di Luca Barbieri

ILibriDelRogo.jpg[Avevamo smesso di pubblicare il lavoro di Luca Barbieri sulle manipolazioni del “caso 7 aprile” operate dalla stampa. Credevamo che avesse perso di attualità. Purtroppo non è così. Approfittando del clima “revisionistico” imperante riappaiono “dietrologi” di mestiere o protagonisti di quella stagione, a rispolverare la tesi secondo la quale Brigate Rosse e Autonomia operaia erano la stessa cosa. Riprendiamo quindi a presentare una controinchiesta tra le più accurate, questa volta decisi a proporla nella sua integralità.]

Qui le precedenti puntate.

c) 2002 – Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

13. Battaglia politica intorno al 7 aprile

Attorno al 7 aprile, se ne parlerà meglio più avanti, si gioca in parte anche un’importante battaglia politica. Gran parte di questa è interna proprio alla sinistra. In questo paragrafo mi ripropongo di fare qualche considerazione sull’autorappresentazione del PCI nella vicenda. E’ anche questo un tassello importante per capire la battaglia simbolica che si è svolta attorno a questa inchiesta.

Il PCI baluardo della democrazia

La battaglia politica che si gioca nel 1979, anche in vista delle prossime elezioni di giugno, porta i partiti a marcare più nettamente le proprie posizioni sull’operazione 7 aprile. Prescindendo da analisi complottistiche, che vedono nel 7 aprile un’inchiesta dettata da necessità “elettorali”, analisi che non trovano alcun fondamento e sono allo stesso tempo specularmene strumentali, bisogna tuttavia riconoscere che il clima di campagna elettorale influenzi significativamente il modo in cui le forze politiche si rapportano all’azione della magistratura. Alcuni conflitti discendono per via diretta dal caso Moro. Nelle forze politiche italiane c’è una sorta di frattura: da una parte PCI e DC che formano, già nel 1978, il cosiddetto “partito della fermezza”, contrari a qualsiasi mediazione per tentare di salvare la vita di Aldo Moro e dall’altra il PSI che, per vari motivi, tenterà anche attivamente di aprire un canale di dialogo con i brigatisti e che terrà, anche nel 7 aprile, attraverso diversi suoi esponenti (in particolare Mancini) un atteggiamento più critico sull’inchiesta. Tanto che alcuni adombrano che l’inchiesta 7 aprile sia un’indagine condotta contro il PSI. Lo sostiene ad esempio Repubblica in un editoriale non firmato, scritto probabilmente opera di Scalfari, intitolato “Piperno e il PSI”, e pubblicato il primo luglio del 1979 sulla pagina dei commenti. «E’ sembrato a molti — scrive Repubblica — che l’indagine giudiziaria sui contatti avuti da esponenti socialisti con i capi di Autonomia all’epoca della prigionia di Aldo Moro abbia un fine politico: quello di “intimidire” il PSI e gettare un’ombra di sospetto su alcuni dei suoi leader, proprio nel momento in cui si accingono a giocare un ruolo particolarmente delicato nella crisi di governo»
Ma le considerazioni più interessanti possono probabilmente riguardare il PCI. Con il proprio atteggiamento a riguardo dell’inchiesta 7 aprile, si può dire che il Partito comunista punti dal punto di vista simbolico a due chiari risultati: ridefinire la propria immagine, e di conseguenza guadagnare punti (elettorali) nei confronti dei diretti avversari. Per fare questo il PCI ha bisogno di dimostrare essenzialmente che gli altri partiti, in passato e adesso, non sono altrettanto bravi a combattere l’eversione e il terrorismo, e che la democrazia può essere difesa solamente dal PCI. Il PCI baluardo della democrazia quindi, a partire da Piazza Fontana, è quasi un tema ossessivo: prima contro le trame nere, poi contro le “sedicenti” Brigate Rosse e l’Autonomia, considerate dapprima come fascisti travestiti e poi come pericolosi eretici del marxismo. E’ come se il terrorismo e l’eversione di sinistra costringessero il PCI, il partito del doppio binario, che per almeno due decenni ha perseguito una strategia democratica continuando a blandire la classe operaia con il sogno e il miraggio della rivoluzione, a fare i conti con il proprio passato e la propria identità. Identità rivoluzionaria in quanto leninista, e democratica e d’ordine in qualità di grande partito di massa che punta alla conquista del potere attraverso la legittimazione elettorale.
Come detto la fermezza del PCI sul 7 aprile e nei confronti dell’Autonomia serve a definire la “mollezza” democristiana. Scrive l’Unità del 13 aprile 1979:

Dovrebbe far riflettere la differenza con Bologna. Perché la risposta di Padova non ha potuto essere come quella di Bologna? Come mai i democristiani della città veneta non hanno saputo e voluto fare ciò che i comunisti hanno saputo e voluto fare nella città emiliana? Cosa c’è dietro questa differenza? Il meno che si possa dire è che c’è debolezza e miopia: e forse anche l’illusione di poter scaricare sul PCI un assalto che, invece, ha per oggetto la sorte complessiva della democrazia. […] Ci sia consentito di dire al paese: il nuovo squadrismo ha capito che potrà passare solo se abbatterà l’ostacolo comunista. […] Stiamo difendendo la libertà di tutti.

Giovedì 19 aprile 1979 l’Unità parla di “scandalose inadempienze dell’esecutivo”. “Incredibile situazione a Padova: la Procura ha solo quattro magistrati — Molte promesse, nessun fatto”.
Ibio Paolucci si chiede: «C’è davvero da parte del governo la volontà di combattere l’eversione e di condurre a fondo e con mezzi adeguati la lotta al terrorismo»? L’Unità si fa portatrice della protesta dei magistrati costretti a lavorare in condizioni di superlavoro. Se n’erano già accorti i parlamentari padovani del PCI, rivela Paolucci, che allora presentarono un’interrogazione al governo. Ma niente è cambiato. «E allora è giusto che l’opinione pubblica conosca anche questi risvolti di una inchiesta giudiziaria, sappia che un magistrato, che con passione e intelligenza conduce la lotta contro l’eversione, è messo nelle condizioni di non potersi occupare come vorrebbe di questo problema, perché costretto a dedicare il suo tempo a mille altre questioni».
Sullo sfondo, da tener sempre presente nella lettura di queste polemiche politiche, ci sono sempre le elezioni europee di luglio. La caccia all’elettore moderato si fa anche presentando il PCI come partito d’ordine. Ma la voce del Partito si fa sentire anche su Paese Sera. Il ragionamento di Arturo Gismondi, su Paese Sera di mercoledì 11 aprile 1979, pacato e riflessivo è grosso modo questo: “è giusto attendere il risultato dei processi prima di giudicare. Ma anche demonizzare la magistratura è profondamente sbagliato perché l’Italia non è l’Argentina di Videla (!). Chi lo fa, adombrando la longa manus del PCI è un irresponsabile”.

Tentare — come si fa — di screditare l’inchiesta definendola una sorta di congiura del PCI è un atto grave e irresponsabile. E’ un atto grave perché in una campagna elettorale che si preannuncia tanto aspra esso tende a creare, nell’opinione pubblica, una frattura che corre lungo il fronte delle forze politiche, precludendo così ogni seria ricerca della verità. E’ un atto irresponsabile perché tende ad assegnare e a restringere al PCI una tensione, nella lotta al terrorismo, che viceversa deve percorrere tutta la società nazionale, allo stesso modo minacciata dalla violenza eversiva, e che deve coinvolgere tutte le forze politiche.

La conclusione, che a me sembra singolare, è la seguente: “chi attribuisce al PCI la paternità dell’inchiesta non è irresponsabile perché attribuisce al maggior partito di opposizione una congiura ai danni di un movimento che si posiziona alla sua sinistra. No, chi dice questo, è irresponsabile perché restringe al PCI la volontà di combattere il terrorismo”. A parte il tipico richiamo all’unità delle forze politiche popolari che corre sotto traccia a questo ragionamento, la cosa veramente singolare è che un’accusa, gravissima, venga trasformata non si capisce bene come, in un elogio inconscio da parte dell’accusatore.
Cioè la prima cosa detta non è che l’accusa è falsa, ma che il formularla danneggia il fronte democratico perché attribuisce unicamente al PCI la volontà di combattere il terrorismo. In realtà, continua Gismondi si tratta di «una strumentalizzazione anticomunista già pienamente dispiegata, e di iniziative, come quelle dei radicali, volte a pescare voti un po’ in tutte le direzioni».

A un mese dal 7 aprile si svolge il primo convegno organizzato per tentare di leggere e capire il fenomeno terroristico. La cronaca, sull’Unità del 4 maggio 1979, esalta la comune partecipazione di “operai, magistrati, poliziotti”. La nuova parola d’ordina, da contrapporre a quella “autonoma” (“Né con lo Stato né con le BR”), è “Contro il terrorismo per cambiare lo Stato” che lascia intendere e svela la funzione “reazionaria” del terrorismo italiana. Il concetto è chiarito dalle parole di Pietro Ingrao: «Probabilmente anche dietro al nuovo terrorismo ci sono i soliti “burattinai”. Anche i “nuovi terroristi”, d’altronde, puntano all’abbattimento del regime democratico. La violenza del capitale, a loro dire, fornirebbe la giustificazione per ogni delitto, anche il più feroce. Vengono così vanificate le conquiste che la classe operaia, in decenni di lotte, ha saputo ottenere».

L’attacco alla classe operaia proprio nel momento della vittoria

Perché il 7 aprile vede il PCI schierato in prima linea? L’editoriale senza firma “Garantisti o neutrali?” pubblicato dall’Unità il 26 aprile 1979 è molto chiaro in proposito. Rivolto ai garantisti:

E’ sorprendente come, di fatto, costoro rinuncino a capire che cosa sia veramente il terrorismo italiano, quale significato abbia la sua storia concreta e la sua presenza alla nostra società, a quali interessi esso risponda, di quale struttura organizzativa ed ideologica si avvalga, di quali coperture politiche abbia goduto[…] Vogliamo dire che la polemica garantista, priva del necessario retroterra politico, ideale, e culturale, produce effetti deformanti […] A chi serve la violenza? A quali esigenze politiche risponde la pratica del terrorismo oggi, nel momento in cui la classe operaia pone concretamente la propria candidatura alla direzione del paese? […] l’aggressione al PCI, le difficoltà create al movimento operaio in una fase cruciale della sua battaglia per il rinnovamento del paese[…] A tutti costoro torniamo ostinatamente a riproporre i nostri quesiti. Ci accusino pure di voler “imporre” a loro — uomini liberi — la esigenza di schierarsi, di battersi. Stiano attenti perché siamo arrivati a un punto molto pericoloso per la libertà di tutti. A troppa gente questa democrazia italiana non va più bene. Nello scontro tra la democrazia e i suoi nemici non si può stare nel mezzo, come in attesa degli eventi. E stiamo attenti ai polveroni. Si rischia di diventare strumenti ciechi e impotenti di chi vuol nascondere la verità.

Un pezzo in cui viene schierato tutto l’apparato simbolico del PCI. C’è un richiamo a forze oscure che manovrano il terrorismo (forse retaggio dell’antica incomprensione sulla natura del terrorismo rosso), il richiamo ai garantisti di un retroterra di valori comuni, una serie di quesiti che delinea un momento decisivo in cui occorre schierarsi. Ancor più in considerazione del fatto che il fenomeno in oggetto è intrinsecamente ostile alla strategia del partito e perciò rischia di ostacolarne il cammino verso il governo. All’Unità risponde il giorno successivo il Manifesto con il corsivo di Rossana Rossanda “Calma e gesso”. Un fondo inizialmente un po’ imbarazzato che però conclude con un analisi a mio avviso molto azzeccata sulla situazione simbolico-ideologica del PCI.

Esso non è un partito come gli altri. O è in grado di costituire, superandola, una sintesi delle ormai molto articolate spinte che ha contribuito a far crescere, o colpisce se stesso, la propria rappresentatività, il proprio ruolo e la propria forza contrattuale. Che vale strillare contro Craxi quando, sempre sull’Unità di ieri, si dichiara che l’affermazione “dittatura del proletariato è una forma superiore di democrazia” sarebbe un volgare slogan settario? Quando un nodo teorico e storico di questo spessore, che viene da Marx, che ha dietro di sé le tragedie dei socialismi e i fallimenti delle socialdemocrazie, si liquida così sguaiatamente, tutte le strade vengono aperte all’estremismo. Ecco come “non” si combatte il terrorismo e la sua ideologia. E’ grave che l’Unità non lo capisca, meni botte alla cieca, dimentichi il fin eccessivo garantismo togliattiano (lo stesso che lo indusse persino a obbiettare allo scioglimento del MSI), alimenti il sospetto di tentazioni maccartiste. Quella del terrorismo è una prova dura. Ma appunto per questo, come si diceva una volta, “calma e gesso”.

Ma il 7 aprile, forse e soprattutto in vista delle elezioni, non crea un’apertura in tal senso da parte dei dirigenti comunisti. Anzi la rigidità, se possibile, si aggrava. Non solo il terrorismo rosso ha una matrice unica e un manovratore forse ispirato da ben altri fini, ma esso, secondo alcune rivelazioni che emergono nel mese di maggio del’79, è perfettamente saldato con il terrorismo nero. Non solo un partito armato unico per la sinistra, come sostiene in sostanza il teorema Calogero, ma addirittura una partito armato unico per tutto il terrorismo italiano. I passaggi del ragionamento sono due. Innanzitutto il terrorismo che si definisce rosso non ha niente a che vedere con la storia e le strategia del movimento operaio (identificato nemmeno tanto velatamente con il PCI). In pratica una dichiarazione certificata: “Questi non sono nostri e non potete metterceli in conto”. «Emerge sempre più chiaramente – scrive l’Unità su un editoriale del 18 maggio 1979 – che siamo di fronte a un fenomeno politico con una storia, una propria genesi storica, un proprio personale politico che non hanno alcun rapporto con le idee, le esperienze storiche e la composizione sociale del movimento operaio italiano. Anzi: a tutto questo si contrappongono in modo totale». Secondo punto del ragionamento: siccome non sono veri comunisti ma anzi le loro azioni danneggiano il movimento operaio, è ovvio che siano mossi da qualcos’altro e agiscano in sintonia con interessi di matrice opposta. «E questo spiega benissimo i fenomeni di intreccio tra eversori di opposto segno in nome di una comune volontà di distruggere il sistema. Siamo dunque di fronte a una costruzione teorica e politica sui generis nata sul terreno sconvolto da una crisi di civiltà e di valori tipica delle società tardo-capitalistiche, irte di fattori di dissoluzione, di irrazionalità».
Per questo chi, come fa la Rossanda, chiama il PCI e la sinistra a interrogarsi sulla reale matrice del fenomeno sbaglia. «Non vedere questo e proporre la formuletta beota dell’album di famiglia è semplicemente stupido, anzitutto perché quell’album, se proprio lo si vuole evocare, ha un marchio borghese e anticomunista (si vedano, del resto, le figure della grande maggioranza degli incriminati, eppoi — il che è più importante — perché non fa capire la reale pericolosità del fenomeno che non si nutre di ascendenza ottocentesche ma di idee e di obiettivi politici nati qui e ora». E ancora: «e una parola a quegli esponenti che vanno blaterando sulle piazze di legami e ascendenze comuniste del terrorismo. Se avete un po’ di coraggio, leggete nei vostri comizi l’infame volantino di Padova dove il partito armato proclama che non c’è, per lui, maggior nemico del PCI» (Unità del 20 maggio ’79).
L’importante comunque, è e sarà ribadire più volte il fatto che il PCI con il suo atteggiamento rimane uno dei baluardi della democrazia italiana. Non sarà una grande democrazia, ma quella che c’è, la si deve soprattutto al PCI che ha sempre dimostrato senso di responsabilità schierandosi in sua difesa. Il fatto che gli autonomi indichino nel PCI il mandante dell’inchiesta 7 aprile è la riprova del fatto che questi lottano contro la democrazia (appunto perché lottano contro il PCI). «Vogliono distruggere la democrazia e per questo indicano il PCI ai loro killers; e siccome sanno che la democrazia vive, prima ancora che nelle istituzioni, nelle coscienze forgiate da una storia lunga di lotte, è contro le coscienze che rivolgono il loro ricatto: vorrebbero renderci vili, imbelli, arrendevoli. Sono anche stupidi: non sanno di che pasta è fatto il movimento operaio italiano. Di fronte a belve simili la consegna è una sola e semplice: scovarli e colpirli secondo giustizia. Non meritano una parola di più» (Unità del 19 maggio 1979, editoriale intitolato “Nazisti”).

Ugo Pecchioli è una delle voci che il PCI schiera più di frequente sul tema 7 aprile. Anche dopo il blitz del 21 aprile Pecchioli, con un’intervista all’Espresso, ripresa dall’Unità venerdì 28 dicembre nell’articolo “Il vero volto di Autonomia”, torna a ribadire il concetto. «I terroristi — dice Pecchioli — intensificano le loro azioni ogni volta che si profila la possibilità di una svolta politica democratica e di un superamento della crisi italiana con l’assunzione di nuove responsabilità da parte del PCI». Per questo il PCI si ripropone come unico e vero “partito d’ordine”. «A proposito delle recenti misure decise o proposte dal governo, Pecchioli — dopo aver richiamato le pesanti responsabilità della DC per il mancato potenziamento degli strumenti di difesa della democrazia — esprime l’avviso che questi provvedimenti si muovano in una direzione complessivamente giusta».

Visti da destra

Pur non rientrando direttamente nell’analisi di questo lavoro, è interessante dare un’occhiata a cosa del 7 aprile scrive Il Giornale. Il quotidiano di Montanelli, mi riferisco al numero del 10 aprile 1979, ha un atteggiamento duplice: da un lato si dice contento perché finalmente un pezzo dell’ultrasinistra fa la fine che merita e dall’altro adombra comunque il sospetto che si tratti di un’operazione gestita e creata dal PCI. Dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Scrive Il Giornale: «Se davvero il sostituto procuratore padovano e la Digos hanno trovato prove convincenti contro questi fanatici, l’operazione giudiziaria è pienamente giustificata. Anzi si tratta di un grande clamoroso successo, che tutti noi accoglieremmo con approvazione e perfino con entusiasmo». Giubilo quindi. D’altronde «in un certo senso, i brigatisti fanno figura di moderati perché si accontentano, almeno per ora, di azioni individuali. Senza dubbio, non sono teneri agnelli gli uomini che la Digos ha arrestato. C’è da chiedersi anzi come finora la magistratura non abbia ordinato la chiusura dei loro covi, delle loro radio libere, dei giornali che incitano alla ribellione armata non solo in teoria, ma anche nella pratica delle cose. E’ un errore che risale lontano […] Eppure nulla fu fatto, dieci anni fa, quando si sarebbe potuta fermare l’ondata eversiva che adesso sta raggiungendo il culmine. Allora eravamo in quattro o cinque (i “fascisti” naturalmente) a protestare per l’inazione e l’impotenza dello Stato. Tacevano, o proteggevano i violenti, giornali e partiti che ora muovono rumorosamente all’attacco dell’ultrasinistra, talvolta confondendo la testa dei lettori e forse anche dei magistrati e dei poliziotti». In effetti sul tema Il Giornale può vantare una coerenza di vedute che probabilmente nessun altro ha avuto. Il riferimento oltre che al PCI può essere sicuramente al Corriere, colpevole, a detta di Montanelli, di vistosi sbandamenti a sinistra nei primi anni Settanta (ma il tema è ben più complesso). In particolare Il Giornale insiste sul PCI. «In realtà sarebbe legittima una sola sorpresa — scrive Federico Orlando — che l’arresto dei presunti ispiratori e teorici del terrorismo sia arrivato soltanto dopo le imprudenze degli autonomi di Padova contro studenti e docenti e iscritti al PCI. Sono imprudenze che hanno fatto traboccare il vaso comunista, già colmo per l’uccisione di Guido Rossa e per il ferimento dell’ingegnere dell’Italsider, che il congresso del PCI ha eletto membro del comitato centrale […] Fino a un anno fa, era metodologicamente e politicamente necessario distinguere tra il Movimento (di cui l’Autonomia costituiva l’ala armata) e i terroristi clandestini o partito combattente. Ma dopo la strage di via Fani nessuna distinzione fu lecita..». In altri articoli Il Giornale dà ampio spazio alla voce degli autonomi quando questi accusano il PCI di essere manovratori dell’inchiesta (nel titolo di testa della pagina del 10 aprile”Autonomia: è una manovra elettorale del PCI”).
Il ragionamento è chiaro: questa operazione è scattata ora solo perché il terrorismo ha smesso di essere funzionale (come sarebbe stato per dieci anni) agli interessi del PCI e gli si sarebbe rivoltato contro. Il Giornale, fin dalla sua nascita, propone un’immagine di un’Italia e di una DC manovrata dai comunisti succubi di trame ordite da Mosca. Una visione paranoico-complottistica che spiega quasi tutti gli avvenimenti della fine degli anni Settanta come una mossa dei comunisti per arrivare al governo. Quello che può essere utile sottolineare in questa sede è che l’operazione 7 aprile, in quanto guerra in seno alla sinistra, viene utilizzata per dare un colpo al PCI e uno all’ultrasinistra.

CAPITOLO V
DISTORSIONI STRUTTURALI

1. Elementi strutturali e di routine

Questo lavoro rifugge totalmente qualsiasi visione “complottistica” e semplicistica del rapporto tra la stampa e la vicenda 7 aprile. E’ parso quindi necessario dedicare un capitolo all’esame di quegli elementi attinenti alla professione giornalistica che hanno contribuito a creare una certa “distorsione” tra la narrazione dei fatti e i fatti stessi. Si tratta, mi rendo conto, di un capitolo di “miscellanea”. Esso appare tuttavia importante perché fissa ed evidenzia gli elementi “strutturali” che hanno determinato un atteggiamento che, altrimenti, troverebbe la sua spiegazione solamente nella contestualizzazione storica e politica del fatto.

2. Le fonti del lavoro giornalistico

Un primo elemento che mi è parso utile verificare è quali fossero le fonti di informazione dei cronisti che hanno seguito il caso 7 aprile. Questo perché eventuali sbilanciamenti sarebbero stati facilmente spiegabili con l’uso o con il “privilegio” di alcune fonti rispetto ad altre. Innanzitutto un’annotazione: a detta di tutti, lo si ricava anche dai quotidiani dell’epoca, la “fonte” di notizie per eccellenza (e soprattutto di indiscrezioni) è il palazzo di giustizia di Roma. A Padova i magistrati, a parte le interviste, parlano poco.
Partiamo quindi dalle dichiarazioni dei giornalisti che hanno vissuto questa vicenda, tutti operanti a Padova e non sul fronte romano. Un cronista del Gazzettino, ricorda che «La prima cosa che si fa quando ci si occupa di materia giudiziaria è quella di conoscere bene tutti i documenti, innanzitutto le carte processuali. Carte che venivano innanzitutto dal collegio di difesa che ne aveva legittimo possesso e che aveva interesse a diffondere alcune cose». Quindi la fonte era principalmente la difesa. E gli inquirenti? «Nel corridoio della Procura della Repubblica si fotocopiavano spesso gli atti del processo. Da chi fossero dati, questo non posso dirlo. Si fotocopiavano utilizzando le macchine della Procura o del tribunale. Oppure aspettavi 10 minuti che un avvocato uscisse dal Tribunale con le carte nella borsa e andavi alla prima copisteria e fotocopiavi tutto quello che c’era […] In un tribunale trovi tante cose. Come fa oggi un cronista di giudiziaria ad avere in mano certi documenti? A volte inciampavi su questi fascicoli. Allora era anche possibile visionare il registro. Le informazioni insomma in qualche modo si trovavano». Il rapporto con Calogero com’era? «Durante il processo era un magistrato che vedevi tutti i giorni per 4-5 ore al giorno e quindi c’era anche la possibilità di parlare d’altro, non solo del processo. Un giorno eravamo in una stanza dietro all’aula bunker e mi raccontava delle indagini che faceva quando era a Treviso: Freda, Piazza Fontana. Ma non parlava mai del processo in corso».
Più articolata l’analisi del cronista del Corriere della Sera: «Le fonti erano sostanzialmente quattro: quelli che parlavano di più erano ovviamente gli autonomi, anche se all’inizio non ne volevano sapere di avere troppi contatti con i giornalisti. Ma alla fine capirono che con i giornalisti si doveva parlare e poi c’erano gli avvocati difensori degli imputati che spesso organizzavano delle conferenza stampa. Poi avevamo dal punto di vista istituzionale due punti di riferimento: uno era il procuratore Fais perché Calogero parlava molto poco, anzi non parlava quasi mai e strappargli qualche dichiarazione era un’impresa, mentre il procuratore Fais, che era il capo dell’ufficio, riceveva quasi ogni giorno i giornalisti ma più o meno per non dire nulla se non rassicurare il Paese che c’erano le prove. E poi dall’altra parte c’era il giudice Palombarini e il giudice Palombarini, come si sa, aveva un chiaro conflitto. C’era un chiaro conflitto tra l’ufficio del Giudice Istruttore e l’ufficio del Pubblico Ministero nel senso che mentre Fais, ma soprattutto Calogero, avevano un’idea molto chiara, dal loro punto di vista, di che cosa fosse il fenomeno, e quindi anche di alcune connessioni, alcune delle quali possibili, altre probabili, forse altre tutte da dimostrare, tra terrorismo e i capi dell’Autonomia e di Potere operaio, dall’altra c’era Palombarini che non ci credeva, anzi si capiva chiaramente che era in aperto conflitto. Quindi, da un punto di vista di completezza dell’informazione volendo, si avevano tutte le voci possibile e anzi, se si considerano gli autonomi e si considerano gli avvocati difensori e se si considera Palombarini, le voci di coloro che dubitavano della linea accusatoria erano più consistenti di coloro che la sostenevano. A quell’epoca ricordo non avevamo particolari contatti né con la Polizia né con i Carabinieri. In effetti le poche informazioni arrivavano nei palazzi di giustizia».
Infine il corrispondente dell’Unità che a differenza degli altri due colleghi non ha mai avuto rapporti con la difesa: «Le mie fonti erano i giudici, era quello che dicevano i giudici e quel poco che diceva la polizia. […]La mia fonte era quella ufficiale e uno studio autonomo dei documenti».
Non si è purtroppo avuta la possibilità di sentire su questo tema il PM dell’epoca Pietro Calogero, ma il giudice istruttore Giovanni Palombarini riferisce di un evidente scambio di “favori” e di reciproco sostegno tra magistrati e stampa. Più evidente certamente a Roma, ma presente in una certa misura, soprattutto per quanto riguarda il rilascio delle interviste, anche a Padova.
Per considerare correttamente i rapporti che la stampa tenne con autonomi e collegio di difesa bisogna tenere contro di alcuni fatti che non possono non aver influenzato, anche inconsciamente, il lavoro dei cronisti. Fin dai primi giorni dell’inchiesta infatti i giornalisti vengono maltrattati da alcuni esponenti dell’autonomia padovana. C’è il già citato esempio dell’assemblea al Palasport San Lazzaro in cui ai giornalisti gli autonomi non hanno garantito l’integrità fisica. Ci sono poi i tristi precedenti di Toni Garzotto del Gazzettino, gambizzato dagli autonomi, e poi Sartori e Coltro intimiditi e minacciati. E nei mesi a seguire i tazebao e i volantini in università che mettono alla gogna i giornalisti di Repubblica e dell’Unità. Fatti gravissimi che sicuramente hanno contribuito a creare un clima di tensione. Ce n’è abbastanza insomma perché i cronisti non abbiano in gran simpatia coloro che, secondo l’accusa, dovrebbero essere i mandanti di queste azioni.
Per quanto riguarda i rapporti con gli avvocati della difesa anche qui, in alcuni periodi, si registra una certa ostilità: soprattutto nei primissimi mesi dell’inchiesta capita che la difesa nel corso delle conferenze stampa minacci querele per tutti i giornalisti che riporteranno accuse false. E in effetti almeno due querele arriveranno veramente: sono quelle inviate ai giornalisti dell’Espresso e di Paese Sera che avevano sostenuto che la macchina da scrivere di Negri fosse la stessa che aveva scritto le risoluzioni strategiche delle BR. D’altro canto la stampa legata al PCI, quindi i corrispondenti dell’Unità e di Paese Sera, non perdono occasione per gettare discredito sul collegio di difesa del quale esaltano contraddizioni e ambiguità. Ma in questo caso si tratta di una guerra quasi personale. Insomma Il 7 aprile non può essere certo considerato un buon modello di come andrebbero condotti in un processo penale i rapporti tra la stampa e il collegio di difesa.
Quindi siamo di fronte a una situazione in cui i cronisti che seguono il caso 7 aprile trovano nel collegio di difesa e nel mondo dell’Autonomia una importante fonte di documenti processuali, tra cui i verbali degli interrogatori. Anzi diventa un’abitudine tanto consolidata che quando la difesa non consegna i documenti ai giornalisti subito avanza il sospetto che questa volta gli imputati si siano trovati in grande difficoltà.
Eppure, forse per il timore di rimanere “vittime” e essere manovrati da questa strategia difensiva così esplicita, questo essere “fonte” non è di nessun vantaggio alla difesa. Anzi. Sembra che i cronisti prendano questo materiale “grezzo” con molta attenzione e, per controbilanciarne la provenienza, ne cerchino un’interpretazione soprattutto a Palazzo di Giustizia. La consapevolezza della strumentalità della diffusione di questi documenti sembra aver portato i cronisti a interpretarli più attraverso la lente dell’accusa piuttosto che attraverso quella della difesa. Come dice il giornalista del Corriere della Sera: «gli avvocati difensori raccontavano molte cose e il problema nostro era quello di andare alla fonte per cercare di capire». La difesa viene usata come una specie di grimaldello che forniva alla stampa documenti e quindi notizie sempre nuove che poi però inevitabilmente (come avrebbe fatto qualsiasi cronista) venivano controllate con la controparte, cioè con gli inquirenti. Che di loro spontanea volontà non avrebbero parlato ma si trovavano a dover difendere gli elementi di prova accennati negli interrogatori. Si arriva così all’assurdo di un magistrato che dice confidenzialmente all’Unità che le prove più importanti non vengono ancora contestate per il rischio di “bruciarle” vedendosele poi pubblicate sui giornali. «Se ogni parola che contestiamo agli imputati — dicono — finisce sulle pagine dei giornali perché i legali violano sistematicamente il segreto istruttorio, è logico che, come minimo, prima di contestare per intero un documento dobbiamo controllare tutte le implicazioni che esso può contenere, eventuali nomi nuovi, circostanze, date, senza far conoscere in anticipo le nostre mosse» (Unità del 27 maggio 1979). Così la lettura di verbali che dimostrerebbero la sproporzione tra prove e accuse diventa solo l’indizio che i magistrati hanno in mano qualcosa di più grande. E costituire sistematicamente non la prima, ma l’ultima interpretazione e lettura in una notizia non è un fatto secondario.

E’ evidente però che non tutte le notizie del 7 aprile vengano generate da questo travagliato rapporto stampa-difesa. Soprattutto non possono provenire da qui quelle indiscrezioni piene di particolari accusatori a carico degli imputati. Capirne la provenienza è sicuramente più difficile. Si sa, appunto, che gran parte fuoriescono dal “palazzaccio” romano. La fonte è quasi sicuramente vicina alla parte inquirente. Ammette Palombarini: «Nella stampa c’è uno schieramento compatto, salvo poche voci che vengono etichettate come “fiancheggiatori”, con l’assenza di qualsiasi momento di critica nei confronti dell’inchiesta e poi un ruolo di “sponda”. A un certo punto tra gli inquirenti (comprendendo anche i romani) e la stampa c’è un gioco di reciproco sostegno, di aiuto. Tu sostieni l’inchiesta e io ti do spunti per tenere viva la cronaca per riempire la prima pagina». Secondo il magistrato in parte, ma solo per quanto riguarda la logica delle interviste, questo avviene anche a Padova. Che in tribunale le notizie si trovino lo ammettono anche i giornalisti. Più esplicito Giancarlo Scarpari, pretore penale di Bologna al tempo dei fatti, che dice: «Il magistrato inquirente usa i media, ma soprattutto la stampa, per garantire l’opinione pubblica sulla validità del proprio operato, appoggiando i giudici che seguono la sua impostazione, attaccando quello che invece se ne discosta. Il cronista giudiziario, dal canto suo, sostiene fino in fondo il pubblico ministero in questa sua attività extra-processuale, utilizza poi le ‘indiscrezioni’ che fuoriescono dall’istruttoria, enfatizza, preannuncia, aggrava le ipotesi accusatorie, creando così quasi un processo parallelo e anticipato» (28).

Se fosse veramente così ci troveremmo di fronte a un meccanismo abbastanza noto e diffuso, con i giornali affamati di notizie che in cambio di continuo materiale per rilanci “vendono” il proprio sostegno all’inchiesta e agli inquirenti.

I rapporti tra colleghi

Va sottolineato anche che i cronisti che seguirono l’inchiesta padovana che ho potuto intervistare hanno sottolineato da una parte una grande cooperazione e collaborazione con i colleghi e dall’altra lo scarto abissale tra il modo di lavorare di allora e quello di oggi. Il corrispondente dell’Unità parla di un rapporto «ottimo. Da allora è cambiato moltissimo il lavoro dell’inviato. Funzionava così: come aveva funzionato per l’inchiesta sulla Rosa dei Venti. Ognuno lavorava, raccoglieva le sue notizie, poi ci si trovava a pranzo o di pomeriggio al Plaza, all’Isola di Caprera oppure da Dotto, che erano luoghi molto costosi dove io mi vergognavo di entrare, e ci si scambiava le informazioni. Non c’era insomma il clima di tirarsi il “buco”. Si lavorava piuttosto bene. Si discuteva e c’erano idee diverse». Anche il collega del Corriere della Sera che dice che in alcuni momenti dell’inchiesta la truppa di giornalisti che alloggiavano al Plaza saliva sopra le trenta unità parla di un clima di collaborazione. Non è possibile valutare questo elemento con sufficiente chiarezza ma si potrebbe supporre che questo “muoversi in gruppo” abbia creato una certa omogeneizzazione più che nelle notizie nella lettura del caso in corso di narrazione. Cosa che peraltro accade sempre, non solo in riferimento alla vicenda in esame.

Verbali degli interrogatori e resoconti giornalistici: tra leggenda e realtà

Come detto, i verbali degli interrogatori vengono in gran parte forniti ai giornalisti dalla difesa. Ma non esiste in questo meccanismo una precisa corrispondenza. Va notato innanzitutto come gran parte delle rivelazioni vengano alla luce ben prima di essere direttamente contestate all’imputato. La scorrettezza in questo caso non è tanto nel lavoro giornalistico (i cronisti hanno una notizia e la danno) ma nella fonte che evidentemente usa i media per accusare senza alcun contraddittorio. Nel primo giro di interrogatori, quello del 10 aprile 1979, ad esempio, l’ufficio espone agli imputati solamente gli elementi di prova. Gli imputati decidono di rispondere esclusivamente a contestazioni su fatti e prove specifici. In pratica essi tacciono.
Il Corriere della Sera il 13 aprile parla invece di «una schermaglia, appena iniziata, ad altissimo livello, che giudice e professore hanno concluso, per ora, con qualche scambio di colpi».
Il primo vero interrogatorio verbalizzato è quello del 20 aprile 1979 che inizierà solamente nel tardo pomeriggio. Ma sui quotidiani se ne parla ben prima. “Si prevede un interrogatorio lungo e drammatico”, scrive l’Unità il 20 mattina:

Alla vigilia dell’interrogatorio di Toni Negri (fissato per le 16.30), intanto indiscrezioni a getto continuo hanno consentito di aggiungere altri particolari sulle prove raccolte dagli inquirenti. Nell’archivio segreto del docente padovano — come avevamo accennato nei giorni scorsi — sembra ci fosse un lungo studio, scritto di pugno da Negri, sulle azioni compiute dalle Br finora, caso Moro compreso. Elaborazioni ideologiche? No, dicono gli inquirenti: il docente avrebbe compiuto un esame degli errori, sia politici che operativi, commessi dai terroristi nelle varie occasioni, ed avrebbe messo a punto precise direttive da seguire in futuro per evitare il ripetersi di “passi falsi” e per perfezionare la tecnica e la strategia del “partito armato”.

Nei giorni seguenti si può notare una certa corrispondenza delle contestazioni tra i verbali e i giornali. O meglio: nei giornali c’è grossomodo tutto quello che c’è nei verbali ma anche qualcosa in più.

Scrive l’Unità del 27 aprile 1979, nell’articolo “Ecco le testimonianze contro Toni Negri”: «In diciannove pagine dattiloscritte c’è il filo conduttore della prima fase dell’inchiesta sul “partito armato”. Sono i verbali dell’ultimo interrogatorio di Toni Negri, risultato assai meno generico e inconcludente di quanto volevano far credere gli avvocati difensori. Il “succo” di questo interrogatorio, che ha visto il docente padovano stretto più volte alle corde, adesso serve come “trampolino di lancio” per le nuove indagini». Nello stesso articolo si riporta la notizia che a Negri è stato detto che fu Alessandrini a rivelare che la voce del telefonista a casa Moro era la sua. E qui l’Unità ne approfitta per dare una stoccata agli altri quotidiani. «Questa notizia, come si ricorderà, fu pubblicata dall’Unità una settimana fa e contro il nostro giornale furono scagliate (soprattutto da parte del Quotidiano dei Lavoratori) volgari accuse di falsità e strumentalizzazioni. Lasciamo ai lettori ogni considerazione». La cosa curiosa del pezzo, il cui titolo parla di alcune “testimonianze”, è che conclude con una chiusa insolita. L’interrogatorio si è svolto tre giorni prima. Questo sarà l’ultimo resoconto dedicato dall’Unità ai verbali degli interrogatori e vi vengono esposte le testimonianze dei testi e le richieste di delucidazioni sull’ospitalità fornita in tempi diversi a Maurizio Bignami e a Carlo Casirati. Ma il testo dell’articolo finisce con questa frase: «Ma l’interrogatorio era ancora all’inizio: e dopo sono arrivate le contestazioni “concrete” che i legali sollecitavano». Ma quali siano queste contestazioni concrete, che dovrebbero costituire l’elemento più importante, l’Unità non lo dice. Spulciando i verbali se ne ricava che l’unico elemento rimasto all’esterno del resoconto giornalistico, cui forse allude la frase, sono le domande rivolte a Negri per chiarire i rapporti con i coimputati di via Fani (onere che secondo la difesa spetta all’accusa). Tirate le somme siamo di fronte a un resoconto sostanzialmente corretto (nei punti toccati non nel commento), ma l’Unità fa esplicitamente credere al proprio lettore che ci sia anche dell’altro che però evita di raccontare.

NOTE

(28) G.Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia, cit., p. 8

(22 – CONTINUA)