di Marilù Oliva
[La nostra redattrice Marilù Oliva ha appena pubblicato il suo secondo romanzo, Tu la pagaràs! (Elliot editore, 2010, pp. 275, € 16,50). Ne proponiamo il primo capitolo. Qui una videointervista in cui Marilù parla del suo lavoro.] (V.E.]
El Cubano è in realtà un pugliese dei ghetti di Bari. Ma si atteggia a latino, nell’aspetto e nelle movenze, e gongola del suo soprannome, spolverandosi ogni tanto con le mani il crespo dei ricci, quasi fosse il retaggio di una mancata negritudine.
Balla come un cubano, sorride come un cubano, trangugia rum come un cubano e parla il minimo indispensabile, solo sottovoce, affinché la sua cadenza pugliese non smascheri che cubano non è. Molti lo sanno, alla Noche, che è una finta. Ciononostante le ballerine sgomitano per rubargli una salsa. Lui le guarda con quell’aria strafottente che piace tanto alle donne, le stringe nei punti giusti, ogni tanto col ginocchio si intrufola tra le gambe della partner per sondarne la disponibilità. Poi conosce dei passi particolari, un po’ raffazzonati sbirciando le coppie, un po’ imparati ai Caraibi, un po’ inventati. Gli piace mettersi in mostra in pista, gli occhi addosso alla patina di sudore, le mani sconosciute che scivolano sul collo o gli sfilano i fianchi.
Vive per essere corteggiato. Ogni sguardo, ogni cenno d’interesse delle altre è come una boccata d’ossigeno a pieni polmoni.
Sopra tutte, c’è lei. La sua fidanzata. La chiamano Princesa, colpa delle abitudini latine di battezzare chiunque con un soprannome. È la prima ballerina de La Noche, una mulatta di Caracas dalla pelle ambrata e dai capelli del colore del castagno. Gli occhi, due mandorle giganti che sprizzano fuoco e inviti proibiti. Anche frenetiche come un martello pneumatico, portamento e presunzione da principessa, appunto.
Stanno assieme da un annetto anche se nessuno li ha mai visti amoreggiare. Eppure fanno coppia fissa, alla Noche, almeno così si bisbiglia, lui come maestro di ballo e lei come ragazza immagine, sopra al palco, in mezzo ai suoi due cuginetti creoli. El Cubano e la Princesa, belli, talentuosi, mai un bacio, mai mano nella mano. Hanno altro per la testa. Salsa, voglia di mettersi in mostra, il ballo sovrasta quella cosa chiamata amore con cui tutti sembrano tanto smaniosi di misurarsi. Forse, in fondo in fondo, non sono fatti l’uno per l’altra. Forse si sono fidanzati per convenienza, per assonanza fisica. Poi, a dirla tutta, hanno altri gusti. Princesa — si racconta — non è attirata da quelli che lei chiama, col suo sensuale accento ispanico, terròni. E lui non si eccita con le strafighe. Ci vogliono le imperfezioni, per ringalluzzirlo.
Ed ora che sono quasi le quattro e il locale è in chiusura, i bailarinos hanno sbrogliato, i due baristi Azùk e Thomás stanno pulendo il bancone, la guardarobiera ha vuotato l’armadio, Manuela e la sua associazione culturale che gestisce il locale han chiuso baracca e burattini, ora che in giro restano giusto due o tre gatti e perfino il DJ sta smontando la console e le casse, poco dopo che Princesa se n’è andata un po’ brilla sorretta dai cuginetti, solo ora El Cubano può concedersi la sua imperfezione. Mentre tutti si dileguano, nel silenzio della notte. Se l’è pregustata durante l’intera serata la ricompensa dopo ore di ballo, di sguardi, di attenzioni deviate. L’ha tenuta d’occhio, la sua perversione, l’unica ragazza che non suscita neanche un invito, Lucia di Rimini, la grassona, La Gorda, un metro e ottantatré per centodiciannove chili, un’occhiata ogni tanto, giusto per controllare che fosse sempre lì, sola sul divanetto, maxi-aranciata sul tavolino, in attesa del suo momento.
Ora il suo momento è arrivato.
Il loro momento.
Chiusi nei camerini, lei nuda, lui con i pantaloni abbassati a perdersi in quelle onde di ciccia, a schiaffare la faccia tra la morbidezza carnosa di quel seno infinito, a cercare un passaggio nelle maree e nei cuscinetti di due coscione che non sembrano mai aprirsi del tutto. Ogni volta che c’infila le mani a crearsi un varco, la carne riaffiora da sotto maestosa e rosea, impudente, e quando le impugna i fianchi il tessuto sembra sgusciargli via e perdersi informe per riacquistare vita in flutti adiposi. Gli ricorda la pescivendola del suo quartiere barese, il San Paolo, con le sogliole in mano, il grembiule schizzato di nero di seppia e lui che intravedeva, sotto la massa in movimento, la rotondità pachidermica in cui avrebbe volentieri sguazzato.
Poche cose al mondo eguagliano in eccitazione l’effluvio di mollezza che gli procura la creatura giunonica che ora sta impastando. Si dilunga nei preliminari perché, come sempre, sa che ci metterà poco a profanare quel marasma di nudità voluminosa, e poco ci mette, infatti, a trovare la pace.
Si alza i pantaloni e, mentre lei armeggia con l’elastico dei mutandoni, lui cerca un altro tipo di pace, sul divanetto.
Lucia La Gorda si infila una sottoveste color carne, gli va di fianco, docile come un agnellino, non proprio appagata ma felice, e si lascia sprofondare, staccata da lui, nell’altro lato del divanetto, decisa, per una volta, a spingersi fin dove non ha mai osato.
Fa un salto col sedere per avvicinarsi a lui, badando, come da copione, di non sfiorarlo. Non fatica molto per parlargli con voce carezzevole:
«Perché davanti agli altri fai finta di non conoscermi?».
Lui si volta come trasognato. Non si aspetta questa domanda e sta zitto.
«Non dico che devi farmi la festa, ma tu non mi consideri proprio…».
Lui sorride: «Te la faccio dopo la festa, quando gli altri non ci sono…».
Lei si liscia il bordo della sottoveste che le scopre le cosce e abbassa gli occhi.
«Lo so che tu stai con Princesa, non voglio mettermi tra voi, non mi sogno neanche, però… come facciamo adesso, che non mi guardi tutta la sera e quando se ne sono andati tutti mi cerchi, non mi dici niente, mi spogli e mi…. e poi di nuovo estranei… è brutto così…».
Lui reclina indietro la testa senza rispondere.
Poi si alza e se ne va con la sua camminata dondolante, alla cubana.
Si dirige nei bagni maschili, la discoteca è ormai in penombra, tra mezz’oretta, esattamente alle cinque, arriverà l’impresa di pulizie. El Cubano impugna il pezzetto di legno con la scritta WC e un tanguéro in posa su un bandoneón, vi fa forza per aprire la porta scorrevole e, appena entra, percepisce qualcosa che non va.
Una questione di odori. Certo, il cesso degli uomini non si è mai distinto per profumazioni delicate, ma ora è come se la puzza di piscio fosse ricoperta da un altro tipo di odore, più forte. Ruggine bagnata. Odore di pollo quando si scarta dal cellophane.
Avanza di qualche passo.
La porta della toilette vera e propria è socchiusa.
El Cubano si avvicina, l’istinto gli dice che c’è davvero qualcosa di strano.
Allunga la mano per aprirla del tutto e lo punge, più forte, l’odore di prima. Ecco perché non sentiva la puzza di urina.
Quando la porta è aperta a metà lo vede e gli scappa un verso gutturale.
Thomás, il barista. Cubanissimo, non un fac-simile come lui.
Morto. Seduto sul water, come se vi avesse appena fatto i bisogni. Ma indossa i jeans ancora allacciati. Braccia abbandonate alla gravità, collo reclinato a destra. La testa appoggiata al muro, non ci sono più gli occhi. Al loro posto un groviglio di sangue, due rigoni densi colano lungo le guance, giù sulla maglietta bianca e da lì ai pantaloni e al pavimento, come gigantesche lacrime rosso scuro.
El Cubano perde la sua espressione forzata da cubano.
Senza avere più il controllo sulla postura, si ritira inorridito, bocca spalancata, non come un cubano ma come il più fetente reietto del più malfamato quartiere di Bari.