di Mauro Baldrati

Qui è il vero senso dell’offesa nell’arte; non si può essere felici tra gli infelici; liberi, tra i non liberi; amanti di se stessi, tra chi si sfugge e si detesta. Diffondere la libertà non è una scelta né un piacere; è una necessità per vivere. Il nostro destino è di vivere aggressivamente col mondo.
Guido Piovene

baldra01.jpgRecentemente a un convegno sulla letteratura gialla ho assistito a una tavola rotonda dove, presente Alessandro Dal Lago, si alludeva all’opera di Roberto Saviano come risultato di una costruzione a tavolino ideata e gestita dall’editore Mondadori. Un relatore sosteneva questa tesi con dati, riscontri, affermazioni su una presunta montatura che ha fatto esplodere il caso Gomorra, con relativa impennata delle vendite. Forse era l’ambiente “caldo”, creato da una sorta di eccitazione reciproca dei relatori che — questa la mia sensazione di ascoltatore stupito e imbarazzato — lasciava scorrere vecchie tensioni e, temo, invidie, fatto sta che un autore che stimo, che potrei definire scrittore di inchiesta, ha colto la palla al balzo e ha iniziato a protestare per l’avvenuta conquista del mercato da parte dei “gialli”, che occupano tutti gli spazi delle librerie. E gli autori del giallo erano secondo lui Lucarelli, Camilleri e Carofiglio. Insomma, era tutto un caricarsi a vicenda, un andare su di giri nell’indignazione, Saviano creato dal mercato editoriale, così come i “gialli”.


Ora, la faccenda del giallo “padrone” del mercato è un’enunciazione che circola da tempo, spesso sulla bocca di chi non legge questi stili, per una sorta di reazione di difesa, oppure per un rigetto, una forma di snobismo, chissà. Nella metacategoria del “giallo” si tende a infilarci di tutto, mentre vi sono numerose fusioni, le antiche contaminazioni; vi sono autori classici come Manchette, che definì il noir come la migliore rappresentazione di una società nera, altri che cercano di usare alcune regole della fantascienza, così come imitatori, braccianti della trama e del colpo di scena, alchimisti dello stereotipo, esploratori dei bassifondi e dell’orrore, narratori storici, e molto altro.
Ma è senz’altro un dato reale che tutti questi testi, che per comodità da ora in poi definirò “gialli”, abbiano ormai raggiunto il primato delle vendite. Tutti noi vediamo le sagome di cartone in scala 1:1 davanti alle vetrine degli store con la pubblicità dell’ultima spy story o del thriller legale, o della nuova scoperta svedese o finlandese o, ultimamente, cinese. Enfasi, promesse di meraviglie e paura, paura a volontà, emozione, stupore, e poi sesso spinto, omicidi crudeli senza alcuna omissione di particolari, i sempregiovani serial killer, per non parlare dei vampiri glam con la faccia da fotomodelli di Calvin Klein. Il “giallo” è, pare, un investimento sicuro. Una merce che non invecchia.
Ma se è il mercato il responsabile, perché crea questi prodotti? Perché funzionano? E per chi?

baldra02.jpgUn requisito è senza dubbio rappresentato dal racconto: la sua cadenza, il suo divenire, che accoglie il lettore nel suo flusso e lo trascina, lo blandisce, lo scuote. Il lettore si lascia andare, viaggia nelle pieghe della vita, sua e degli altri, una vita immaginaria che assume i codici di quella reale, la osserva e la rivive senza le fatiche e i traumi cui è costretto a sottostare quando si muove col proprio corpo sulla terra. D’altro canto proprio il racconto, la trama, è l’archetipo del “giallo padrone” che alcuni scrittori definiti di neoavanguardia vogliono forzare, violentare fino a distruggerlo. Perché nella trama si nasconde il conformismo dell’espressione, il compiacimento dello status quo. Nondimeno anche qui si fa confusione. A un altro convegno cui ho partecipato, un professore universitario noto per essere stato uno degli animatori del Gruppo 63 ha detto che oggi sono attivi degli scrittori neofuturisti che vogliono sperimentare forme narrative che disintegrino la trama, e in questo sarebbero eredi di Marinetti, che era, ha detto, “l’anti Proust”. Confusione, dicevo, per il semplice fatto che Proust non ha trama, non ha intreccio. Proust è una trama ultra expanded di trame, è intreccio diabolico di intrecci, una macchina di produzione totale, proprio come Kafka, anche se i due hanno stili apparentemente opposti.
Eppure il racconto seduce il lettore, da sempre. E il giallo è uno specialista del racconto, anche se, in definitiva, la varietà di trame non è infinita, anzi, è piuttosto limitata. Lo ha affermato anche un addetto ai lavori, il giallista Marco Vichi, secondo il quale la trama è secondaria. Non è l’intreccio il vero nucleo di un buon romanzo giallo, ci vuole poco a elaborarne uno che funzioni.
Forse quindi non è la rassicurazione della trama solida il requisito principale del “giallo padrone” creato a tavolino dagli editori-manager esperti di marketing. Non solo.
Dunque, la lingua. Quella del giallo sarebbe super-pop, scontata, che soddisfa esigenze basse del lettore, già catturato dalla banalità della trama e dalla sua prevedibilità, che per godere di questa rassicurazione si sobbarca decine, centinaia di pagine-zavorra, dialoghi assurdi, come ne troviamo in alcuni best seller che hanno dominato gli scaffali per mesi, per anni.
Ma allora il lettore del “giallo padrone” è pigro?

Questa pigrizia, ovvero questa vulnerabilità verso la seduzione del marketing, ha un’origine? Possibile che la supremazia del “giallo padrone” sia dovuta a una prepotenza del genere di cui le masse dei lettori sono vittime consenzienti senza che venga individuato un motivo plausibile?
Il giallo prevede un atto criminoso, o un disegno. Può essere un complotto, un omicidio premeditato o causato da follia, e l’assassino o gli assassini sono noti o ignoti, oppure la loro identità viene svelata nel corso di un’indagine che, nella maggior parte dei casi, avrà un esito positivo, ma anche negativo, vale a dire il contrario del lieto fine, auspicato da alcuni. L’atto criminoso può essere individuale, ma anche collettivo, può coinvolgere una o più multinazionali, può riguardare uno stato e le sue istituzioni. Strage di Loriano Macchiavelli, recentemente ripubblicato dopo un ventennio di silenzio dovuto a un sequestro giudiziario, viaggia lungo la pista nera della strage del 2 agosto alla stazione di Bologna e ci fa conoscere i killer fascisti al soldo della mafia, con la complicità dei servizi segreti e dello Stato italiano.
Pertanto il giallo ha in sé un codice principale, in parte segreto, in parte palese: la violenza, e la sua rappresentazione. La sua trasfigurazione. La sua comprensione. E la violenza genera ansia, sempre, cosciente o inconscia. Oggi la società, non solo italiana, è violenta. Il potere, con la corruzione e la prevaricazione continuamente esibite negli atti e nelle apparizioni dei suoi leader in una televisione servile e faziosa, è violento. La precarietà del lavoro è violenta. Il degrado delle città è violento. Questa forma di aggressione è avvertita da tutti, anche dai lettori pigri, benché mille altri fattori — il primo dei quali è la paura — impediscano di prenderne coscienza. Perché prendere coscienza di un fenomeno negativo, capirlo razionalmente, isolarne le cause e gli effetti, significa risolverlo.
Il giallo coinvolge coi suoi codici il lettore nel suo processo creativo, perché si aggancia ai codici che il lettore si porta già dentro. E’ una teoria che il lettore cerchi libri che ha già letto, come lo spettatore insegua film che ha già visto. E’ una teoria verosimile. Perché i codici comuni permettono di sfogare il carico di ansia che una società nera, come la definiva Manchette, alimenta ogni giorno.

untitleduiyiyyi.jpgGli editori questo lo sanno, come lo sanno i manager delle televisioni che somministrano dosi industriali di violenza nei telegiornali, con stupri, massacri, incidenti stradali senza risparmiare particolari trucidi, proprio come i gialli commerciali. E’ una violenza brutta, inutile, una violenza hardcore, che accomuna i servizi di nera dei telegiornali ai gialli scontati, privi di ricerca nelle trame, nei personaggi e soprattutto nello stile. Non vi è alcuna produzione di immaginario, ma produzione di produzione, macchine sterili che producono macchine sterili.
Eppure è uno dei punti di forza della letteratura — di questa letteratura — raccontare la violenza in tutte le sue stratificazioni, con una storia credibile, personaggi verosimili che vivono nel tempo e nello spazio, con una lingua “minore”, che non è succube dello stereotipo e dell’imitazione. Il giallo può viaggiare nel mercato e, con la forza dei suoi codici condivisi con quelli dei suoi lettori, uscirne indenne con tutta la sua forza di denuncia. Può sfuggire — anche all’interno del meccanismo di semplice produzione di produzione — al processo di trasformazione in una falsa macchina d’espressione, una macchina sterile. In una collana popolare come Segretissimo possiamo trovare una storia ambientata in Cile durante il colpo di stato fascista, organizzato e finanziato dalla CIA, dove i lettori apprendono che le motivazioni non erano certo politiche, come la demagogia tramanda, ma il controllo dei giacimenti di uranio che l’America aveva perduto per le nazionalizzazioni di Allende.

Sta agli autori di “gialli” sfidare il mercato con opere che, senza rinnegare o temere la propria natura pop, sappiano raggiungere il cuore dei lettori e contribuire, con un lavoro continuo, sotterraneo quanto umile, a renderci coscienti della violenza che ci minaccia tutti. La lingua può osare, può sottrarsi alla gabbia omologata dei periodi spezzati con a capo continui, per puntare verso la scrittura selvaggia, violenta di un Henry Miller. O verso quello stile disseccato che Deleuze individuava in Kafka.
E il giallo non è eterno. I suoi detrattori che spesso non sanno di cosa parlano possono stare tranquilli. Se la violenza del potere e dei rapporti sociali diminuirà, diminuirà la forza e la durata del giallo. Per arrivare alla sua estinzione.
Fino a quel momento non possiamo che continuare a vivere aggressivamente col mondo.