[I gravi fatti di Marassi, dove gli ultras serbi hanno messo a ferro e fuoco lo stadio e quasi anche la propria nazionale, con la coreografia delle cariche di polizia, prendono corpo in un giorno italiano in cui un taxista milanese versa in coma grazie a un branco nichilista per avere investito un cane, mentre viene diffuso lo spaventoso filmato in cui si vede una donna spietatamente colpita dal pugno di un ventenne, che le crea un versamento cerebrale giusto nell’arco di tempo in cui chiunque la ignora mentre è priva di conoscenza, in una stazione della metropolitana romana. Ciò innesca richiami all’ordine poliziottesco, come è ovvio. Questo contesto nazionale e nazionalista mi suggerisce la pubblicazione di una fantasia più realistica che allegorica, finora inedita. gg]
Erano un milione le persone, circa, l’11 luglio 2006 al Circo Massimo, ed erano in quella conca geomorficamente ambigua a festeggiare i calciatori campioni del mondo. La testata di Zinedine Zidane non occultava la gioia della suburra nazionale in festa, che inneggiava il po-po-po-po, po-po-po-po di fronte ad Alex Del Piero, candidato a rientrare nei ranghi juventini in serie B: sotto i fari, torso nudo sotto una giacca di raso scuro, inneggiava all’amico fallito suicida e calciatore Gianluca Pessotto, urlando “Pessottino!”: Del Piero mimava mosse mitologiche di Freddy Mercury, la sua maschera era uno stravolgimento fisiognomico prossimo all’antenato degli antenati che aveva conquistato la preda. Marco Materazzi, l’enorme tuba floscia tricolore in testa, urlava stridii gravi e preverbali, primordiali. Fasci di luce rossa e verde investivano Carlo Verdone, adrenalinico, che pendolava sul palco sollevato dalla terra rifugio dei mortali, e con voce arrochita tentava l’urlo “Siamo campioni del mondo”. Gli occhi di Tiberio Timperi, la sua cifra ultraceleste e aliena, scrutavano l’immensa folla.
La situazione mutò così repentinamente da levare agli osservatori non solo il fiato, ma la stessa capacità di osservazione: vagavano ciechi mentre i tubi catodici irradiavano immagini di una fine dell’Italia che, a quel punto, apparve protratta da talmente tanto tempo che poteva, seppure obliata, dimostrarsi plausibile.
Nell’accalcarsi di eventi che seguirono l’improvviso degenerare della manifestazione che portò all’esplosione del collasso italiano avvenuto nel 2006, fu impossibile risalire a una precisa occasione scatenante di quanto accadde — o, peggio ancora, a un responsabile unico delle azioni di massa che condussero all’abbattimento del Palazzo di piazza Venezia a Roma e della demolizione subitanea e feroce della scalinata dell’Ara Pacis.
Invece era implausibile.
L’Italia in fiamme. L’incredibile si spalanca, a volte: inopportunamente.
Fu una ebollizione a gradi Fahrenheit impossibili da calcolarsi.
La scintilla che appiccò il fuoco a Roma si estese in una frazione minima di tempo a tutte le metropoli.
Tornavano à la page, ciechi gli osservatori e gli opinionisti radiotv, vati e profeti che, con la cecità, spartivano un’antica consumanza.
Fu sul fondo, accadde in fondo. Gli ultimi esistono sempre. Un singolo albero chiude comunque una foresta. E quella folla sterminata, quel campo di loglio umano, aveva anch’essa la sua ultima retrovia.
L’inno di Mameli sfregiato dai toni bassi, dalle disarmonie e dai monocigli.
Po-po-po-po: un morse e morse.
Dal fondo partì e non fu possibile isolare un’immagine precisa, che coincidesse con l’assegnazione di responsabilità. Un gruppo. Una congrega che aveva preordinato. Una variabile non del tutto impazzita.
Impossibile stabilire se si trattasse di gruppi ideologicamente connotati. Lì erano tutti tifosi, e il calcio è una ideologia unica, disposta a farsi beffare, a sottoporsi a dolori e nequizie, a esplodere in gioia e in sfoghi cutanei quasi. E infatti era esploso. Come, dalla gioia, si passò al terrore rimane un fatto oscuro, su cui gli storici stanno ancora lavorando, analizzando dettagliatamente le immagini televisive.
Fu sul fondo e fu una raffica di mitraglietta Heckler & Hock MP5, non in dotazione all’esercito italiano. Contemporaneamente si levava l’urlo “Dateci i soldi!” e quell’urlo penetrò e metastatizzò in una rabbia ingiustificata, repentina, verso l’avanguardia della massa, trasformandosi in un tifone, una marea montante di folla e di frustrazione compressa: e deflagrò.
L’uomo che, aggirata la security, si impadronì del microfono e cominciò a urlare, al ritmo del po-po-po-po che “Non ce la facciamo a tirare la fine del mese” fu in seguito falcidiato dall’invasione, sollecitata dal suo slogan, delle prime file sul palco: quelle memorabili immagini che si stamparono sui lobi prefrontali delle nazioni incredule: i vestiti dei calciatori andare in istracci, Fabio Grosso salta la staccionata retrostante, corpi denudati massacrati, divelti, Marcello Lippi disperso secondo i primi dispacci delle agenzie di stampa.
E poi l’improvviso movimento generale: tutta la Roma che non contava discesa in istrada, in piazza, casalinghe, commercianti, operai, precari, informatici, taxisti, ricercatori.
La notte ardeva come un’aurora boreale uranica.
Il dio dei Vulcani aveva il nuovo target: era italiano e si avviava a una trasformazione, all’ordalia.
Quella notte: Milano, Firenze, Bari, Venezia, Torino, Palermo, Perugia, Bologna (verso l’alba), Napoli, Trento e via le altre in sequenza che non si sa nemmeno se qualificare rapida, a ferro e fuoco le metropoli italiane, innescate dalla violenza vista sugli schermi al plasma (da sottolinearne l’acquisto di massa prima dell’inizio della Coppa del Mondo) e motivata dall’impoverimento generalizzato, divenuto insopportabile — una tregenda che ricorda i giorni peggiori del Terrore parigino e durò mesi.
L’abbattimento di Montecitorio e Palazzo Chigi, effettuato da truppe di gru mosse da macchinisti trimestrali e protetti da prime file dell’Esercito Popolare Autorganizzato: ore di assedio, carrarmati sotto cui infilavano mine blaster ragazzini popolani (in quei giorni tornò di moda la parola “popolo” e vi fu chi ipotizzò che il po-po-po-po ne fosse solamente l’anticipazione sillabica): ragazzini agili, inafferrabili, che si muovevano secondo gli schemi di un livello di Doom e per questo risultavano non intercettabili dall’esercito ordinario e ai benpensanti. Esercito che, lo si ricorda ancora nello sconcerto, finì con l’ammutinarsi e chiedere la separazione della Sicilia dal resto dell’Italia, agli ordini di un improvvisato Capo di Stato Maggiore baffuto, prima della sua impiccagione nei campi intorno ad Aviano, immersi i cospiratori nella bruma mattutina, mentre cercava protezione alla base americana assediata.
Nessun leader a guidare una protesta che aveva, secondo le definizioni del DSM americano che cataloga le patologie psichiatriche, le caratteristiche più estreme del delirio psicotico di massa.
Consumi a zero.
I desaparecidos apparirono su testate di gossip un tempo, ora organi di ben diversa natura.
La nostra Plaza Rosada contava sparizioni umane d’eccellenza: dove si trovava colui che mesi prima svolgeva le funzioni di premier? Gli occhi dei pochissimi estranei alla mobilitazione di massa scrutavano l’orizzonte in cerca della macchia frontale gorbacioviana del vecchio Presidente della Repubblica.
L’Autosole sventrata: il Paese interrotto.
Manifestazione continue, continue, continue: esasperanti. Chiedevano soldi. Chiedevano felicità. Battevano, in cortei lunghi come i serpenti astrali dello zodiaco cinese, su carcasse di pentole, infrangendo i vetri a prova di proiettile di ogni filiale di banca incontrassero sul loro percorso, sempre casuale eppure sempre affollato.
Milioni di tarme umane italiane arroventavano la Penisola. L’Europa, per tre mesi, ai piedi di se stessa e del proprio fantasma invecchiato, non intervenne.
Finché arrivarono i santi, dilazionati, igienici bombardamenti Nato.
E non avevano paura di quelli: nemmeno di quelli. Italiani brava gente: senza cibo, si lasciarono andare, con esacerbata bontà.
La memorabile strage di Napoli, tutta Mergellina affossata da ordigni discesi senza ostacoli contraerei, non riuscì a porre fine a un’insurrezione che non era catalogabile. Non è catalogabile in nessun digesto che sessanta milioni di persone decidano, senza passaparola, contemporaneamente, di dichiarare la propria infelicità e di perdere tutto, perché avevano troppo e ritenevano di avere troppo poco. I nostri kamikaze, i nostri nuovi Padri Fondatori.
Come ricordano i geologi, l’eruzione eccezionale del Vesuvio non è da mettersi superstiziosamente in relazione con quanto accadeva nella nazione, che era una variabile unicamente sociopolitica.
Ammazzamenti. Inumazioni.
Io voglio viaggiare in Italia in paese dei limoni
Brigade Rosse e la Mafia cacciano sulla Strada del Sol.
Distruzione della Lira Gelati Motta con brio…
Una landa di cadaveri, di corpi gonfi per le strade, di campagne annerite dall’opera di camole, cani randagi a branchi inferociti lappavano ossa spolpate.
Fu il primo passo.
Eravamo una volta ancora, come sempre, noi dell’Italia, l’avanguardia della specie occidentale, prona al proprio delirio, pronta a sfuggirsi, desiderosa di tornare pietra, rovina, inorganica – la nostra vocazione minerale.
Affinché tutto fosse riassunto nella fine, dopo il supplemento, dopo il supplementare, dopo che al tempo era stata concessa una seconda rinnovata possibilità, avevamo vinto quattro Mondiali.