclusi, sono indotto a rispondere sempre alla stessa domanda che incessantemente si rigenera: “Cosa pensi in questo momento?”. La gabbia è a tal punto cogente che impone all’utente, nella risposta, l’uso della terza persona singolare perché in modo automatico fa iniziare la frase sempre con l’iterazione del proprio nome-cognome: la risposta, non appena pubblicata, oltre che comparire sul profilo, viene immediatamente resa pubblica nella home dove tutti i miei “amici” possono leggere che “Maddalena Mapelli in questo momento sta scrivendo un articolo su Facebook”. Se seguissi le prescrizioni e le ingiunzioni del dispositivo, mi limiterei quindi, a produrre brevi narrazioni standardizzate, all’interno di una “casa comune” accogliente, per tutti uguale e immodificabile, in cui i miei contenuti sono condivisi con i miei “amici”: in cui la mia identità viene articolata in modo standard, univoco e semplice e definita dalle appartenze che svelo attraverso l’iscrizione a gruppi o a pagine di personaggi famosi di cui mi dichiaro fan. Ma forse, proprio perché Facebook è un dispositivo-specchio fortemente persuasivo e omologante, proprio perché pone vincoli e regole precise, può essere, se usato con consapevolezza, potenzialmente molto più formativo di altri ambienti, nel momento in cui, a partire dal mio profilo, riesco a trovare le vie per aggirarne gli interdetti e per creare dei contro-spazi discorsivi e di visibilità che facciano riflettere sul dispositivo stesso. Paradigmatico è il modo in cui lo scrittore Aldo Nove è riuscito a spezzare la monotonia di narrazioni standardizzate e ha messo in scena modalità creative di produzione della soggettività. La sua messa in scena è fortemente marcata dal dispositivo Facebook; esso consente di prelevare dall’intero web immagini, video, testi, etc., e di condividerli facilmente e velocemente. Ma pur partendo dal regime di visibilità indotto da Facebook, Aldo Nove non si è limitato a condividere, con la Community dei suoi “amici”, un’immagine di sé monolitica, da carta di identità, ma ha fatto del suo profilo un contro-spazio sperimentale riuscendo a generare continui riposizionamenti identitari e nuovi regimi discorsivi. Il prezzo pagato, dall’estate 2008 ad oggi, per i suoi insistiti tentativi di forzare il dispositivo sottoponendolo a processi di soggettivazione attivi e innovativi, è stato di vedersi disattivare l’account (e azzerare perciò tutta la rete di contatti e tutti i contenuti prodotti) per ben sette volte. Anche la disattivazione è stata ogni volta aggirata, perché Aldo Nove si è ogni volta ripresentato su Facebook riaprendo lo stesso profilo e mettendo in scena una nuova narrazione. In che modo? Innanzitutto attraverso riposizionamenti creativi dell’immagine del profilo: in 28 giorni è arrivato ad alternare 110 differenti immagini di sé. Di queste solo tre non sono state copiate o importate dal web. I tre elementi atipici sono tre fotografie. La prima è la stessa del profilo Myspace Aldo Nove e rappresenta il volto dell’autore: è una foto-ritratto realizzata nello studio del fotografo milanese Piero Perfetto; così anche la seconda: “volevano essere fotografie convenzionali, fredde e eleganti.”[37] Ma già il secondo avatar messo in scena rappresenta la prima trasformazione: fa da contrappunto alla seriosità non invasiva della prima foto, la marcata espressività della seconda. La contiguità tra le due immagini è data dall’eleganza del formato, ma la discontinuità è già evidente e allude ad una modulazione del sé sul piano dell’informalità e dell’irriverenza. Di notevole interesse la terza fotografia: è un’istantanea digitale ritoccata con Photoshop che ritrae l’incontro avvenuto off-line tra Aldo Nove e due amici di Facebook: il vero volto dell’amico Bart è ritoccato e sostituito dal finto avatar del suo account su Facebook. Il gioco finzionale [l’inserimento dell’avatar al posto del volto vero] alberga all’interno degli elementi documentali del resto dell’immagine.
Basterebbero questi tre diverse articolazioni dell’identità visiva (formale-pubblica, espressivo-irriverente, mnestico-finzionale) per comprendere quali e quanti sono i possibili piani narrativi ad esse collegabili. Attraverso trasformazioni successive, Aldo Nove sperimenta innumerevoli riposizionamenti dell’identità visiva attingendo a piene mani dal database dell’immaginario collettivo già dispiegato nel web e in esso, in parte, già organizzato in sequenze narrative o potenzialmente tali. Si presenta, infatti, con altri 107 volti copia-incollati appunto dal web. La messa in scena della nostra memoria collettiva digitale attraversa così tutto ciò che la rete ingloba e che proviene da altri media. A partire dalla televisione. Televisione vuol dire immagini di personaggi pubblici, di leader politici, di volti legati a fatti di cronaca. Se Rosa Bazzi e il marito Olindo, già in carcere per il pluriomicidio di Erba, appaiono così come li abbiamo visti nei telegiornali, di Barak Obama (che fuma una sigaretta) e di Piero Fassino (con un’espressione e un ciuffo di capelli assolutamente anti-televisivo) se ne declinano invece versioni del tutto informali che le tv di stato e i quotidiani a tiratura nazionale non hanno mai rilanciato: il gioco del ribadire una dimensione plurale dell’io, fa costantemente da contraltare alla seriosità del dispositivo Facebook che definirebbe tutti questi cambiamenti dell’immagine di sé come “furti di identità”. E’ una sfida continua agli interdetti, sulla base della quale si sta costruendo un contro-campo discorsivo. Il farsi mondo, l’uscire da sé per diventare memoria visiva collettiva condivisa, fa incarnare Aldo Nove nel motore di ricerca Google e lo fa diventare anche Facebook stesso, nei giorni in cui la “faccia” dello scrittore diventa quella della pagina di Facebook. La rete di immagini costruita da Aldo Nove ci fa continuamente dialogare con il nostro immaginario multimediale; è comprensibile solo a partire dalla condivisione di eventi e regimi di visibilità che prima di diventare data-base visivo rintracciabile nel web, sono o sono state immagini costitutive del nostro vedere la tv. Questi codici visivi condivisi reimmessi in una narrazione costruita attraverso Facebook diventano contro-spazi sui quali possiamo tutti riflettere; Aldo Nove importa, filtra e inserisce in una dimensione narrativa propria ciò che trova o cerca in rete creando dei contro-spazi in/su cui gli amici sono costantemente invitati a riflettere/si. Un altro elemento utilizzato da Aldo Nove per forzare le gabbie di Facebook sono le figurine: sono le 12 immagini degli avatar di amici, di dimensioni ridotte, ben visibili sulla colonna sinistra di ogni profilo. Nel caso specifico acquisiscono la valenza di strumenti-immagine.[38] Il suo album delle figurine ha ospitato, in alcune fasi, avatar di pornostar: “Jill Ball che studia il piano”, Sacha Grey, Emily Gran, Noha Hadad, etc. Non si tratta di immagini rappresentative di una realtà, ma di strumenti-immagine: sono “amiche” [39] presenti su Facebook con un loro profilo e diventano lo strumento per costruire nuovi paradigmi impliciti condivisi sul rapporto tra il privato e il pubblico, tra ciò che pertiene alla sfera dell’intimità e ciò che è condiviso pubblicamente, tra l’in-timità e l’ex-timità. Aldo Nove rimette in piazza il “privato” giocando con gli interdetti relativi alla sessualità e creando così nuovi e differenti piani narrativi i cui paradigmi sono condivisi dai suoi lettori e sono quindi in grado di generare nuovi contesti, nuove correlazioni, nuovi regimi discorsivi. Senza entrare nel merito delle numerose altre forme e modalità di aggiramento degli interdetti e di resistenza rispetto al dispositivo Facebook sperimentate da Aldo Nove, l’account in questione ha messo in evidenza l’ineliminabile eterogenesi dei processi di soggettivazione osservabili: un’eterogenesi che segna profondamente il modo in cui lo scrittore ha chiamato a raccolta l’arsenale della memoria visiva collettiva archiviata nel web e l’ha tuttavia utilizzata, come matrice di nuove, personali e non previste narrazioni. Questo, va ricordato, è il percorso originale di uno scrittore che è riuscito ad andare oltre Facebook. Non è così per tutti, ma tutti, a ben guardare, potremmo inventare e sperimentare nuovi e personali itinerari di resistenza, nuovi modi di contrastare l’egemonia dei dispositivi.
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