di Franco Pezzini
Quando nel 1865 Charles Lutwidge Dodgson pubblica il testo di una fiaba inventata a braccio durante una gita di tre anni prima, è ben conscio delle promettenti prospettive economiche dell’operazione — tanto che se ne addossa il costo in cambio del novanta per cento delle royalty, guadagnando una barcata di soldi. Ma non può sospettare fino a che punto il libro, firmato col nome d’arte di Lewis Carroll, influenzerà il mondo. Il topos della ragazzina che si trova a penetrare in una realtà alternativa, paradossale e vagamente perturbante trova così la sua codificazione moderna — e di lì infinite Alici approderanno nella cultura popolare.
L’influsso del dittico costituito da Alice in Wonderland e Through the Looking-Glass sarà profondo già in età vittoriana, a volte quale chiara forma d’ispirazione, a volte in termini meno diretti. Per esempio si è osservato il rapporto peculiare delle immagini descritte da Carroll in riferimento allo spazio: particolarmente in Alice in Wonderland le scene rappresentano sorta di tavole autonome senza una profondità reale, come fondi teatrali in progressivo spostamento, bozzetti da lanterna magica, o illustrazioni di pagine via via girate sulle quali i personaggi si muovono in pop-up. È almeno suggestivo pensare che la provocazione del rapporto tra due e tre dimensioni, come il più ampio corpo di paradossi logici compresi nel dittico, possa aver influito sulla scelta narrativa di un collega di Dodgson, matematico come lui — cioè Edwin Abbott Abbott nel celebre romanzo satirico e allegorico Flatland, 1884.
Ma c’è un caso di influsso che in questa sede interessa in via più diretta, e al quale, curiosamente, non si è mai tributata l’attenzione che merita. In Alice in Wonderland, ambientato sottoterra — ma virtualmente agli Antipodi, sospetta Alice, cioè la terra down under, sottosopra — la narrazione sviluppa i suoi paradossi appunto attraverso un capovolgimento delle regole: nonsense, personaggi che contraddicono in continuazione i precetti enunciati, eccetera. Mentre Through the Looking-Glass, 1871, è tutto giocato sul motivo della specularità, attraverso doppi e contrari, fino alle estreme conseguenze logiche. Due “opposizioni” diverse, insomma, ma capaci di scatenare effetti narrativi di esilarante efficacia con risvolti surreali, oniricamente stranianti. Se però ci soffermiamo sulla data della seconda avventura di Alice, scopriamo che nel dicembre di quello stesso 1871 un altro scrittore di lingua anglosassone, l’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu, inizia a pubblicare sulla rivista The Dark Blue una diversa storia di ragazze oltre lo specchio, il romanzo breve Carmilla: la pubblicazione è ultimata nel marzo successivo, e più avanti nel corso del 1872 il testo viene riproposto nella raccolta In a Glass Darkly, fitta di riferimenti a doppi e oscure specularità. Di più: all’inizio di Carmilla, si racconta un episodio inquietante che interessa la narratrice Laura ancora bambina, proprio come Alice; e più avanti la ritroviamo cresciuta. Il testo lefanuiano — come ben sanno i frequentatori di questo sito — è denso di quell’indicibile che circonfonde la repressione sessuale vittoriana di una minacciosa costellazione di riferimenti morali, simbolici e mitici, e che trova radici già nelle immagini da phantasmagoria (appunto la lanterna magica, come esplicitamente rimarcato al primo capitolo) trattenute da Laura sul lontano episodio infantile. Benchè la vita di Le Fanu nel periodo di composizione di Carmilla resti a tutt’oggi un po’ misteriosa — pur coi passi di grande importanza compiuti in questi ultimissimi anni grazie agli studi di Matthew Gibson — sembra probabile che la provocazione di Through the Looking-Glass abbia avuto peso significativo per la genesi del romanzo di Le Fanu, finendo col convogliarvi suggestioni del dittico nel suo complesso.
Di primo acchito la proiezione della serena atmosfera carrolliana entro un contesto gotico può risultare urticante. Ma, a parte gli infiniti richiami in nero al testo di Carroll nell’odierna cultura di genere (basti citare Quando Alice ruppe lo specchio, dell’eclettico Fulci) o le stesse connotazioni neogotiche dell’Alice in Wonderland di Tim Burton, l’Autore non era certo digiuno di fantasie inquietanti. La sua attività di bibliotecario — che gli permetteva in realtà di leggere molto e lavorare poco — offriva sicuramente un ampio bacino di spunti. A partire dal folklore: si pensi alla notissima storia di un altro reverendo di un paio di secoli prima, Robert Kirk, che avendo imprudentemente discettato del Piccolo Popolo nell’opera The Secret Commonwealth, a distanza di pochi mesi sarebbe sparito sotto terra, trascinato a vivere nella città delle fate fino agli ultimi tempi, quando i sogni verranno dissipati (si veda il bel saggio di Mario M. Rossi, Il cappellano delle fate, che accompagna l’edizione Adelphi dell’opera kirkiana, Il Regno Segreto). Difficile che scrivendo Alice’s Adventures Underground o Alice’s Hour in Elfland (tali i titoli originari del primo romanzo), Dodgson non ricordasse storie del genere. Quanto alle streghe, alcune letture liberissimamente rielaborate potrebbero spiegare suggestioni come la manducazione del fungo con effetti (allucinatori?) di trasformazione, o il volo di Alice — in treno — attaccata alla barba di un caprone, presenti rispettivamente nel primo e nel secondo romanzo. A livello più strettamente letterario, poi, sappiamo quanto Dodgson manifestasse ammirazione per lo scandaloso Swinburne — con una scelta piuttosto controcorrente per i gusti d’epoca e lo stereotipo del candido amico delle bimbe — e dunque ci troviamo già in zona Belle Dame vampiresche. Ma c’è un motivo anche più forte, a mostrare come l’immagine della Vampira fosse ben radicata anche nell’orizzonte interiore di Dodgson: e una digressione s’impone.
In un libro provocatorio e avvincente meritevolmente proposto ora (2010) da Castelvecchi, Lewis Carroll. La vita segreta del papà di Alice, Karoline Leach affronta l’evoluzione del mito di Carroll, dal santino vittoriano del castissimo disincarnato (costruitogli addosso mentre era ben vivo) agli allegri freudismi circa presunte turbe che biografi più tardi proiettarono su quello stereotipo senza discuterne la storicità — sviati peraltro dall’isterica e nefasta “protezione” imposta dai familiari sulle carte del defunto. Comprese quelle pagine dei diari — ormai pubblicati, anche se mutili — che rivelano un Dodgson assolutamente “normale” anche nelle pulsioni sessuali, e anzi disinvolto nei rapporti col gentil sesso. Se il mito di Carroll non fosse stato custodito con la forza di un dogma, non sarebbero neppure stati necessari i diari per accertare il banale dato anagrafico che le childfriends di Dodgson spesso non erano affatto bambine; o che il successo coi piccoli di questo geniale piacione non ostacolava sue continue e disinvolte frequentazioni di donne del tutto adulte. Le stesse famigerate foto di bimbe, spesso nude, indicate come prova della pedofilia di Dodgson, connotavano in realtà tutti i repertori dei fotografi d’epoca: il bambino nudo era immagine di purezza persino sulle cartoline natalizie, ed erano le famiglie a pagare profumatamente pionieri come il Nostro per immortalare le proprie figlie grazie all’ultimo, incredibile requisito della tecnica.
Ma oscuro oggetto del desiderio non era neppure Alice Liddell, modello solo virtuale per l’Alice del dittico, e sulla quale invece si riverseranno tante chiacchiere e fantasia: un rapporto di doppio vampirizzante in qualche modo parallelo a quello tra il Dodgson reale e il Carroll del mito. Nei fatti, insomma, le tentazioni per Dodgson non venivano dalla Donna-Bambina, vittorianamente incaricata di mondare la sua anima sporca con le fantasie dell’infanzia, ma da quella ormai cresciuta. E guarda caso, negli anni in cui il Nostro consolida il proprio successo grazie ad Alice e pare scintillare di serenità, le sue poesie rivelano qualcosa di totalmente opposto.
Ciò che emerge dai velami di versi che paiono riecheggiare (con accenti più intimi) il clima della Christabel di Coleridge è la storia di una Caduta, tanto più impressionante per un personaggio i cui scritti precedenti non mostravano attitudini alla macerazione: la storia di un rapporto sconvolgente con una donna — adulta, non c’è dubbio — che l’ha sprofondato con noncuranza in un piacere dai connotati predatori e devastanti. Una donna in apparenza giovane e bella che però rivela in un secondo momento un aspetto di vecchia, come nelle storie di vampire ultracentenarie, braccando l’anima della vittima: una dominatrix vampiresca sulla cui identità Leach non si pronuncia espressamente, ma di cui condivide con il lettore un identikit abbastanza univoco. Non è un caso se manca il volume di diario corrispondente alla fase critica di quel rapporto, certo eliminato dagli eredi per salvaguardare il solito mito: ma in quelli successivi e per lungo tempo troviamo Dodgson devastato dal senso di colpa. Rimandando allo splendido testo di Leach per le interpretazioni su queste pagine poco note ed effettivamente impressionanti, è inevitabile constatare che nel periodo in cui nasce Alice il suo autore si sta confrontando — almeno soggettivamente — con un’esperienza vampiresca. E insomma, Carmilla non è lontana.
Ma torniamo al rapporto con Le Fanu. Al di là della plausibilità di un’influenza in termini generali, il problema è se il confronto tra i testi veda consonanze significative: e in effetti alcune sorprese emergono. I paragrafi che seguono non presumono ovviamente di esaurire il tema, ma si limitano a suggerire alcune piste poco note o in precedenza non formulate che futuri studi potranno o meno confermare. Prendiamolo come un gioco (di carte, vedremo), e indaghiamo su cosa trarre dall’accostamento tra le avventure delle due protagoniste, vittoriane di buona condizione sociale alle prese con uno strano orizzonte di sogni. Per comodità, sia per Carroll che per Le Fanu attingo alla largamente diffusa edizione Newton Compton (indicando con A1 e A2 le avventure di Alice, con C il romanzo di Le Fanu).
Una prima indicazione è di carattere strutturale: qualcosa apparenta questi testi fin dalla struttura fondamentale, seppure in forme piuttosto comuni nell’ambito della narrativa fantastica ottocentesca. Sia infatti le vicende narrate da Carroll che quella di Le Fanu sono circoscritte da una struttura-cornice a più livelli: un espediente che permette al lettore uno stacco critico fornendogli elementi più o meno univoci di interpretazione. In Alice in Wonderland troviamo così una cornice “esterna” con la voce del narratore (che udiamo solo all’inizio) attraverso la poesia sul “Pomeriggio dorato”, e una “interna” (solo alla fine) con la ricapitolazione del racconto a opera della sorella di Alice, dopo che la bimba si è svegliata; mentre in Through the Looking-Glass troviamo la cornice “esterna” del narratore (presente con poesie all’inizio ma stavolta anche alla fine) e una “interna” di Alice alle prese coi gattini (essa pure all’inizio e anche alla fine) — e in entrambi i testi il narratore mantiene il controllo su pensieri e battute dei personaggi. Le Fanu conserva la struttura ma complicandola attraverso un gioco a tre voci, coi successivi livelli dell’esecutore testamentario che recupera la storia di Carmilla tra le carte di Hesselius, poi dello stesso Hesselius, erudito e dottore dell’occulto, e infine di Laura, protagonista e voce narrante. Il meccanismo è però molto simile, perché fornisce al lettore una chiave critica su quanto sarà proposto. In Carroll cioè suggerisce (cornice “esterna”) che si tratta di un racconto inventato, dove (cornice “interna”) Alice si addormenta e (cuore del racconto) conosce in sogno avventure meravigliose. Invece in Le Fanu genera un dubbio di attendibilità radicale attraverso le memorie di una testimone (morta) al dottor Hesselius (morto) consegnateci dal suo esecutore testamentario (tonto, il che è persino peggio).
In un caso e nell’altro, dunque, il lettore è avvisato: ci si muove su un terreno di sostanziale inaffidabilità. Anzi, di ambiguità — un’ambiguità che attinge all’identità stessa della protagonista. “A questa strana bambina piaceva molto fingere di essere due persone” nota Carroll parlando di Alice (A1, 35). E subito dopo è lei a osservare: “c’è rimasto così poco di me che a stento basta a fare una persona che si rispetti!” (ibidem). Ma, a ben vedere, questa è proprio la situazione di Laura in Carmilla: nell’ambito di una vicenda tutta giocata sul potere vampirico della malinconia, la non-morta emerge quale doppio della narratrice, evocata dalla solitudine e da un inconosciuto, divorante desiderio — un volto oscuro, sovversivo e irresistibilmente seduttivo che le allusioni del romanzo (ben più di certe scollacciate rivisitazioni filmiche) circonfondono di pericolosa minaccia sessuale.
Di Laura e della sua gioventù resta poco perché si trova prigioniera in un mondo di vecchi, e forse non a caso la vicenda è ambientata in quella Stiria la cui little capital Graz era chiamata scherzosamente “Pensionopoli”, in quanto classico luogo di ritiro di alti funzionari e ufficiali come il padre.
Nessuna sorpresa dunque se proprio il Mondo Vecchio da cui la narratrice aveva cercato scampo tramite Carmilla muoverà per stroncare quella pericolosa, irrisolta ribellione — una realtà profonda che Laura, non-morta alla vita, non riesce a razionalizzare e la condanna alla deriva schizofrenica del rimpianto. Ancora Alice si domanda: “Questa mattina, quando mi sono alzata, ero sempre la stessa? Mi pare quasi di ricordare che mi sentivo un po’ diversa. Ma se non sono la stessa, allora la domanda è, Chi mai sono io? Ah, questo è il problema!’” (A1, 37). Ma lo stesso potrebbe dire Laura, alzandosi dal letto dopo che il suo doppio le ha succhiato il sangue — e in confusione sempre maggiore sull’identità di Carmilla e sulla propria, anche in riferimento alle proprie emozioni verso l’ospite. Se Alice comincia “a pensare a tutti i bambini della sua età che conosceva, per vedere se per caso si fosse scambiata con uno di loro” (A1, 37-39), anche Laura e Carmilla sono apparentemente coetanee e uno scambio in qualche modo c’è, un rapporto di negativo fotografico che presto diviene passaggio di sangue.
D’altra parte il dubbio sull’identità si rifrange: “Chi sei tu?” chiede ad Alice il Bruco (A1, 54), ma Laura pone la stessa domanda a Carmilla; e la limitatezza dei dati offerti in risposta sembra echeggiare la limitatezza delle nozioni di Alice allorché cerca di verificare — hai visto mai — di non esser diventata l’ignorante amica Mabel (A1, 39). Lo stesso “Bevimi” che Alice legge, e funzionale all’accesso al giardino proibito richiama l’atteggiamento di apertura di Laura all’ospite vampira e al suo oscuro mondo di delizie. Anzi su questa suggestione la scrittrice torinese Anna Berra ha impostato il romanzo libertino L’ultima ceretta edito nel 2003 per Garzanti, che però in origine doveva intitolarsi Bevimi: una citazione adeguata alla storia di una diversa Alice entro un Paese delle Meraviglie di eros e delitti, e allusiva al contempo a un lasciarsi bere in chiave vampiresca.
La storia di Alice è avviata dall’improvviso incontro con un Coniglio bianco, angosciato di arrivare in ritardo. Ma anche la storia di Laura è avviata da un incontro con qualcuno che teme (o meglio simula il timore) di arrivare in ritardo. Come lamenta la Contessa madre dopo l’incidente in carrozza — in realtà finalizzato a far penetrare come ospite la giovane vampira nello Schloss della narratrice — “Eccomi qui, in un viaggio che è questione di vita o di morte, nel quale perdere un’ora può significare perdere tutto […] ! Non posso, non oso ritardare” (C, 27).
D’altra parte anche Alice incontra un’aristocratica un po’ vampiresca. È la Duchessa, che fa la sua apparizione nella scena fortemente onirica del capitolo sesto, cullando un bambino/porcellino nei pressi di un calderone e chiarendo ad Alice l’identità del fantasmatico Gatto del Cheshire. In questa scena l’aristocratica appare considerevolmente inurbana, ma più avanti, al capitolo nono, mostrerà verso Alice alcune attenzioni altrettanto sgradite. Dopo averle stretto affettuosamente il braccio e averle parlato all’orecchio tanto vicina da farla sobbalzare, “le si strinse ancor più vicina” (A1, 79): cosa che la ragazzina non gradisce sia perché la Duchessa è molto brutta, sia perché “era proprio dell’altezza giusta per posare il mento sulla spalla di Alice, e aveva un mento assai appuntito” (ibidem) — un dettaglio ripetuto un paio d’altre volte, e anzi specificando che glielo conficca nella spalla. La Duchessa vorrebbe anche mettere il braccio attorno alla vita di Alice (che però riesce a evitarlo), e continua melliflua a dar ragione alla ragazzina con un atteggiamento che pare francamente seduttivo. Tanto più che, poco prima, se n’è anche uscita, moraleggiando, nella frase: “Oh, è l’amore, è l’amore che fa girare il mondo!” (ibidem). La critica ha visto nella Duchessa una donna di mezza età che cerca di flirtare con il “giovane uomo casto”: difficile non vedere un raccordo con la dominatrix delle poesie. Ma accostando al testo Carmilla (a sua volta profondamente influenzato da Christabel), è forte la tentazione di collegare alla Duchessa sia la vampiresca Contessa a lei più simile per età, sia la figlia che suscita a Laura sentimenti ambivalenti attraverso mormorii all’orecchio, abbracci e discorsi sull’amore. E quel mento conficcato nella spalla da una figura sovrastante richiama dappresso il “dolore acuto, come se due grossi aghi […] mi penetrassero nel petto” (C, 51).
Nell’incubo di Laura, in realtà, a morderla è una creatura “simile a un gatto mostruoso. […] Alla fine le tenebre erano tanto fitte che non riuscivo a vedere altro che i suoi occhi” (ibidem). La parentela tipologica tra questo gatto d’incubo che poco a poco sparisce lasciando vedere solo gli occhi, e quello del Cheshire che fluttua, appare e scompare pare significativa. Del resto nel secondo romanzo del dittico i due gattini di Alice si trasfigurano oniricamente nelle Regine Bianca e Nera: una metamorfosi perfettamente adeguata a quella dei vampiri di Le Fanu mutanti in gatti spettrali.
Ma in Carroll metamorfosi e trasfigurazioni non interessano soltanto le forme: anzi, vero motore della Wonder fatta terra è la parola, un linguaggio manipolato fino alle perturbazioni più paradossali. A cambiare forma non sono solo poesie comicamente alterate, perché il matematico Dodgson si diverte a giocare con la logica, con risultati che talora precorrono Ionesco; e dal cilindro sortiscono anche parole nuove, come nei funambolismi lessicali del componimento Jabberwocky. Con questo modello, non ci stupiamo se Le Fanu liberi nel mondo un vampirismo per anagramma, che dall’originaria contessa Mircalla Karnstein riesce a perpetuarsi attraverso progressive ricomposizioni del nome: Millarca, Carmilla…
Laura, risvegliandosi dai suoi sonni di languido orrore, ha “la sensazione di aver parlato con persone che non riuscivo a vedere” (C, 55): ma anche Alice, che a un certo punto del secondo romanzo sente una vocina e non riesce a vedere a chi appartenga, scoprirà che si tratta di una succhiasangue, la Zanzara.
Anche in Carroll emerge poi il tema della puntura con uscita di sangue, quando la Regina Bianca, spiegando la filosofia di quel mondo capovolto dello specchio che definisce “vivere all’indietro” (espressione suggestiva per una condizione esistenziale di non-morte), si punge con la spilla nell’appuntare lo scialle: “Serve da salasso, vedi […] Ora capisci come vanno le cose qui” (A2, 141) — una definizione a sua volta adeguata alla Stiria dei vampiri.
Se entrambi i romanzi di Carroll sono giocati sull’idea di capovolgimento, soprattutto il secondo è un fiorire di doppi: si pensi al rapporto tra Regina Bianca e Regina Nera, o a quello tra i gemelli Tuideldum e Tuideldì, “i due omettini grassi” (A2, 132) che a loro volta paiono replicarsi nell’uomo-uovo Humpty Dumpty. E d’altra parte è persino banale rammentare quanto ossessivamente il tema di doppi, raddoppiamenti e specularità torni in Le Fanu, non solo in Carmilla ma più in generale nella raccolta In a Glass Darklye anche altrove. Doppioni che non riguardano solo i rapporti all’interno del singolo testo, ma vedono l’Autore riproporre ossessivamente nel tempo come duplicazioni o anagrammi le stesse storie abilmente riscritte. Una duplicazione che a sua volta può rammentare quella intessuta da Carroll con l’attribuire al primo Alice un sequel dai medesimi elementi (mondo parallelo, riferimento a un gioco, eccetera).
Ma un’altra significativa dimensione di raccordo tra i due autori sta nel carattere grottesco dei personaggi. Caricature saturnine quali le stagionate governanti di Laura, certi medici, il figlio del restauratore, il gobbo degli amuleti o lo stesso barone Vordenburg si spiegano meglio individuandone una virtuale parentela genetica con i personaggi caricaturali descritti da Carroll sul filo tra bestiario e nursery rhymes. Il rito del tè che la famiglia di Laura conserva in terra straniera, e attorno al quale si intreccia una sghemba babele di lingue diverse, può per esempio trovare ideali consonanze con le bizzarrie di comunicazione del tè del Cappellaio Matto. Certo, il rapporto è di ispirazione e libera reinvenzione, e le associazioni funzionali sono limitate — ma significative. Si è citata quella tra Duchessa e vampire. Ma si pensi anche ai rapporti tra i (magri, per definizione) servitori-carte di Alice con i servi “magri, scarni, sciupati” della carrozza della Contessa (C, 31); o tra i giardinieri della Regina di Cuori, intenti a cambiare il colore delle rose, e il boscaiolo di Carmilla che “cambia colore” alla storia del luogo, offrendo un racconto un po’ distorto e sviante sull’antenato del barone Vordenburg.
D’altra parte Carmilla risulta intessuta di figure emblematiche, in qualche modo archetipiche, ricche di echi e suggestioni visive: e in parallelo con quanto ravvisato da Clive Leatherdale a proposito delle figure del Dracula, anche e a maggior ragione in Carmilla si potrebbe riconoscere una connessione iconografica con gli Arcani Maggiori dei Tarocchi. Non a caso la dignità iconica, simbolicamente ricca e ambigua, di tali bozzetti ideali (il Papa e la Papessa, l’Imperatore e l’Imperatrice, il Matto, gli Amanti…) echeggia le figure esemplari delle fiabe e di certo teatro: non può dunque stupire di vederli sfilare ancora, quali maschere od ombre, nel teatro nero del gotico, a maggior ragione in autori — come Stoker o lo stesso Le Fanu — recettori di potenti istanze mitiche persino al di là della loro consapevolezza. In Carmilla, dunque, come già proposto in altra sede, la processione di archetipi degli Arcani Maggiori sembra emergere con particolare nitidezza: ma la scelta di rifarsi alle “carte delle streghe” assume un valore assai più pregnante laddove si individui nel testo di Le Fanu una lettura in nero proprio dell’avventura di Alice tra le carte. Utilizzando dunque i Tarocchi come falsariga e criterio d’ordine simbolico, si può azzardare qualche considerazione.
Non occorre la carta del Matto per richiamare l’importanza del tema della follia — nella sua più ampia accezione — tra i narratori fantastici di età vittoriana. Certo Carroll, col suo Cappellaio, la Lepre marzolina e la vena delirante che corre in tutto il dittico ne reca un’epifania nel segno del gioco, scartando le implicazioni drammatiche da altri autori sottolineate. Quanto a Le Fanu, nel gobbo col cane del capitolo quarto pare restituire una puntuale raffigurazione proprio della figura del Tarocco; ma al contempo i mostriciattoli da quello assemblati “con parti di scimmie, pappagalli, scoiattoli, pesci e porcospini” (C, 41) possono rileggere in chiave macabra di ibridi e spoglie il bestiario (vivo) di Carroll. Anche Carmilla è comunque circonfusa di un sospetto di sragione, e il tema della follia attraversa tutta l’opera di Le Fanu.
Sembra uscito dalle mani del Cappellaio carrolliano lo strano copricapo a larga tesa che accomuna le figure funzionalmente non dissimili del Bagatto dei Tarocchi e del barone Vordenburg di Le Fanu. Quanto alle supreme autorità morali del mondo delle due protagoniste, cioè i genitori (Papa e Papessa, a seguire gli Arcani) in Carroll non compaiono affatto, e in Le Fanu sono presentati come un padre anziano e malinconico e una madre morta — cioè presenze non capaci di offrire a Laura un rapporto esistenzialmente sano e vitale. Nei fatti, entrambe le protagoniste fanno i conti con dimensioni di solitudine. Nel caso di Alice, si tratta di una condizione legata a un suo libero spazio di sogno (anche se il sospetto di un ammiccamento sottotesto a un’assenza del papà Liddell dall’orizzonte delle figlie può avere le sue ragioni). Nel caso di Laura, la solitudine sorge invece da una patologia dei rapporti generazionali. Certo la madre morta irrompe a un certo punto nel suo spazio interiore per salvarle la pelle, ma non la restituisce a una vita nel senso pieno.
I testi carrolliani giocati sulle immagini delle carte da gioco e degli scacchi vedono poi vari re e regine, in una galleria divertita e almeno potenzialmente critica dell’idea di autorità: qualcosa che ben si raccorda con il vissuto dell’Autore, restio a sottomettersi all’autoritarismo del padre come alle riforme del Decano Liddell. Se d’altra parte Le Fanu ha davvero in mente i Tarocchi, le figure corrispondenti a Imperatore e Imperatrice possono essere il generale Spielsdorf (omologo al padre di Laura ma più decisionista) e la Contessa madre di Carmilla, che duettano ai capitoli undicesimo e dodicesimo. Ad accompagnare l’autoritaria Contessa — vestita di velluto nero al capitolo secondo —, c’è anzi un gentiluomo in nero, forse corrispondente al Diavolo dei Tarocchi: ed è inevitabile raccordare idealmente le due figure a una Regina Nera e al suo Re, oppure a un alfiere di quel colore. Nell’ottica di una classificazione tipologica delle vampire della fiction, la “vampira regina” rappresenta uno stereotipo largamente utilizzato, e a questa categoria si ascrive senz’altro la Contessa. Ma ancora Tim Burton muove su questo terreno nel suo Alice in Wonderland, 2010. Certo il gotico che il regista inietta nella vicenda è frutto di una propria particolarissima poetica (i morti buoni contro le smanie deliranti dei vivi): comunque la Regina Bianca — d’un biancore luttuoso, dotata di vaga rigidità che ammicca al rigor mortis e impegnata in macabre alchimie con sostanze organiche — è una specie di non-morta sorella ideale della Sposa Cadavere e del Jack di The Nightmare Before Christmas.
Superando rapidamente le carte degli Amanti (in Le Fanu anzitutto Laura e Carmilla, in secondo piano Bertha e Millarca e l’antenato Vordenburg e Mircalla — mentre per Carroll ricordiamo la passeggiata di Alice con la Duchessa) e del Carro (in Le Fanu la carrozza delle vampire — mentre al capitolo terzo di Through the Looking-Glass c’è un treno), accostiamo per contiguità simbolica quelle della Giustizia e del Giudizio. Qui il parallelo Carroll/Le Fanu è nuovamente interessante. Quando il primo mette in bocca alla sua isterica regina di Cuori (e una volta alla Duchessa) il refrain “Tagliategli la testa”, sta trasfigurando nell’ironia l’impressione che una bambina può avere di fronte alle continue decapitazioni dei libri di storia britannica, ma i condannati si salvano tutti. Diverso è il caso della giovane vampira: “Voglio tagliarle la testa!” proclama il generale (C, 79) — e in effetti il titolo del capitolo quindicesimo parla di una esecuzione di Carmilla, sottolineandone il sapore giudiziario sancito da un “procedimento legale” (C, 87), per quanto molto particolare. Lì in pratica si chiude la storia; ma anche nel primo romanzo di Alice l’avventura in Wonderland termina con un processo dalle caratteristiche inusuali. La tentazione di vedere una (liberissima) rilettura in nero del dittico carrolliano da parte di Le Fanu è anche in questo caso forte. L’ira virtualmente sanguinaria della Regina di Cuori può richiamare del resto una certa iracondia di Carmilla, come nella manifestazione rabbiosa verso il gobbo: “Come osa quel saltimbanco insultarci in questo modo? […] Io pretendo delle scuse da lui. Mio padre l’avrebbe fatto legare e frustare e infine l’avrebbe ridotto a un tizzone ardente bollandolo a fuoco con il marchio del suo castello!” (C, 42). A richiamare nella vampira i caratteri (consueti del resto a un certo immaginario ottocentesco sul Femminile) dell’isteria e del sadismo.
Il Tarocco dell’Eremita può richiamare il “venerabile vecchio” che fa pregare Laura bambina dopo l’esperienza dello strano incubo (C, 21), e del resto tutta la vicenda è giocata sulla solitudine della narratrice, che richiama il deserto-luogo di tentazione e l’affinità di Carmilla coi demoni meridiani; mentre in Alice una sorta di eremita è il Bruco. Ma più interessante è la carta nota come la Ruota della Fortuna, già considerata adeguata al simbolismo del gotico in quanto immagine di equilibrio universale tra gli aspetti luminosi e oscuri della realtà: nello specifico di Le Fanu può richiamare il ciclo delle vampirizzazioni e, in generale, il duplicarsi e ripetersi delle stesse o simili situazioni. Ma quanto ciò possa trovare consonanza con i mondi paradossali descritti da Carroll, e anzi riproposti negli anni attraverso il meccanismo del sequel, è fin troppo evidente.
L’immagine sulla carta della Forza vede una figura femminile che tiene aperte le fauci di un leone. Carroll non attinge ai Tarocchi: ma se Alice, a più riprese, rivela con le mutate dimensioni una possanza assai superiore a quella delle creature all’intorno, l’unica prova di forza del dittico — la lotta per la corona nel secondo romanzo, che mette in burletta una diffusissima immagine araldica — vede uno scontro tra un Unicorno e appunto un Leone, che si conclude a fauci aperte su una torta. Un richiamo in Le Fanu al Tarocco in questione può essere più calzante laddove sottolinea, per bocca del barone Vordenburg, che “Un segno del vampiro è la forza delle mani” (C, 90) — in paradossale rapporto con la debolezza e il languore propri di Carmilla e delle sue vittime.
Se le carte dell’Appeso e della Morte possono richiamare alla condizione delle protagoniste in bilico e passaggio tra due mondi (ma assumono in Le Fanu più inquietanti e specifici significati nel contesto del mito vampirico), quella della Temperanza pare adatta ad accostare al divertito filo rosso carrolliano su ciò che Alice debba o non debba fare per educazione e regole sociali, il motivo assai più drammatico in Le Fanu di una temperanza socialmente imposta, e che finisce con l’evocare il vampiro. Egualmente bene la Torre cadente può evocare il senso delle parallele vertigini che connotano i testi e, più materialmente, il precipitare di Alice nell’Underground e di Laura nel suo incubo. Con accenti ovviamente diversi, il senso di spiazzamento evocato da Carroll con il suo paradigma-Alice — appunto un nuovo topos, a definire l’avventura di una ragazzina entro un mondo parallelo e la wonder seriale delle sue esperienze — e quello suggerito da Le Fanu, sembrano parallelamente provocare i lettori. In gioco è, in prima battuta, il destino sociale della donna vittoriana: ma la vertigine che da diversi punti d’osservazione Carroll e Le Fanu riescono a suscitare ci incalza ben oltre le barriere di sesso o di epoca.
Gli astri non hanno molto spazio nel dittico di Alice, e i Tarocchi della Stella, della Luna e del Sole possono trovare legami simbolici quasi esclusivamente con il contesto di Le Fanu. La prima di queste carte, che mostra una grande stella nel cielo, sembra richiamare efficacemente i fuochi d’artificio della festa al castello Carlsfeld (capitolo undicesimo); ma al contempo l’immagine sottostante di una fanciulla inginocchiata può richiamare quella veduta nell’incubo di Laura bambina presso il suo letto, e non manca un possibile sottotesto sessuale nelle due anfore — simbolismo noto nel tardo Ottocento — recate dalla figura (in riferimento alla coppia di amiche?). Un rilievo poi maggiore nella vicenda di Carmilla ha la Luna, sia quale elemento d’ambiente, malinconico e magico, sia in diretta relazione con la natura della vampira. Mentre il Sole della relativa carta appare alto, meridiano, e brilla su due bimbi (forse gemelli come Tuideldum e Tuideldì) — e in effetti è soltanto dopo il meriggio che Laura, prigioniera di una infanzia coattamente prolungata (negazione della sua autonomia e personalità sessuale, perenne presenza di istitutrici, ecc.) può incontrare il suo doppio Carmilla. Sembra d’altra parte non casuale che a un inizio “Nel meriggio tutto d’oro”, sereno con bambini (A1, 79) si contrapponga l’avvio della vicenda di Carmilla (dopo il preambolo infantile) in una sera malinconica con vecchi. Eppure in Carroll troviamo Sole e Luna citati in un contesto particolare, nel componimento recitato da Tuideldì: un testo in sé ironico, ma di sottofondo sottilmente amaro. Si tratta infatti della storia delle Ostrichette che finiscono mangiate dalla bizzarra coppia di Tricheco e Carpentiere: humor nero, insomma, che nell’ambito del dittico rappresenta sostanzialmente un unicum e offre in esso il più evidente ed esplicito riferimento al tema della morte. A fronte dell’immagine del vampiro che “affascinato, con crescente veemenza, simile all’amore, da particolari persone […] sembra anelare alla comprensione e al consenso” della vittima (C, 89), anche l’inganno dei due crapuloni, poi capaci di commuoversi per la sorte delle Ostrichette che hanno divorato, svela qualcosa di vampiresco.
L’ultima carta, il Mondo, con una figura femminile iscritta nella mandorla (/specchio?) e in postura risorgente, simbolizzerebbe il risultato definitivo di Conoscenza e Comprensione: un significato adeguato al tirare le fila conclusivo delle avventure delle due protagoniste. La sorella di Alice “cercò di immaginare come la sua sorellina, col passar degli anni, sarebbe diventata donna; e come avrebbe conservato, anche nella maturità, l’animo semplice e tenero dell’infanzia; e come avrebbe riunito attorno a sé altri bimbi, e avrebbe fatto brillare i loro occhi di desiderio, ascoltando il racconto di strane storie, e forse addirittura il sogno […]; e come avrebbe condiviso i loro piccoli dolori […], ricordando la sua infanzia” (A1, 79). Alice potrà insomma conservare la fantasia; e in effetti Laura l’ha fatto. Così, proprio ricordando l’infanzia, la udiamo dire a Carmilla: “Dodici anni fa, non so se in sogno o nella realtà, io vi ho senza dubbio visto. Non potrei mai dimenticare il vostro volto” (C, 33); e si sente rispondere, quasi in allusione ai piccoli dolori, che “L’amore deve sempre ottenere dei sacrifici. E non ci sono sacrifici senza sangue” (C, 50). Ormai donna adulta potrà ancora parlare a Hesselius di colei che “anche ora […] ritorna alla mia memoria con ambigua alternanza” di fascino e mostruosità (C, 91), in un bilancio esistenziale quantomai incerto.
La sensazione è insomma che l’Alice cresciuta, adolescente e poi donna, non risponderà tanto al ritratto della temeraria imprenditrice di Tim Burton sulle rotte di oppio e Vedove Gialle. Ma piuttosto dell’intelligente e inquieta interlocutrice del dottor Hesselius, attenta a cogliere con un brivido non scevro di rimpianto, oltre la soglia del salotto, il passo lieve e vampiresco di un’indimenticata Meraviglia.