di Dziga Cacace
Does Your Conscience Bother You?
Lynyrd Skynyrd, Sweet Home Alabama
160 – Bullet in the Head di uno svaporato John Woo, Hong Kong 1990
Leggo su Film TV che questo Bullet in the Head è il capolavoro John Woo, “assieme a The Killer”. Registro il film e mi avvento come un ghiottone. E cominciano i guai: il film inizia come Happy Days, con i giovani ragazzi di Hong Kong che ballano il rock’n’roll e il twist. Uno rimane spiazzato e dice: “boh, non ci siamo intesi, deve essere un musical”, ma la vicenda vira subito al gangsteristico: tre amici devono fuggire dall’isola perché hanno ammazzato un rivale. Vanno in Vietnam dove si fanno affari d’oro e qui accade di tutto. Nel senso che John Woo prende la vicenda de Il cacciatore e la fa a brandelli: praticamente una parodia dove tutto quello che accadeva nel film di Cimino viene riutilizzato con gli effetti che si possono ben immaginare. Metteteci poi una recitazione stilizzata (sarà culturale, ma fa schifo lo stesso), un montaggio frenetico che funziona nelle scene d’azione ma è risibile nelle altre, una trama altamente improbabile e dialoghi da brivido (sempre colpa dei traduttori?) e capite cosa ne viene fuori. ‘Nammerda! Oltre a tutte le pacchianerie kitsch che già infestano il film (una su tutte: la manifestazione pacifista a Saigon con il tizio che si mette davanti ai carri armati, come in piazza Tien An Men! Naaaa!) dovete anche considerare come Woo tratta il tema dell’amicizia e dell’onore: come un bimbo di quattro anni.
Uno vede ‘sto film e non capisce più nulla: dove sono capitato? Barbara continuava a spintonarmi: “Dài, è uno scherzo, eh?”. Pensava seriamente che fosse una parodia e siam d’accordo che è una babbiona che s’è pure bevuta Forgotten Silver, però i dubbi a un certo punto son venuti anche a me. C’è da dire che le scene d’azione sono sempre gustose perché Woo ha una capacità clamorosa di usare seduttivamente i combattimenti e il movimento fisico. La violenza diventa un balletto dalla coreografia perfetta, i colpi sono come passi di danza e il montaggio esalta questo cinema di urletti, calci e pugni. Il dramma è che, se sotto c’è una trama risibile, perde senso ogni cosa. A me ‘sto Bullet in the Head è sembrato una vera puzzonata. Apprendo che ne esiste una versione director’s cut con 36 minuti in più: pallottola nel cranio da sciropparsi previa assunzione di un forte antiemetico. (Vhs da Tele+; 10/6/01)
161 – The Insider dell’ingenuo Michael Mann, USA 1999
Grande impegno, buona tenuta narrativa, bravissimi attori. Però è tutto prevedibile e ipocrita, dài. Insomma: le multinazionali del tabacco ci hanno avvelenato per anni, tenendo segrete tutte le porcate che mettono nel tabacco per indurre la dipendenza. Un ex ricercatore prende coraggio e denuncia tutto. Ovviamente la sua vita diventa un inferno perché le multinazionali del tabacco sono permalose peggio della mafia. Un giornalista democratico che crede nei buoni vecchi valori difende l’eroe, lo aiuta, se ne dimentica, ma alla fine il Golia è sconfitto. Seeee, sicuro. Da un punto di vista ideologico mi ha dato fastidio, inutile negarlo. Questa incrollabile e ipocrita fede nel trionfo della verità, messa in scena col compiacimento della grande nazione liberale, quando poi la Hollywood che produce questi film farà soldi proprio con le sigarette… Io sono sicuramente malato perché un film così andrebbe goduto senza farsi troppe pippe mentali, però, boh, questi schemi consolatori mi fan girare le pale come a uno Chinook in decollo. La certezza che “questo è un paese libero”, insomma… ma basta: ‘sto cazzo è libero! …però adesso faccio anche l’avvocato del diavolo: caro Cacace, intendi dirci che i film di denuncia li possa fare solo chi è fuori dal mercato? Ehm, non so. E oltre a tutto, de panza, il film m’è passato. Vabbeh, lascio i due emisferi cerebrali a litigare. (Vhs da Tele+; 11/6/01)
162 – Shrek dei formalisti sovietici Andrew Adamson e Vicky Jenson, USA 2001 (e l’inarrivabile Barbra Streisand)
Shrek viene lanciato come “la più grande fiaba mai raccontata” ed è assolutamente vero: racchiude in sé tutte le favole con cui siamo cresciuti, ed è a sua volta una fiaba costruita perfettamente. Gli autori, memori di Propp e altre cose che non ho studiato (e sarebbe da vero critico cinematografico citare per fare il figurone), ribaltano tutto: pigliano per il culo Perrault, La Fontaine, Fedro e compagnia bella, sino all’ultimo grande narratore/divulgatore mondiale, quel Disney con le sue versioni edulcorate (tolta la versione nazista di Biancaneve). E della Disney si sfotte anche il “sistema”, con i parchi giochi dove la magia delle fiabe è piegata alla logica del gioco a gettone. Il nostro eroe, Shrek, è un orco verde che si vede recapitare nella sua palude tutti i personaggi delle favole, deportati dal malvagio Lord Farquaad. Per ottenere la liberazione da questi rompicoglioni l’orco deve trovare al Lord una principessa, cosicché lui possa diventare re. Peripezie a non finire, in compagnia di Ciuchino, un asino che vola e che, soprattutto, parla a macchinetta. Dopo un duello con un drago sfiatato e altri incontri, l’avventura avrà un inaspettato happy ending, all’insegna della diversità. E non dimentichiamo che tutto il film esalta anche il disordine, le puzzette, lo sporco, in contrasto con l’elegante e asettico ordine imposto dalla morale e dal buon senso comune. Sembra banale, ma funziona e non pare una furbata, anche perché tutto lo script è cosparso di cattiveria: il sarcasmo non risparmia nessuno, alla faccia dell’imperante correttezza politica. E poi c’è un ulteriore livello di lettura spassoso: il gioco di citazione e di presa per il culo di cinema e tivù, toccando Matrix, gli show da prima serata, il wrestling e, incredibilmente, il film di Mel Brooks su Robin Hood. In più un finale che ti lascia con le lacrime agli occhi per il ridere. Buon film visto in un cinema vuoto, ma i pochi erano tutti felici. Nei giorni passati abbiamo anche visto quasi tutto L’amore ha due facce, film senza vergogna alcuna della nasuta Barbra Streisand. Spassoso e, a suo modo, capolavoro nella categoria “sfrenato delirio egocentrico”. Non lo recensisco perché ho dormicchiato, ma prometto che in futuro me lo sciropperò con attenzione perché merita, assolutamente. (Cinema Gloria, Milano; 17/6/01)
164 – Le fate ignoranti del midcult Ferzan Ozpetek, Italia/Francia 2001
Week-end genovese in cui ci concediamo il campione d’incassi degli ultimi mesi, il film di Ozpetek che tanto fa parlare. Le fate ignoranti ti passa, gradevolmente, senza sforzi, ma non è niente di che. È il cinema omo perfetto per il grande pubblico etero: l’utente medio si sente meglio, più comprensivo, più buono e pensa (lui) che ‘sti poveri froci devono pur avere la loro sensibilità rispettata. E vai di luoghi comuni. Che poi il regista sia omosessuale non invera i luoghi comuni abbondantemente frequentati, semmai è un’aggravante. Trama: la Buy è una donna appagata e felice, ma suo marito muore all’improvviso sotto una macchina e lei scopre che aveva un amante. Senz’apostrofo, proprio un amante: in famiglia era eterosessuale, al di fuori decisamente poco. La Buy rimane vagamente scossa e viene adottata dalla comunità gay frequentata dall’amatissimo marito e qui – tutti spaventosamente buoni, onesti e tolleranti – le aprono gli occhi, ma proprio sulla vita, pensa! Ci mancava giusto che le insegnassero ad apprezzare la Carrà. Mah! Il film è stato giudicato bene e gli attori hanno avuti riconoscimenti unanimi. Boh. Forse sono io che non capisco, ma Le fate ignoranti mi sembra un film appena decente, nulla più, sfigurato da forzature di sceneggiatura, sicuramente a tratti divertente, ma prevedibile nei suoi esiti. E poi, se vogliamo dirla tutta, dura quei venti minuti in più in cui la storia si ripete, si dilata, aggiunge al posto di concludere. E infine: basta con i titoli di coda in cui facciamo vedere che eravamo una bella troupe allegra che si è divertita a lavorare. Queste cose raccontatevele alle cene commemorative e non rompete i coglioni a noi. (Cinema Universale, Genova; 23/6/01)
165 – My Generation della distratta Barbara Kopple, USA 2001
Film strano, e le reazioni del pubblico evidenziano un equivoco che la stampa non si è preoccupata di chiarire. My Generation non è un film sulla Woodstock storica, anzi. Ci racconta l’organizzazione e lo svolgimento dell’edizione commemorativa del festival, 25 anni dopo. Una Woodstock che con l’evento originario ha in comune solo il nome, a uso e consumo di un pubblico completamente diverso. Nel 1994 anche la “X Generation”, quella indefinibile generazione di giovani americani che si vuole fotografati in quella cacatina di Clerks, ha il suo raduno collettivo dove sballarsi, rotolare nel fango, ascoltare musica, fare l’amore, sentirsi libera per quanto sotto il vigile occhio di telecamere e al costo di 130 dollari sonanti. La musica si è fatta dura e disperata e vediamo Metallica, Cypress Hill, Henry Rollins e altri susseguirsi sul palco, incarnando l’inquietudine di chi non vota e che ha beneficiato di un periodo ricco ma è povera, anche culturalmente. Gli organizzatori sembrano spinti da uno spirito sincero, erede di quello naïf della Woodstock originale, ma per ricreare il sogno servono sponsor e la kermesse diventa un concertone elefantiaco e griffato. Non capisco chi non meriti chi. Se il pubblico non meriti questo sbattimento o se sia una truffa a cui tutti si prestano volentieri: ogni volta che un giovane ha davanti un microfono è una tragedia: non si tratta di commenti banali, risaputi, prevedibili, no. Qui si tratta di risatine, gesti e “yeah!” a profusione, senza dire nulla, furbo o fesso che sia l’intervistato. L’americano ventenne medio del 1994 che esce da questo film è un deficiente decerebrato a cui si attribuisce una grande profondità proprio perché non sa esprimersi. E la musica fa il resto: l’angoscia dei Nine Inch Nails e di altri gruppi viene trasferita d’ufficio sugli spettatori. Mi fido della Kopple, anche perché non si direbbe che ci sia una tesi precostituita da portare avanti, non c’è il vecchio spirito di Woodstock da contrapporre a quello odierno, non si fanno paragoni tra ieri e oggi e, anzi, non mancano stilettate anche al leggendario evento del 1969. L’unico vero parallelo è quello musicale: Santana e Cocker li vediamo nelle due versioni e qualche pensiero viene, è ovvio (con Santana, positivo). Ma va anche detto che sono proprio gli anziani a comportarsi meglio, su tutti gli Allman Brothers con una versione bruciante di Jessica. Per il resto è rabbia — non politica, rabbia e basta — e fango, dolore fisico, angoscia. L’edizione del 1999 viene poi liquidata molto velocemente. Solo disperazione, furti e distruzione, per un rendiconto economico non esaltante. Qual è il senso che viene fuori da My Generation? C’è bisogno dell’evento, di una Woodstock per riempirsi la vita, per sentirsi parte di qualcosa anche se non c’è o anche se è creato apposta per farti credere di aver fatto parte di qualcosa. A me piacerebbe un documentario sulle comunità ambulanti di Deadheads, gente che ha seguito per anni i Grateful Dead e oggi sono orfani di Jerry Garcia. Io vorrei sapere chi andava ai concerti dei Phish o chi ha seguito per trent’anni la Allman Brothers Band: questi sono fenomeni spontanei, duraturi e non indotti da nessuna pubblicità. Queste sarebbero le vere Woodstock della psiche e del corpo da indagare. Boh: non mi va mai bene nulla, ma se il film del 1970 era un rockumentary, questo è solo un documentary neanche troppo esaltante, perché mostra le cose e non le penetra, non le interpreta, non emoziona, mai. Occasione sprecata. (Sala; 24/6/01)
166 – Kadosh del punitivo Amos Gitai, Israele/Francia 1999
Kadosh è il mio primo film israeliano. E forse non è un caso. Amos Gitai osserva una delle tante comunità ortodosse che vivono all’interno del moderno, rampante e feroce stato d’Israele. Ne osserva la vita di tutti i giorni: la preghiera, la vita coniugale, le ferree leggi di convivenza, l’osservanza delle convenzioni, il rapporto con i palestinesi e con gli altri israeliani e lo fa attraverso le vicende di due sorelle. La Torah detta la legge e la sua interpretazione occupa la vita degli uomini. Le donne devono figliare e obbedire. La sorella maggiore morirà per amore del marito sterile, la minore fuggirà verso una nuova vita. Kadosh, visto l’argomento, è un film indigesto, aspro e doloroso, e non è lento, è immobile, secondo i ritmi e i tempi di una comunità che vive fuori dal tempo. Certo, è pesante come un Patriot sulle balle, ma rimane. (Vhs da Tele+; 24/6/01)
La passione di Cacace
Intermezzo televisivo molto cinematografico (genere “dramma”)
Max ha subodorato il pacco, ma necessità di lavorare e ingenua fiducia mia ci portano a diventare gli autori di una impronunciabile (perché porta sfiga) produzione che colorerà l’estate di Italia1 di musica e bei paesaggi. Il turpe concept: una barca trasporta una biondona, Filippa Lagerback, in giro per le coste italiane, dove incontrerà i migliori esponenti della nostra scena musicale e si esibirà in perigliose prove ginnico-spettacolari. E beh… ben ci sta.
Il primo giorno di lavoro, un mercoledì, presago delle sventure che ci aspettano, mi sottopongo a un taglio penitenziale, tipo Passione di Giovanna d’Arco. In stazione a Milano, meta Santa Margherita Ligure, mi aspetta Max con le balle già girate. Sono le 11 e l’organizzatrice degli artisti lo ha già chiamato 3 volte. A fine giornata le chiamate saranno 9. Lo chiama per dirgli che forse ha trovato l’artista del 12 luglio. Max abbozza perché non sa e non può sapere dove saremo e cosa cazzo faremo il 12 luglio. Poi lo chiama per dirgli che l’artista ha accettato. Poi chiama per dire che se vogliamo l’artista c’è anche un ‘femminiello’ da prendersi in omaggio. Giuro. Poi richiama per dire che ci sono dei problemi e che così non si può lavorare. Poi bisogna trasmettere il video del femminiello. Infine l’artista non può venire e così l’organizzatrice ha fatto 9 telefonate per tornare al risultato iniziale, Max non ha letteralmente capito una minchia come me e le pile dei cellulari sono scariche. Arriviamo a Genova con 40 minuti di ritardo e prendiamo una coincidenza solo di nome, perché di fatto aspettiamo un’altra mezz’ora. A Santa Margherita a metà pomeriggio, già scoglionati, visitiamo le location e la barca. Sembra che funzioni tutto ma è una pia illusione, perché il giorno dopo la produzione bisticcia con il capitano del natante, il marinaio e il giovane mozzo che è ucraino e parla un inglese incomprensibile coi suoi compari. I dialoghi sembrano quelli di Invito a cena con delitto, tra maggiordomo cieco e cameriera muta.
Salpiamo e la barca ondeggia come quelle cazzate che si trovano nei Lunapark: il Corsair, per capirci. Max diventa una statua di sale e ha sul collo non meno di tre cerotti contro il mal di mare. Parla a monosillabi, ha il vaffanculo innescato e non ride manco per niente. Arrivano poi gli “artisti”. La minuta Alexia, dopo cinque minuti di rollamento, è bianca come un cartoncino Fabriano, ma poscia una bella vomitata ci regala emozioni unplugged inaspettate. Gli ormonali Gemelli Diversi e le minuscole Hearts de noantri, Paola e Chiara, non fanno danni, ma è evidente la sensazione di disagio: che cosa cazzo stiamo facendo?
Il venerdì arrivano con ritardo da vere dive le Lollipop, esperimento genetico televisivo mostruoso: 5 ragazzine che non sanno cantare di cui una sola supera il metro e venti. Tutte le volte che vanno sotto coperta temo che tirino una craniata allo spigolo del tavolo. Ci rendiamo conto che il vero grande problema della musica italiana al femminile è il nanismo. Portiamo a casa interviste (interessantissime!) e turpi esibizioni in playback e ci rendiamo conto che i discografici sono una torma di mentecatti. Poi, la sera finisco a dormire in un loculo sotto il livello stradale che mi condanna a morte sicura in caso di alluvione. Temperatura da fornace in assenza di aria condizionata, televisore a pulsante tipo Voxon degli anni Settanta e cuscini per gnomi, quelli corti. Le palle, invece, gonfie come due parabordi.
Sabato e domenica ultimiamo le riprese, perdendoci tra le creuze di Santa Margherita e rischiando secchiate d’acqua dagli squisiti rivieraschi, un curioso incrocio tra cinghiali e liguri. Il caos organizzativo è incentivato anche dall’omissione a livello nazionale dello zero dai numeri dei telefoni cellulari. Il clou di sabato è una comparsata al famigerato Covo di Nord Est dove siamo trattati malissimo da una masnada di mafiosi, puttanieri e stronzi tout court. Intanto ci vengono affibbiate, senza possibilità di rifiuto, le telepromozioni di un invendibile, delirante e orrendo ghiacciolo servito in palline e comprendiamo la pochezza intellettuale dei creativi pubblicitari. Quelli che erano dubbi cominciano a diventare certezze: ci siamo infilati in un vero labirinto di merda.
La seconda puntata si gira a Gaeta e intanto son venuti a mancare gli artisti di una major per qualche rappresaglia alla produzione, sicuramente giusta, direi. Il montaggio della prima puntata mette i brividi: del resto lavoriamo in condizioni da tivù malese e, giuro, dalla Rete ci viene chiesto “un po’ di mistero”. Io intanto — a Gaeta — vengo dimenticato un’ora e mezza nella spettrale Grotta del turco, non prima di essere chiuso per errore dentro al monastero adiacente alla Grotta stessa, salvato da un prete misericordioso che viene a liberarmi forse infastidito dalle forti bestemmie. Il sabato va in onda la prima puntata e lo spettacolo è grottesco: nel già non giulivo programma appaiono pure scritte lampeggianti che illustrano le misure di Filippa, il suo segno zodiacale o i suoi pensieri. Ci consoliamo con Elisa che zompa sulla barca e poi canta come un angelo cover di Marley accompagnandosi alla chitarra. La rabbia va e viene e deve essere percepibile a chi mi sta attorno, perché tutti mi chiedono se sono nervoso, contribuendo a farmi diventare isterico, altro che nervoso. Quando la domenica arrivano i risultati dell’Auditel è un pianto. Ci consoliamo mangiando da un ristoratore che a un certo punto ritiene che qualcuno lo abbia frodato; scenate a non finire, minacce, gente che scappa: abbiamo il potere di mandare in tilt chiunque. Ritorniamo da Gaeta in aereo, tutti separati, incazzati e stravolti. È solo l’inizio, ma ancora non lo sappiamo.
Il terzo week end siamo a Porto Santo Stefano e l’isola del Giglio, bella è bella. E sono finite le cose positive. In barca registriamo l’intervento di Carlotta, carneade alta un metro e trenta. La domenica siamo però sull’Adriatico, a registrare un grottesco concerto in playback su un palco enorme e vuoto, con un cast artistico degno del Festival degli sconosciuti di Ariccia. La cosa più agghiacciante è un imponente travestito che sembra uscito dal carnevale di Rio e che mi dicono essere ottimo rappresentante della scena dance. Sarà. Pubblico presente a questa vaccata: 40 disturbati e acrobazie della regia per nascondere il vuoto in platea, mentale e fisico. Intanto, complici le prove del GP di automobilismo (!), abbiamo incamerato il 4,7% di share. Praticamente il nostro è un seppuku televisivo. Siccome siamo previdenti giriamo anche i lanci della puntata del “meglio” del programma, ammesso che sia possibile individuarne uno. Ma l’operatore deve essere orbo perché scopriremo che ha girato metà del lavoro fuori fuoco (frase che ha preannunciato l’increscioso errore: “Niente autofocus! Tutto manuale, così giochiamo con le profondità di campo!”). Ulteriore ferita un’intervista imposta al povero Bennato e a noi, grazie a un discografico immondo che, dopo aver combinato tutto, pretende che non si facciano domande non inerenti l’ultimo disco. E allora vai di: “raccontaci l’ultimo disco” e lui che risponde come un disco incantato con le stesse cose che ho già letto e sentito ovunque. Allegria.
Andiamo a dormire sconsolati in un albergo che sembra un ospedale psichiatrico sovietico, con polverosi lunghi corridoi e spettrali camere da sanatorio. Tornando a Milano la macchina di produzione finisce la benzina in piena autostrada. Non ho più lacrime da piangere, io.
Stordito dagli avvenimenti, sono vittima anche di Barbara che a Milano mi costringe a prendere parte a uno happening teatrale in piazza Affari, una bufala di teatro danza che fa sbavare gli intellettualoidi. Diciamo che l’ho presa solennemente in quel posto. È pieno di zanzare e di gentaglia che se la tira da colta. Non so se capite, ma in scena ci sono il “gesto”, l’“atto”, la “comunicazione”, lo “scambio”. Ti mettono al centro di un palco e delle persone che hanno seguito il seminario teatrale del guru che organizza questa baracconata ti girano attorno. In più musica dal vivo di tre tedeschi ultraquarantenni, i più cialtroni di tutti perché ci credono ciecamente. Sono tutti convinti e il pubblico ci casca perché una giornalista con la terza elementare avrà scritto che è bello questo senso di comunione con gli artisti. È incredibile come questo borseggio intellettuale appaghi il borseggiato, veramente bestiale. Me ne vado con le palle sbriciolate, pieno di punture di zanzare, convinto titanicamente che il teatro sia morto, sepolto e pure polverizzato. E alla tivù, intanto, ci sto pensando io.
Il terzo week end di luglio siamo a Salerno, mentre a Genova avviene un legale massacro al G8 e noi siamo attanagliati dall’angoscia. Mentre giriamo arrivano notizie frammentarie e incontrollate e veniamo continuamente interrotti da telefonate di amici che non sanno dove scappare, picchiati e impauriti. In un’atmosfera surreale rischio anche di perdere l’udito. Succede che durante la registrazione della puntata accompagni la bionda sull’aeroplanino da cui si butterà per fare paracadutismo. In realtà sarebbe dovuto salire Max, però quando l’hanno invitato a mettersi il paracadute (“non si sa mai…”) ha assunto il colorito dell’amarena acerba (gialla) e allora son salito io. Il pilota dell’aereo era però in crisi di personalità e voleva mettersi in mostra in qualche maniera. Lanciatisi i vari paracadutisti m’ha chiesto se poteva fare qualche evoluzione. Io, che sono il solito fesso: “ma si figuri”. E ‘sto qua ha cominciato a fare cose che neanche una freccia tricolore: viti, cabrate, cadute… per fortuna non son debole di stomaco. Ma fin lì, niente di male. Il problema è che questo kamikaze del cazzo è voluto arrivare a terra a tempo ai paracadutisti per cui, dopo qualche balletto aereo, ha puntato decisamente al terreno. Praticamente abbiamo fatto da 4500 metri di altezza al suolo in meno di 1 minuto, come uno stuka in picchiata su Varsavia nel ’39… cioè, per rendere l’idea: accelerava! E più scendevo e più tentavo di compensare, ma è una parola con le mani e il naso sudati per la tensione, per cui sono arrivato giù con un male bestiale alle orecchie, come se mi ci avessero infilato due ferri da maglia. E mentre la produzione si avvia alla conclusione, io ogni sera penso al male alle orecchie. Tanto “domani tornerò a sentire come si deve”. Poi provo ad addormentarmi con il libro che mi perseguita da un mese: Domino di Diego Cugia, un romanzo sconclusionato e così retorico da far sospettare che Cugia pensi con i punti esclamativi. Boh, però magari ero io di cattivo umore…
No, ripensandoci, Domino fa proprio cagare.
Poi però continuo a non sentire una mazza e allora, a Milano, vado al pronto soccorso dove mi diagnosticano “otalgia e ipoacusia, con perdite ematiche a livello di manico e martello”. Ciò significa che ho tracce di sangue in tutti e due i timpani e una bella infezione in atto. Non posso volare né tanto meno viaggiare in treno. Chiedo al primario di Otorinolaringoiatria se posso andare a Crotone in treno e lui: “Non lo consiglierei a uno che scoppia di salute, figuriamoci a lei”. Per cui rimango a casa, triste, solitario ma non finale, ricoperto di pustole perché son pure allergico all’antibiotico. Abbandono malinconicamente la produzione che viene portata a termine eroicamente dal solo Max. Mi limito a scrivere da casa i copioni e le famigerate telepromozioni imposteci. Tra l’altro ho i coglioni ridotti proprio come il famigerato ghiacciolo in palle. Così imparo.
Ah, la barca, alla fine, non è affondata. Ma lo avrebbe meritato.
167 – Topo Galileo dell’arruffone Francesco Laudadio, Italia 1988
Un mese dall’ultimo film. Non m’era mai accaduto, ma il disgraziato lavoro che ho preso m’ha ridotto così. E me lo merito. Appena mi rimetto in piedi da diversi malanni di salute, metto fine al mio digiuno con un curioso filmetto che ha avuto poca fortuna in sala e meno ancora ne ha in tivù: Topo Galileo sfodera un Beppe Grillo d’annata e viene relegato al palinsesto notturno di Italia1. Boh. Il film è brutto, diciamocelo subito. Brutto perché ricco di spunti e povero nella realizzazione e nello sviluppo. È un peccato perché la sceneggiatura di Grillo e Benni ha dei momenti carini e la fiaba grottesca potrebbe essere interessante. Tutto si perde in una messa in scena pauperistica, dove gli attori fanno un po’ ciò che vogliono (Pagni e Bonacelli teatralmente sopra le righe, Jerry Hall agile come un bradipo) e la fotografia e il sonoro sono senza qualità alcuna. E il buon Beppe? Ha qualche battuta fulminante, ma i tempi comici sono stroncati dalla mancanza di spontaneità imposta dal mezzo cinematografico. La storia è quella di Galileo, derattizzatore buono che combatte i topi fornendogli dolce compagnia. Deve disinfestare una temibile centrale nucleare ma finisce per errore nel plutonio e diventa a sua volta una cavia da studiare. Fugge e rivela al mondo il pericolo che sta correndo. Le cose dette sono condivisibili, peccato che il contenitore sminuisca la portata di una denuncia che, a 15 anni da Chernobyl, sembra nuovamente dimenticata. Qualcosa si salva? Una o due scene, specie nella seconda parte. La migliore resta quella di Galileo imprigionato nel labirinto che lo porta al cibo. Musica firmata De André e Pagani, ma non sembrano loro. (Vhs da Italia1; 26/7/01)
168 – Scream 3 di un fulminato Wes Craven, Usa 2000
Che abbia un sacco di film in videoteca è cosa risaputa, ma Barbara pretende l’emozione Blockbuster. Vado in missione e la compiaccio prendendo un film che avevo rifiutato di vedere al cinema e che pure in videocassetta non mi attira per niente. E infatti Scream 3 è una stronzata irritante. Stronzata perché è confuso come trama (rimettendo in gioco tutto quello che s’era già detto negli episodi precedenti) e prevedibile come colpi di scena. In sovrapprezzo è parlatissimo (cosa che mi irrita in un film francese, figuriamoci in uno americano) ed è recitato a livello di spettacolo parrocchiale del basso Piemonte, altra cosa che in un film yankee non ti aspetti. Dei vecchi personaggi Neve Campbell è frastornata, ma chi lascia a bocca aperta è Courtney Fox che se in Friends deve sforzarsi di sembrare una quasi trentenne, qui non riesce a nascondere di essere una quasi quarantenne che sembra una cinquantenne andata a male. La regia disordinata è di Craven e questa è la cosa che più lascia stupiti: come fa l’uomo che ha diretto il primo Scream a rendersi responsabile di questa porcata? Fino ai titoli di coda ho pensato alla regia di un mestierante erede del terzo episodio e invece no. E anche se Craven non ha colpa, mettiamoci pure che Blockbuster ha rigorosamente cassette a tutto schermo con colori pastellati. Film orrendo, accompagnato da pop-corn preparati da me medesimo altrettanto stomachevoli. (Vhs originale; 26/7/01)
(Continua — 13)
Qui le precedenti puntate di Divine Divane Visioni.