Accecante e tremenda è la potenza del Delizioso
di Giuseppe Genna
[Prefazione al romanzo Sugli Sugli Bane Bane del Conte Nebbia, alias di Andrea Bruni, edito da Epika, 15 euro]
Dato che ci troviamo di fronte a un romanzo importante e, credo, non evitabile, va posta una domanda oggidì non tanto scabrosa: che cos’è un fantasma? La questione sembrerebbe molto distante da un pamphlet incipriato, da una pochade commistionata, da un organetto surrealista, da un nonsense apparentemente privo di continuità, da un’irrisione di plot quale è Sugli Sugli Bane Bane di Andrea Bruni, ovvero il Conte Nebbia. Al contrario, questo delizioso manualetto sull’occidente for dummies altro non è che la severa, scrosciante potenza che prelude al crollo definitivo dell’immaginario prodottosi qui, in questi ultimi cento anni, nell’universo spettacolarizzato, industrializzato, finanziarizzato e soprattutto a noi ora contemporaneo.
Se laddove il pericolo è massimo sorge ciò che salva, qui dove tutto è tremendamente delizioso si erige ciò che termina. Questa allegra, spassosa danse macabre imbastita da Andrea Bruni è uno dei gesti profondi che la nostra narrativa compie contro quell’immaginario. E lo fa con un amore che prelude al grande dolore di cui saremo vittime: la nostalgia proprio per quell’immaginario che, prima o poi, saremo costretti non tanto a decostruire, ma ad abbattere del tutto — in un’orgia di sensi sottili, probabilmente, il che è un altro modo per riassumere ciò che accade in questo “oggetto narrativo”.
Che cos’è questa insolita narrazione? E’ cinema e arte pop, musica e letteratura, melodramma, pittura e via così. A quali poetiche si appoggia? Al grande fantasy. Horror, ghost story, splatter sono qui tutti sottogeneri del genere fondamentale che ha mantenuto viva una concezione magica della letteratura, alle nostre latitudini. E’ lo stesso Bruni a dichiarare la filiazione da colui che è il padre occulto del fantasy, il genitore sottaciuto e di Tolkien e di Lewis (cioè coloro che, al di là della lingua di superficie, seppero tenere nell’inquadratura i corpi dei fantàsmata). Questo padre rifondatore si chiama George MacDonald ed è autore di un verso che Bruni estrae dal suo studiatissimo corpus, e che vale come morale di tutta la letteratura e di tutta la filosofia:
“La verità va dappertutto in tempeste senza forma.”
I sorprendenti fantasmi che agiscono sulla scena provinciale allestita da Bruni si comportano esattamente in questo modo: vanno dappertutto e, ovunque arrivino, ecco che si scatenano tempeste, mentre è difficile ricavare da tutto ciò che accade una forma unitaria. Quando si arriverà alla fine del piccolo gioco ultraterreno, vedremo in mano di chi starà il possibile rilancio di un immaginario o la definitiva sepoltura delle nostre icone. Che, dapprima, si muovono a coppie. Questo è uno degli aspetti più esilaranti e profondi del racconto di racconti, costruito da Bruni con una perizia e un’acribia invidiabili. Il satanista più famoso della storia, Aleister Crowley, si accompagna in memorabili scene con il fantasma di James Dean. Un esasperato Charles Baudelaire va per cimiteri assieme a un’esasperante Mae West. Fino all’esplosione dell’apparizione che non dovrebbe apparire: Adolf Hitler insieme alla serial killer cinquentecesca Erzsébet Báthory. E’ assolutamente impossibile contenere la folla di spettri celeberrimi che si agitano sul palcoscenico di questo teatrino vampiresco: Totò, Jim Morrison, Pasolini, Jane Mansfield, Janis Joplin, il Marchese De Sade e decine di altri ancora.
Tuttavia: perché questa folla e non un’altra?
La risposta sta tutta nel dissolubilissimo legame tra Eros e Thanatos che ha fatto la storia moderna dell’occidente — questa ossessione di Bruni, questa sua spinta al suicidio e al conato di rimpianto per averlo commesso prima di commetterlo… Circola un’aria viziosa, nel suo romanzo. C’è qualcosa di erotico che richiama un moralismo tipicamente presbiteriano, tipicamente occidentale. Questo obbiettivo polemico corre sottotraccia, mentre viventi e fantasmi si scambiano secrezioni. La questione omosessuale, che in realtà non è nessuna questione, viene lucidamente posta al centro di un momento finale dell’occidente stesso, come accade già in Troppi paradisi di Walter Siti (Einaudi). L’analisi di Siti è troppo precisa e si attaglia con esattezza così algebrica all’operazione narrativa di Bruni che, forse, vale la pena citarne due passi fondamentali:
“Credo che si possa essere d’accordo, però, sul fatto che il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue tra tutte le società umane, sia l’ambizione di costruire una convivenza senza Dio. […] Per resistere senza la speranza nell’aldilà, bisogna poter sperare nel paradiso in terra. […]
La merce come surrogato della felicità, non è certo una scoperta nuova: il romanzo di Zola dedicato ai grandi magazzini (1883) si intitola Au bonheur des dames. Ma più il tempo passava, più ci si rendeva conto che alcune cose non erano comprabili: le persone, gli oggetti troppo distanti da noi, i sogni, i rapporti umani. La falla rischiava di far abortire il progetto, o almeno di ritardarne l’avanzata trionfale; un modello di soluzione è stato fornito proprio dall’arte e dalla letteratura. Fin da quando Dio c’era ancora, e la realtà era puzzolente, bruta, refrattaria, l’arte garantiva una via di mezzo, un mondo alternativo informato a una ratio superiore. […] L’immagine, ecco la parola magica. Se si accettava che la realtà fosse sostituita dall’immagine della realtà, il paradiso in terra tornava ad essere possibile.
Se l’arte era capace di questo, non restava che ampliare il procedimento, soprassedendo sulla qualità e puntando a un’arte di massa. E’ quello che il Novecento ha lentamente ottenuto, col cinema, col design, con la pubblicità, coi video musicali; e alla fine col look, con l’estetizzazione dell’esistenza, col trasformare in spettacolo la stessa informazione, e l’economia tutta.”
Questa totalità è ciò che stordisce in Claudio, l’alter ego del narratore, il protagonista, il professore che cerca di tenere organizzate le file del complotto sessuale e teologico. Claudio sa tutto dell’arte di massa e non. Claudio mostra il fallimento dell’analisi di Siti. Arriva a teorizzare questa pratica che fa crollare il castello della critica francofortese di Siti, con un’agilità sorprendente:
“Sono semplicemente un curioso… Cerco di non farmi sopraffare dal mondo triste ed isterico che ci circonda… Se vuoi vincere la volgarità dilagante di quest’era moderna, devi affrontarla con le sue stesse armi…”
In verità Siti non vacilla affatto: egli stesso, in tutta la sua opera, è Claudio. I riferimenti all’immaginario pop sorprendono, se si pensa al professore che ha curato i Meridiani dedicati a Pasolini. E’ altrove che le parallele Siti e Bruni convergono — è sull’ultimità del narcisismo omosessuale come momento finale dell’occidente e del suo immaginario. Ciò che qui di seguito riporto da Troppi paradisi sembra una sintesi del vorticoso pullulare fenormonico in Sugli Sugli Bane Bane:
“Il godimento artistico prevede una scissione dell’Io (io che credo alla finzione, io che non ci credo); sulla scissione dell’Io sono fondate le perversioni; ogni godimento artistico è strutturalmente perverso, come sosteneva Winnicott. Dunque, se l’Occidente ha instaurato un’estetizzazione di massa, questo vuol dire che il consumismo occidentale si fonda su una perversione di massa.
Ammettendo che la mia ipotesi sia corretta, ecco che gli omosessuali vengono a trovarsi al centro oscuro del teorema; sono i migliori interpreti dello Zeitgeist, sono avvantaggiati nel nuovo contesto come handicappati che si adattano meglio degli altri a condizioni mutate. […] Gli omosessuali sono condizionati da sempre a desiderare non una persona, ma un’immagine. […] Il loro oggetto d’amore è, per definizione, un surrogato: è la proiezione di un ircocervo originario, non esistente in natura, metà angelo, metà specchio e metà madre (sì, tre metà) — e quindi la loro non può essere la ricerca di un individuo reale, ma appunto di qualcosa che rimandi ad altro, e di cui si deve restare in superficie perché se andassimo in profondità scopriremmo che non è lui. Quale oggetto migliore di un’immagine, che una profondità non ce l’ha proprio? L’immagine, in quanto è limitata da un contorno che la preserva dallo sfilacciarsi in conseguenze e legami, è un infinito intensivo invece che estensivo, un infinito concentrato e addomesticato.
[…] L’omosessualità come avanguardia dell’integrazione consumistica; maestri di recitazione, nell’epoca della recitazione universale. E maestri di regressione infantile, nell’epoca dell’infantilismo di massa: se il consumismo è la lotta del conscio contro l’inconscio, dell’immaturità contro la maturità, gli omosessuali ne sono gli alfieri — nel loro sesso spiccio bruciano le sublimazioni sentimentali, come nel suo progetto di dominio il consumismo azzera le sublimazioni culturali.”
Non sarà dunque un capriccio alla Visconti o l’ultimo residuo di una semplicistica conclusione psicanalitica il momento in cui Hitler, furibondo davanti alle immagini bidimensionali de l’Isola dei famosi, si sente dire che la sua rabbia insiste finché non è ammesso il desiderio di quel corpo maschile, seminudo e grezzo, che appartiene al marito della signora Trump. E gli viene pure rinfacciato di alimentarsi solo con quel pappone vegetale che, dice lui quasi in stato fetale, sua madre gli faceva sempre (dato suppostamente storico, ma che Bruni sa perfettamente non essere vero). Perfino la pansessualità o la bisessualità sono sagome che proiettano un’ombra delusiva: è la disperazione del protagonista. L’immaginario occidentale, se accostato in questo modo, si rivela una trappola da cui è impossibile fuggire, un labirinto ignorato da qualunque Arianna.
Eppure gli elementi di possibile salvezza, se non squadernati, sono comunque reiterati, nel frenetico accavallarsi di scene. E sono: la sapienzialità che travalica la distinzione tra occidente e oriente; l’anticipo di nostalgia e il gusto zuccherino che ci permette di riavere tra le mani, che so?, il migliore Alberto Arbasino e che si può definire come il Delizioso.
Da un lato, infatti, Sugli Sugli Bane Bane si pone direttamente come parodia seria di Hollywood Babilonia, il caleidoscopio delle perversioni dei divi steso da Kenneth Anger, discepolo prediletto proprio di Crowley e satanista anch’egli. Un immaginario che è intrinsecamente perverso fino al punto di evocare la caduta della Grande Babilonia (evocazione esplicita in questo libro) instaura una nuova alleanza tra l’uomo e il cielo. L’ambizione di chi è pronto a dissolvere la totalità dei fantasmi (il narcisista onnipotente) è un’ambizione sapienzale, che passerà tra le ambigue maglie della magia sessuale o delle pratiche di metafisica qualificata. Viene perfino recitata la formula desunta dalla Trilogia magica di Franz Bardon. E’ ancora presto per questo passo. Qui si accenna soltanto ai presupposti di una scrittura futura che entri nel cuore di questo genere sapienziale, e bisogna vedere se Andrea Bruni prenderà proprio questa strada.
D’altro canto il doppio perfetto del libro di Bruni è il Super-Eliogabalo di Arbasino, praticamente l’unico testo realmente postmodernista della nostra tradizione narrativa. Crome e biscrome, sovrapposizioni di riferimenti distonici e provenienti da arti diverse, certi giri di frase e infine l’ironia di difesa appaiono in Bruni in qualità di omaggio esplicito al testo di Arbasino, tanto più che anche qui il quattordicenne Eliogabalo finisce per apparire o appare dove si finisce, con estrema ambiguità androgina, a cavallo di due eoni. Di fatto, però, è la potenza del Delizioso che, in Arbasino come in Bruni, si fa sentire sismica e oscura, allo stesso modo in cui accade nel più postmodernista degli ultimi postmodernisti, Thomas Pynchon, quando il suo protagonista, in Gravity’s Rainbow, si trova in casa di una melassosa vecchietta a mangiare caramelle al rosolio: molli gommosi zuccherini che si appiccicano al palato e ai denti, rallentano la masticazione, avvertono della possibilità del soffocamento e della morte. La tremenda e abbacinante potenza del Delizioso.
Non è un gioco intellettuale, Sugli Sugli Bane Bane. Potrebbe essere preso per un’esercitazione di combinatoria alla Queneau o per un puzzle effettuato con le tessere di una ciclopica formazione personale (la cultura di Bruni è davvero sconfinata, rinascimentale). Non è nemmeno una pratica dadaista. Qui c’è la consapevolezza di un intero àmbito culturale, di una civiltà che si dispone a finire, come quella in cui emerse l’eccezione bambina del Re che fu appunto Eliogabalo. Egli è il futuro e il passato. Imperò per quattro anni e al Quirinale installò il Senato delle Donne. Sparì. Fu il passaggio. La narrazione fantasmatica di Andrea Bruni (capace di inscenare Aristotele e al tempo stesso Fantasmi a Roma di Pietrangeli) è il tentativo di rappresentare questo scorcio preciso da un eone all’altro — di esistere nel momento preciso in cui si sa che si sta per scomparire ed ecco: si è scomparsi.