di Alberto Prunetti
Un quilombo. Un cambalache. Un casino pazzesco. Una boluderia, come si dice in Argentina. Va bene il polpettone per gli italiani decervellati e cretinizzati dalla televisione del Pere Ubu. Va bene il feuilleton di prima serata e la telenovela risciacquata nell’Ombrone. Ma l’Ombrone dov’è, in questa Terra ribelle di Cinzia TH Torrini? Manca solo che nella prossima puntata i butteri prendano il largo come Garibaldi da Cala Martina e superata l’Elba occupino le Malvinas per restituirle al sagrado suolo argentino, dopo aver fatto scempio delle pecore di Angli e Sassoni. Maremma argentina? Pampa gringa? Non lo so, non ci si capisce nulla. O forse ci capisce qualcosa solo chi no entiende nada di Maremma e d’Argentina, ni cagando. Certo, con un po’ d’ironia postmodernista si potrebbe dire che è stato un gioco straniante, che bisognava capire, decostruire, fare esercizio dì citazione e d’ironia… forse qualcuno mi accuserà di culto della fedeltà. Di tradizionalismo. Che tanto è prassi comune ricostruire il far west in Spagna e la Spagna a Matera. Che non è una delocalizzazione bensì una decostruzione ironica, basta menate da vetero-realisti. Che era solo uno scherzo e non avete capito.
Certo, anche Luciano Bianciardi scriveva che la negritudine comincia con l’Ombrone e spostò molto a sud la geografia della Maremma, in terre tropicali. Ma qui siamo arrivati agli antipodi. E va bene anche il mondo a patas arriba e il surrealismo come realismo del leano sur. Però a me non sembra che qui ci sia né realismo né magia, in questa “Terra ribelle” che in prima serata manca di coerenza e di rebeldia.
Cominciamo con la coerenza del testo. Molte approssimazioni, incongruenze, errori. Vediamo punto per punto.
La fabula. Niente di nuovo, e fin qui niente di male. Un testo può anche evitare di scartare dalla norma per incastonarsi in certe coordinate di genere. O per giocare in maniera creativa con la reinterpretazione di un canone. Anche Joyce ci ripete la storia di Ulisse. Ma come lo fa, con quale innovazione delle tecniche espressive. Se invece vuoi tenere lo stesso linguaggio, cambia il plot. Strania, detourna. Va beh, la fabula è quella già vista tante volte, la solita storia della contessina innamorata del servo, “e perché no?”, se lo stereotipo fosse giocato in maniera intrigante. Avanti. Quattro personaggi, due maschili e due femminili, semiotica delle passioni giocata nella polarizzazione di legami fraterni rovesciati sul fronte etico e patemico. Topoi dell’amicizia virile, il tradimento, l’eroe costretto a nascondersi per poi ritornare nel finale vittorioso, l’amore impossibile oltre le barriere di classe, aspettando qualche colpo di scena. Propp docet. Fin qui tutto visto, debole ma poteva anche starci nel contesto un po’ logoro delle fiction televisive e delle aspettative dello spettatore modello a cui era destinato il prodotto confezionato dalla regista.
I paesaggi. Si vedono per un paio di fotogrammi gli ulivi e i boschi mediterranei dell’Uccellina. Poi fine. Inizia la pampa e il deserto di steppa patagonica del Chubut. Addirittura una cima innevata su un mare che potrebbe essere un lago del leano sur. Gran posto, bellissimo, indimenticabile per chi come me ama l’Argentina e la Patagonia. Ma i butteri, come suol dirsi, e mi scuserà la regista essendo io uno schietto discendente dei rudi mandriani che lei ha cercato di rappresentare, c’entrano una sega. Si vedono boschi, ma sono d’alto fusto, forse non ancora le conifere del Neuquén, siamo in zone un po’ più vicine alla costa atlantica, a senso, non sono così bravo nelle conoscenze di flora patagonica. Ma di certo me ne intendo di leccete e di forteto, il bosco basso di scopa, albatro e leccio, e non ho visto le specie arbustive specifiche che si trovano nei territori che si voleva rappresentare.
La monta. Che ci fanno i butteri con le selle inglesi? Il dressage? La monta maremmana è una monta da lavoro e chiede sellature comode, in cui si rimane inforcati per ore sulla groppa del cavallo come in una poltrona. I butteri montavano la sella buttera col pallino, quella di derivazione spagnola giunta nel grossetano probabilmente durante lo Stato dei Presidi, o al limite usavano la bardella (soprattutto nella Maremma laziale) e la scafarda nel grossetano. Di certo non la sella inglese. L’assetto del cavaliere cambia drasticamente tra una sella inglese e una da lavoro e per chi se ne intende la maniera di cavalcare di un buttero, di un cowboy, di un vaquero o di un gaucho non ha nulla a che vedere, anche visivamente, con la sella utilizzata dai butteri della Turrini. Va bene che gli italiani in un contesto di dipendenza assumono la tv anche quando è tagliata male, però…
I cavalli. Ci sono una decina di maremmani nella fiction, ovviamente morelli o bai scuri, perlopiù ripresi in primo piano. E va bene. Ma poi spuntano dappertutto cavalli criollos, sella argentini. Sono splendidi, ottimi per lavorare il bestiame nella pampa, capaci di scatti rapidissimi per cui sono apprezzatissimi anche nel gioco del polo. Ma per favore, ancora: che carajo ci fanno i cavalli criollos roani in Maremma nell’Ottocento? Oggi sì, ce ne sono tanti, comprati sul mercato al prezzo più basso. Li allevano semibradi nella pampa, li infilano nelle stive di una nave, arrivano abbastanza magri in Italia dopo aver attraversato l’Atlantico, un po’ come i migranti italiani che facevano un secolo fa quella rotta all’incontrario. C’è chi li compra a peso per macellarli. Poi invece gli danno una scozzonata e una smazzettata (termini grossetani che indicano i primi stadi della doma maremmana) e li vendono agli appassionati di equitazione. Dopo un po’ il cavallo mangia avena, ritrova le forze e si fa ombroso. E se sente alla radio una cumbia gli vengono in mente le botte dei gauchos e ti manda a terra. Ora, finita la parentesi, di cavalli del genere nell’Ottocento non si indovinava neanche l’esistenza in Italia. Ne sapeva qualcosa Garibaldi, forse Dino Campana. Poi buio. Di recente sono arrivati non solo i cavalli criollos, ma anche i gauchos. Sapete dove? A Punta Ala. Gli argentini sono ottimi giocatori di polo e vengono ogni anni d’estate a sollazzare gli aristocratici mondani che fanno vacanza da quelle parti. I ricchi italiani mangiano anche un arrostaccio che viene spacciato come asado di ferragosto. Forse è quella la Maremma argentina che ha ispirato gli ideatori della fiction. L’ho vista anch’io. Facevo lo stalliere in quelle scuderie anni fa, proprio come il buttero che si scusa quando viene sorpreso dalla contessina con la carriola piena di merda equina.
Gli animali. Di cavalli si è già detto. Dei grossetani, sono todos tanos grosseros. Veniamo alle altre bestie. Si vedono le pecore merinos, non le massesi toscane arrivate in Maremma con le transumanze dalla lunigiana. Eccole in RAI le pecore dei maglioni che sono costate la casa agli indigeni Mapuche, costretti a sloggiare per lasciare i pascoli ai brutali latifondisti trevig…. scusate, maremmani. Le vacche. Le vacche dal pelo lungo abituate al freddo vento pampero non sono certo le maremmane, queste essendo asiatiche all’origine, atletiche e piccole, ma di mantello raso, con lunghe corna a lira e zoccolo forte. Certo, avercela la criolla argentina a Grosseto. Invece di mangiar quel manzo di limousine del supermercato, farsi un bife di quelli che arrostiscono attorno alla fiera del matadero, la zona dei macelli poco fuori Baires…
La lingua. Ma maremma diavola, va bene la contaminazione, l’ibrido, la licenza poetica… ma quando mai si sono visti grossetani che nell’Ottocento parlano in fiorentino, aspirando come sanguisughe non solo la C ma tutte le consonanti intervocaliche sorde? (E poi “cittine” si dice a Siena, forse un po’ sull’Amiata senese, nel grossetano si chiamano “bimbe”, le ‘ontessine). E che cavolo. Potevano leggere Morbello Vergari, ‘ste leggère (chiedo venia per la paronomasia: una leggèra in Alta Maremma è uno che non ha voglia di fare un cazzo). Oppure potevano spenderli due soldi per una consulenza dialettale con la mia amica Luciana Bellini, scrittrice-contadina in vernacolo, autrice di repertori di proverbi maremmani e di tortelli pantagruelici.
Le citazioni. La scazzottata-spaghetti, le scene di ballo tipo “Il gattopardo”, il duello criollo, “Maremma Amara” cantata temo dalla Nannini, poi che altro?… Le citazioni ci stanno, ma andavano accordate meglio. Il western alla maremmana ha già i suoi classici. Ma con più sobrietà, con più classe. Penso a Domani Accadrà di Daniele Luchetti, una bella storia di butteri e utopia agli albori del risorgimento, o a un film quasi dimenticato del 1954, Musoduro di Giuseppe Bennati dove troviamo gli altri eroi maremmani dopo i butteri e i briganti: i boscaioli e i bracconieri. Qui ritorna l’amore contrastato dalla legge, l’eroe spinto nell’illegalità da una giustizia ingiusta. Fino alla scazzottata western nell’Ombrone (o una di quelle gore, ora ‘un mi ricordo). Da rivedere.
Figure letterarie. Butteri e briganti sono a tratti macchiette, a tratti duri caratteristi del cinema di Sergio Leone. Più spesso assomigliano ai pirati dei Caraibi. Mah. Sono tamarri, questi compadritos, caricature ridicole uscite dall’Evaristo Carriego raccontato da Borges, bravacci di un Martín Fierro incontrato non sulle pagine dell’Hernández ma in qualche porcellana dipinta di un negozio di souvenir per gringos che passeggiano in calle Florida. Bravi che a un certo punto si sfidano anche alle lame. Ma se si avvicinano a un quadrupede tangheri così, secondo me si mette a ridere anche il cavallo. Mi spiego: ve lo immaginate un buttero come Andrea, depilato, travestito da cowboy, appena uscito da una pubblicità della Malboro di qualche tempo fa? Un buttero che secondo quello che dice un personaggio “ha paura della palude”? Ve lo immaginate un buttero che ha paura del padule? Sarebbe come un pescatore che ha paura dei pesci. Roba da chiodi.
Anche qui: rileggersi i racconti d’ambientazione maremmana del senese Federigo Tozzi, “i butteri di Maccarese”, ad esempio, e le pagine del Neri Tanfucio. Che racconta Tozzi? Che i butteri facevano i pompieri quando i braccianti scioperavano. Lavorarci sopra, sull’idea.
Infine. Non mi sarebbe piaciuto il filmozzo neanche se i butteri avessero parlato in maremmano, se avessero avuto la scafarda o la bardella, se avessero cavalcato veri quadrupedi maremmani della genealogia di Arcionello e se i paesaggi fossero stati quelli sassosi e col bosco mediterraneo pieno di erica multiflora, di mirto, di leccio, albatro e mortella. E non mi lamento della delocalizzazione argentina per culto della purezza grossetana. L’ho già detto. Magari fosse la Patagonia. Col lago Argentino, la tristezza della fin del mundo e i laghi andini di Neuquén. Magari fossero le vacche argentine. Magari fosse ribelle quanto la Patagonia rebelde, quella delle fabbriche tomadas e autogestite come la Zanon di Neuquén, o delle terre occupate dai Mapuche, la Maremma di oggi, davvero.
Una modesta proposta. Se voleva raccontare una storia di padroni arroganti, di umili indigeni onesti ma sfruttati, costretti a vivere nelle capanne, perché Cinzia TH (sic) Torrini invece di raccontare la Maremma dell’Ottocento non ci ha raccontato la Patagonia e la Pampa di oggi? Dove un solo uomo è padrone di un milione di ettari e nei suoi latifondi i braccianti indigeni vivono peggio delle sue bestie? Un film così sarebbe stato molto più conseguente nell’ambientazione. Certo, un bruto grossetano nella parte del cattivo funziona meglio di un imprenditore progressista del nordest italiano. Sì, parlo dell’uomo dei maglioni.
Un consiglio a Maurizio Mattioli, l’attore che interpreta il brutale latifondista maremmano, aggredito in Argentina, picchiato e derubato mentre si trovava a Baires per le riprese della fiction: quando in calle Florida o nelle vie adiacenti chiedono che ore sono a un gringo, meglio dire “No sé, no tengo reloj”, invece di sollevare la manica e far brillare il rolex.