di Riccardo Falcetta
Antonella Lattanzi, Devozione, Einaudi Stile Libero, 2010, pp. 372, € 18,50.
Devozione è il racconto di una passione voluta, vissuta, fortemente perseguita, che diventa necessità e poi ossessione: il desiderio di vita quando muta in un incubo di morte — te la vedi accanto ogni minuto […] sta in ogni pensiero che fai. È la storia terribile e drammaticamente “vera” di due ragazzi e della loro devozione per la regina Indiscussa di tutte le droghe.
L’esordio letterario di Antonella Lattanzi è un’occasione considerevole per la letteratura italiana recente e lo è per diverse ragioni. Si tratta, prima di tutto, di un libro di assoluto interesse civile: in un momento in cui la tossicodipendenza da eroina non fa più notizia tra i grandi media e gli eroinomani sono divenuti scorie sociali condannate ai margini di un generale disinteresse, il romanzo riporta la questione all’attenzione dell’opinione pubblica con una forza di intenti che ha come unico paragone possibile, nella produzione recente, Gomorra, il celebre romanzo inchiesta di Roberto Saviano.
Un altro aspetto, a ben guardare, può far accostare in qualche modo Devozione al libro di Saviano, decretandone, al tempo stesso, una spiccata originalità rispetto all’ingombrante termine di paragone: mentre lo scrittore napoletano raccontava, con la formula del reportage romanzato, i luoghi e i protagonisti piccoli e grandi dell’impero della Camorra, la Lattanzi sfrutta la medesima tecnica, il reportage, a un livello più sottile: sprofondandola nel magma cocente della cronaca romanzata delle vite alla deriva di Nikita e Pablo, i due eroinomani protagonisti del suo romanzo, due ragazzi di ventisei anni che non sarò mai come tutti gli altri, che alla fine muoiono.
Nikita e Pablo, e poi Annette (la francesina bella come una bambolina però splendidamente matta pure lei fatta, rapita e abbandonata nel portabagagli di una Cinquecento), Clara e Clodia, parenti di Nikita nella Bari della sua adolescenza (un deserto impressionista), il prematuro desiderio di emulazione nei confronti di Christiane F. e i ragazzi dello zoo di Berlino (il potere della denuncia sta tutto nella sua stessa pericolosità!) e poi gli infermieri dei SerT, l’incubo della rota e delle malattie infettive e la ferocia assoluta della normalità tutto intorno: tratti di un’ epica metropolitana per vite al ribasso.
La scrittura sapiente e virtuosa di Antonella Lattanzi, scrittrice barese appena trentenne che vanta già un notevole piglio stilistico, è l’altro motivo dell’importanza di questo romanzo. Perché è materia civile, denuncia sublimata a letteratura. Per intensità e ricchezza, pare esondare ad ogni capoverso mentre, in realtà, gestisce con maestria una narrazione complessa, condotta con tempi e toni per nulla filtrati da un linguaggio virtuoso, imperfetto, che sa farsi ossessivo, disritmico, il quale alla stregua di uno zoom impazzito ricerca continuamente il focus nel procedere vorticoso di una vicenda che “vive” di accumulazioni e rimandi tra il presente deteriore — una Roma cianotica, fantasmatica, soggettivata e dilatata attraverso il delirio psicotropo dei protagonisti — e i ricordi della discesa nella spirale della tossicodipendenza, verso poche, apparenti oasi di umanità ritrovata. Nei quali, va detto, nonostante la drammaticità, l’autrice non cede quasi mai all’inganno del sentimentalismo, sopperendovi con una ironia che concretizza passi di stramba e irresistibile poesia. Racconto senza compromessi, pregno di umori e di suggestioni, Devozione, che niente risparmia nel farsi resoconto fedele e sconcertante di un vissuto ai margini. Un libro non facile, ma al tempo stesso avvincente. Di certo, un libro importante.