di Dziga Cacace

Penso che non siete ancora pronti per questo…
ma ai vostri figli piacerà!
Michael J. Fox,
Ritorno al futuro

ddv1201.jpg148 – Un bicchiere di rabbia di un vero pagliaccio, Brasile 1998

Aah! Finalmente una bella porcata esotica che promette tanto, mantiene nulla e ti fa sbellicare dalle risa per il pastrocchio imbecille che ne viene fuori. Lanciato con clamore in Italia come un Ultimo tango in salsa brasileira, Un bicchiere di rabbia è così strutturato (si fa per dire): lui e lei si incontrano in una fattoria, sguardi conturbanti, frasi con voce rotta dal desiderio (grazie anche a doppiaggio pateticamente coinvolto) e poi vai di copula feroce. Le fantasie dell’atto sessuale sono messe in scena senza taccagneria e ovviamente corrispondono ai desideri dello spettatore maschio, tanto che Julia Lemmerz si fa felicemente eiaculare in faccia come in un porno gonzo. Dopo la tempesta, la quiete e un sonno ristoratore. I due animali (lui è un montone con tre possibilità espressive: orgasmo, rabbia, assenza nello sguardo; lei ha una faccia da stronza e il culo basso), i due animali — dicevo – si risvegliano, fanno colazione e iniziano a litigare, sostanzialmente perché lui è di destra e lei di sinistra, cioè lui è maschio bastardo, virile e onesto, lei è cerebrale, radical chic e ipocrita. Semplificando, ma la regia non intende diversamente, eh. La morale è che comunque lei ha torto e davanti a un bell’uccellone si tappa la bocca (immaginate come) e mette da parte ogni intellettualismo. Quindi: lite della malora e poi, di nuovo, scopate mugghianti. E via così, come ci lascia intendere la regia del, per me, carneade, Aluízio Abranches.


Vabbeh: se fosse scritto bene, girato decentemente e i due sapessero recitare avrebbe un senso, invece – e qui viene l’impossibilità a giudicare serenamente – le liti sono in versi. Giuro! All’inizio credi che declamino per scherzo, poi dopo tre minuti ti rendi conto che si andrà avanti a ‘sta maniera. La fonte è un testo di enorme successo in Brasile (mi rifiuto di cercarvi gli estremi) ed è talmente carico che sembra la parodia sotto LSD di un dramma elisabettiano. La stessa recitazione deve evidentemente risentire di questa scelta perché se gli attori sono cani in partenza, qui devono anche diventare retorici nei movimenti, nelle espressioni e nel porgere la battuta. Insomma, non capisci dove cacchio sei capitato, una follia. Ma mi ribello: se vedo un film non devo sapere nient’altro che quello che ricavo dalla visione e questo film è noioso e presuntuoso e più che Un bicchiere di rabbia è una indigesta vera e propria tazzata di merda. (Vhs da Tele+; 24/5/01)

149 – Mondo grua di Pablo Trapero, Argentina 1999

Mondo grua è un bel film, asciutto, toccante e crudo, senza alcun artificio retorico né tirata politica. Rulo è sulla cinquantina, ha un figlio scioperato e una madre da mantenere. Trova lavoro come gruista e dopo un difficoltoso apprendistato (soffre di vertigini) non viene assunto perché il suo rapporto medico parla di Sindrome di Pickwick. Cioè si addormenta all’improvviso. Ma il motivo è che il figlio rockettaro torna a casa tardi e sveglia il padre. Però Rulo questo figlio un po’ lo capisce, infatti anche lui è stato un musicista, un bassista per la precisione. I sogni musicali sono svaniti dopo la bohème giovanile e oggi rimane solo un malinconico ricordo, condiviso con amici e vecchi fan. Rulo decide di cercare lavoro in Patagonia: abbandona il nascente amore con Adriana e va via da Buenos Aires. Ma a 2000 chilometri di distanza dagli affetti, in una terra inospitale, appesi alle bizze di padroni che fanno il bello e il cattivo tempo, la vita è ancora più difficile e a Rulo non rimane che iniziare di nuovo, con rassegnazione e dignità. Mondo grua dura 80 minuti e riesce a condensare felicemente temi come la famiglia, gli affetti e l’amicizia, la dignità personale e il problema del lavoro. Lo fa senza nessun impeto rivendicativo, ma con sottile humour e tenerezza per i propri personaggi. Bello: avevano ragione gli amici come Pier Paolo che lo consigliavano. Pablo Trapero non ha neanche trent’anni e ha studiato con una borsa di studio alla FUC, Fondazione Universitaria del Cinema di Buenos Aires. Adesso da noi tutti gongolano perché Moretti ha vinto la Palma d’oro a Cannes e Le fate ignoranti sta andando bene. Come al solito si prendono quella decina di titoli per dire che il nostro cinema è rinato, va bene, è vendibile, fino al prossimo grido di dolore quando al botteghino mancheranno i film di Aldo, Giovanni e Giacomo, Benigni e Pieraccioni e si faranno due conti. Scommettiamo? (Vhs da Tele+; 25/5/01)

ddv1202.jpg150 – The Center of the World di uno che ci ha tutti presi per il culo, USA 2000

I primi film di Wayne Wang (Mangia una tazza di tè e Il circolo della fortuna e della felicità) non mi erano sembrati ‘sta gran cosa; Smoke era una furbatina esile che, vai a sapere perché, i critici hanno deciso che fosse clamorosa. Poi, sulla scorta del successo di Smoke, è uscito Blue in the Face, autentica stronzata su pellicola, piaciuta però a un sacco di fresconi. E dopo Chinese Box (abbastanza ignorato) e La mia adorabile nemica (assolutamente ignorato) adesso tocca a questo The Center of the World, film con fama pruriginosa che all’ultimo festival di Cannes non se l’è filato nessuno. Ovviamente la critica che straparlava di Wang e di Auster (regista di quel Lulu on the Bridge schifato da tutti), adesso tace e fa finta di nulla, come se non lo avessero creato loro questo mostro. Sí, va bene, ma perché allora sono andato a vederlo? Avevo voglia di andare al cinema di pomeriggio, avevo voglia di vedere Pier Paolo e non avevamo film liberi in comune a parte questo. E poi è il classico film per un sabato pomeriggio indolente, da adolescenti in cerca di proibito. Ci vediamo all’Odeon e per fortuna non c’è troppo pubblico (salvo una signora che parlerà impunemente al cellulare durante il secondo tempo: bestiale!). Di proibito nel film, in ogni caso, c’è molto poco. Ah sí: un chupa chups al sapore di vagina con anatomica dimostrazione (scommetto con controfigura prezzolata). Il film non è atroce, intendiamoci, è solo inutile. Lo vedi e poi? Embeh? Che cazzo volevi dirmi? Il protagonista maschile è un nerd che guadagna palate di miliardi con la Rete, lei è una batterista che per vivere si spoglia. Siccome lui passa le giornate al computer e non ha contatti fisici con una donna da tempo immemorabile, le propone una cifra colossale per portarsela a Las Vegas tre giorni. Lei pone le condizioni: niente penetrazioni, baci sulla lingua e disponibilità esclusivamente tra le dieci di sera e le due di notte (e vorrei vedere per fare cosa, l’uncinetto?). Com’è logico nasceranno problemi: lei vorrebbe starci ma verrebbe meno al patto che ha stabilito; lui vorrebbe qualcosa di più che una semplice masturbazione. Lei cede, trombano, lei non orgasma, lui s’incazza e la possiede da tergo con discreta violenza, lei di nuovo non prova il benché minimo brivido e allora lo umilia masturbandosi eccetera eccetera. Finale: si incontrano di nuovo nel locale dove lei si spoglia e il gioco del gatto col topo può ricominciare. Ma vai a cagare, va’. Fotografato scegliendo diversi formati dall’elettronica più grezza sino alla pellicola più pastosa, The Center of the World vive di queste scelte estetiche e del bellissimo volto della protagonista, Molly Parker. Qualche bella musica, la visione di quella folle città che è Las Vegas e nient’altro. Wang aveva poco da dire con Smoke, gli avete dato retta e adesso continua a parlare a vanvera. Ben ci sta. E poi il centro del mondo non è la patata, è Frosinone. (Cinema Odeon, Milano; 26/5/01)

151 – La mummia – Il ritorno dell’infantile Stephen Sommers, USA 2001

Max viene a cena da me e non pone alternative: andiamo al cinema, magari a vedere una stronzata. Siccome Pearl Harbor non è ancora nelle sale, quale altro blockbuster è possibile sciropparsi su grande schermo? Chiamiamo Melzo e scopriamo che c’è un ultimo spettacolo all’una di notte. È quello che vuole Max. Prende il telefono e chiama Riccardo che viene colto di sorpresa. Prima rifiuta, poi al titolo La mummia va in crash, balbetta che ci pensa un attimo, che ne parla con sua moglie, che ci richiama. Due minuti d’orologio e ci diamo appuntamento sotto casa sua per mezzanotte: Max conosce il suo pollo, è bastato il titolo giusto. Il bello di Riccardo è essere profondissimo ed eticamente inappuntabile e al contempo viscerale e infantile senza che le due cose si contraddicano. Adora Stalker e Guerre stellari contemporaneamente e non è una battuta. A mezzanotte siamo da lui e si parte alla volta di Melzo al suono degli Iron Maiden, cosa che impreziosisce la gita perché Riccardo canta a memoria tutto The Number of the Beast imitando i vocalizzi sopranili di Bruce Dickinson, mentre affronta la paullese a 150 orari, con la Ka che vibra come un Girmi. Entriamo giusto in tempo per la proiezione (come sempre, qualunque sia l’ora, per andare a Melzo c’è qualche cazzo di coda). Allora: di questa Mummia non ho visto né l’antenato nobile di Freund né il grande successo di due anni fa. Ed è un po’ un peccato perché questo sequel non vive con grande autonomia: dovresti sapere dell’antefatto e conoscere i personaggi. Prevale la logica seriale secondo cui torna al cinema chi ha visto il primo episodio e mi capita di rimanere frastornato da un film per bambini. Nel senso che della trama capisco poco o nulla e di tutti questi mummioni che ritornano in vita per combattersi non afferro una mazza. Il film dura due ore piene in cui vediamo grandi effetti digitali (neanche clamorosi, osserva quel pignolo di Max) e tante scene di combattimenti montate con frenesia al limite dell’incomprensibilità di chi mena chi e come. Legano il tutto i personaggi principali, cioè il tombarolo Rick, l’egittologa Evelyn, assieme al figlio e allo zio Jonathan. Sostanzialmente La mummia – Il ritorno è un Indiana Jones bambinesco, meno ironico e intelligente dell’illustre modello e che, se vogliamo considerarlo un pregio, aumenta il ritmo delle trovate e delle scazzottature. Richiede un abbandono della ragione e una regressione infantile e ti regala qualche scena divertente (un combattimento tra le mummie e i nostri eroi su un autobus per le vie di Londra, per esempio). Evidentemente funziona, bah. Mi sono un po’ annoiato e verso le tre meno dieci ho schiacciato un pisolino. Risvegliandomi era accaduto di tutto e sostanzialmente non era cambiato nulla, per cui, fate voi. Tutti abbastanza scocciati, siamo tornati a dormire, sentendoci super giovani un po’ fessi. Settimana prossima questi due pazzi andranno a vedersi Pearl Harbor. Ma senza di me. (Cinema Arcadia, Melzo; 27/5/01)

ddv1203.jpg152 – Dillinger è morto di un genio, Italia 1969

Temevo Dillinger è morto e, ta-dah, l’ho trovato splendido e cristallino. Tanto per cominciare lode a un regista che ha il coraggio e la capacità di mettere in scena un racconto con pochissimo dialogo, quasi niente. Poi inchini profondi per la direzione degli attori e il controllo delle immagini. Dillinger è morto è formalmente semplicissimo, ma prezioso proprio per come fa della sua povertà una ricchezza, gestendo una fotografia calda e piena in ambienti angusti. Michel Piccoli è un designer industriale (sta progettando delle maschere antigas). La sera torna a casa e trova la moglie (la stragnocca Pallenberg) stravolta a letto. Va a mangiare e le pietanze sono fredde. Allora si mette d’impegno e si cucina da solo qualcosa. Cercando gli ingredienti in un ripostiglio trova una vecchia pistola avvolta dentro un giornale che annuncia la morte del gangster Dillinger. Con pazienza Piccoli cucina, smonta la pistola, la rimette a nuovo, la dipinge di rosso a pallini bianchi, si guarda un po’ di Super8, flirta con la cameriera. Si vive una nottata tutta per sé, gironzolando per casa, occupandosi il tempo. Poi spara alla moglie e all’alba si allontana. Va al mare e s’imbarca su un veliero diretto verso i mari del sud, mentre il cielo e l’enorme sol dell’avvenire si fanno rosso fuoco. Il prologo, la parte più parlata, dice già tutto: il Capitale ha organizzato anche il tempo libero dell’uomo occidentale, ha istituzionalizzato la noia della vita borghese, l’ha resa produttiva (in termini di mercato, s’intende). E Piccoli passa la serata a fare cose deliziosamente improduttive, inutili. Si prepara una lauta cena che non può consumare. Si dedica con pazienza certosina al restauro di un revolver per poi dipingerlo come un’opera pop. Riguarda vecchi filmini per abbracciare i ricordi di una vita che non lo soddisfa più e che lo fa sentire come un toro in una corrida. Seduce la cameriera, ma senza impegno e, dopo aver terminato l’esistenza vegetale della moglie, un tuffo mattutino gli dà l’insperata occasione di fuga. Riflessione metaforica sull’uomo occidentale, Dillinger è morto è bello e intenso e litigherò con Pier Paolo che l’ha sempre odiato. Ultima cose e poi vado a nanna: spengo il videoregistratore sui titoli di coda in campo rosso e gli exit poll danno vincente la sinistra in tutte le grandi città in cui s’è votato oggi. O centrosinistra. O quello che è, insomma. (Vhs originale; 27/5/01)

153 – Serie 7 – The Contenders di un facilone, USA 2000

Sei lì che ti fai i fattacci tuoi e all’improvviso ti chiama un network televisivo nazionale: sei stato preso. Ti consegnano una pistola e ora sono cacchi tuoi. Farai parte di una reciproca caccia all’uomo e solo chi sopravvive vince il premio finale. Gli eroi loro malgrado sono scelti casualmente ma (strizzata d’occhio alle false casualità televisive) fortuna vuole che alcuni si conoscano e offrano un briciolo di suspense in più al già drammatico svolgimento dell’azione. Contenders (dal grande Robert Sheckley, che non meritava però siffatta rilettura) beffeggia la televisione che prende le mosse dal Grande Fratello, la televisione che mette in scena una realtà prodotta da lei stessa e per cui affatto reale. Il film è costruito in quattro blocchi televisivi (la distribuzione italiana ha messo l’intervallo in mezzo a un blocco: ma si può essere più imbecilli?) con sigle, lanci e commenti assolutamente fedeli agli standard produttivi degli speciali della Fox. Gli attori sono cani come i figuranti prezzolati che appaiono nei programmi tivù, la retorica narrativa oscilla tra parodia e imitazione, la vicenda è condensata come mai ci capiterà di vedere sul piccolo schermo. È interessante? Si fa vedere, ma non ha grandi idee e non si sbilancia. In questo senso Blair Witch Project era molto più coerente (parliamo sempre per assurdo, eh). Per amor di precisione avrei voluto qualche crawl di servizio (i sottopancia, per voi non addetti), le pubblicità vere (o finte ma che sembrassero vere) e magari un meteo. È ovvio che voglio un po’ fare il monello e lamentarmi, perché non è l’imitazione perfetta che avrebbe dato senso a questo film, ma una buona scrittura, che manca. E poi: la televisione è merda, ma che si permetta di dirlo un cineasta americano (Daniel Minahan) che fa un film così è una contraddizione in termini. Vive nel sistema capitalistico occidentale, brucia benzina, indossa scarpe in cuoio e avrà da parte più di un gioiello, sicuro. Tutte cose che hanno accorciato la vita di qualche cittadino del terzo mondo, gli piaccia o no. (Sala; 30/5/01)

155 – Colpo di mano a Creta di Michael Powell e Emeric Pressburger, Gran Bretagna 1956

Venerdì sera: sono stanco, grollo e mezzo ubriaco. Anche se ormai sembro un porcellino, insisto a evaporarmi una birretta ogni sera e l’occhio vacilla non appena il film si fa palloso. Non mi fa onore, ma ho provato a vedere Vaghe stelle dell’orsa di Visconti e dopo 35 minuti di film ho gettato la spugna. Bellissima fotografia, imbronciata la Cardinale, ma di nessuna presa il dramma borghese della protagonista, eccitante come un cocktail di oppiacei. Cambio! Infilo nel videoregistratore Piccoli omicidi di Kira Muratova: ha la patente di Fuori Orario ma qui di minuti me ne bastano 7 e dopo le classiche inquadrature fisse, i dialoghi fuori campo e i particolari fotografici pregnanti, capisco che la televisione m’ha offeso il lobo parietale e certo cinema non lo tollero più. A questo punto si son fatte le dieci di sera e qualche cosa lo voglio vedere, e che cazzo: Barbara è a un convegno a Taormina e posso e devo approfittare per scoppiarmi qualcosa che lei non tollererebbe mai. La scelta cade su Powell e Pressburger: Colpo di mano a Creta è sicuramente godereccio. Non è il migliore film della coppia, ma intrattiene con gusto e intelligenza. Dirk Bogarde è un ufficiale inglese che, nella Creta occupata dai nazisti, riesce a rapire il generale del distaccamento nazista locale. Braccato con la preda dai tedeschi, aiutato dai partigiani greci, l’impresa riesce. È un film bellico avventuroso, dove sono tutti molto signorili e cavallereschi. I greci sono simpatici bifolchi, secondo il latente razzismo britannico e non c’è nessun accenno alla vera guerra che si combatté da quelle parti né alcun rimorso a mostrare i valorosi partigiani greci che poi le forze alleate si premurarono di massacrare a guerra finita perché pericolosamente comunisti. Ma non cercavo queste cose e ho avuto soddisfazione. (Vhs da RaiUno; 1/6/01)

ddv1204.jpg156 – Mifune – Dogma 3 di Søren Kragh-Jakobsen, Danimarca/Svezia 1999

Sempre solo e alla ricerca di un buon film. Ho cominciato in mattinata concedendo un’occasione a Einstein Junior, film australiano di cui avevo letto bene. Il comico Yahoo Serious interpreta un giovane Einstein originario dell’Australia, dove in gioventù ha inventato il rock’n’roll e le bollicine della birra. Comicità infantile che può avere successo solo in un paese dove si gioca a rugby in un campo ovale e prendendo a pugni il pallone. Alla prima interruzione pubblicitaria mollo il colpo. Dopo pranzo ci riprovo con Il pianeta selvaggio, severo film d’animazione degli anni Settanta basato su disegni e sceneggiatura di Topor. Inventivo, fuori di testa, mortalmente noioso. Anche qui cedo dopo un quarto d’ora con le palle già gonfie come due Zeppelin: chi me lo fa fare? E adesso la serata: vado sul sicuro e addento un danese certificato Dogma. E trovo il godimento. Oddio, niente di radicale come Idioti o Festen. Però piacevole. Di dogmatico c’è la confezione, ma con alcune varianti: il film è girato in formato televisivo ma sembra in pellicola. La luce è naturale e (a parte qualche trasgressione quando si cita Toshiro Mifune e si sente l’eco di musica giapponese) la musica è sempre diegetica. Il montaggio e gli ondeggiamenti della cinepresa non sono programmaticamente “sbagliati” e la storia è molto ordinaria, un drammone a lieta fine di quelli che dalla Scandinavia arrivano a pacchi. Insomma, il veterano Kragh-Jakobsen ha interpretato il Dogma a modo suo, prendendo ciò che gli piaceva e/o trasgredendo ed è molto Dogma che abbia ricevuto l’ennesima certificazione. Approvo in pieno e apprezzo soprattutto la luce naturale che conferisce contrasti forti e pienezza cromatica. La storia? Liva, una prostituta con fratello problematico a carico va a lavorare in campagna da Kresten, un fresco sposo che è pure fresco orfano di padre e anche lui ha il fratello da piazzare. Solo che questo è ritardato e ha una fifa blu se sente arrivare il mitico Mifune. Come appare chiaro fin da subito Kresten e Liva s’innamoreranno con qualche incidente di percorso tipicamente nordico (rimando alla mia teorizzazione della “mazzata svedese”) ma con finale soddisfazione. Senza troppe sorprese, un film carino, pulito, simpatico; e i protagonisti hanno belle facce. (Vhs da Tele+; 2/6/01

157 – Apocalisse sul deserto di Werner Herzog, Francia/Germania/Spagna 1992

Beh: semplicemente stupendo. Herzog va nel Kuwait e nell’Iraq meridionale e filma la desolazione lasciata dalla guerra alleata e dai soldati di Saddam in fuga. Non c’è alcuna analisi politica, solo impietosa ed elegiaca rappresentazione della situazione. I pozzi in fiamme, la natura violentata, le camere di tortura, il lavoro faticoso per interrompere lo scempio. È l’uomo il colpevole, non un iracheno o un occidentale. Certo, quando intervista gli occupati o visita le camere di tortura la follia di Saddam pare evidente, ma Herzog mi sembra troppo intelligente per credere alla colpa di uno dei due contendenti e all’innocenza dell’altro. Fotografa la devastazione, il dolore, l’assurdità e lo fa benissimo, con immagini di straordinaria purezza, sottolineate da musica classica. Sembra quasi un Koyanisqaattsi di guerra, con i rallenti, le planate, i teleobbiettivi. Bellissimo e doloroso. (Vhs da Tele+; 3/6/01)

ddv1205.jpg158 – Sadismo di Donald Cammell e Nicolas Roeg, Gran Bretagna 1970

Chas (James Fox) è un gangster dandy in una Londra Blow Up. Ricatti, taglieggiamenti, scazzottate e la tendenza a far di testa propria, senza ascoltare il boss. Finisce che deve fuggire dal suo datore di lavoro: trova ospitalità da una rockstar in crisi (Mick Jagger) che si trastulla con due donne (Anita Pallenberg e Michèle Breton). Le identità si fondono tra fumo, alcol e acidi e va a finire malino. Beh, grandissimo film, altro che le odierne belinate di Guy Ritchie. Donald Cammell e Nicholas Roeg, trent’anni fa, sovvertono regole narrative, grammaticali e di elementare buon gusto e costruiscono una vicenda banale come trama, potentissima come trattazione. Sadismo (inspiegabile traduzione di Performance) è un film – in ordine sparso – coloratissimo, montato in maniera inusuale, ricco d’invenzioni, spiazzante, folle, beat, pop, rock, blues, violento, sadico, drogato, psichedelico, deformato, grandangolato, panoramico, sarcastico, cinico, corrosivo e soprattutto inaspettato. La parte centrale è un po’ stanca, poi si riprende quota. Jagger aveva un faccione e non è che reciti molto bene, ma la parte è indubbiamente la sua. Musica notevolissima di Jack Nitzsche con Lowell George, Ry Cooder, Randy Newman e altri grandi assortiti. Pensavo di cancellare Sadismo dopo la visione e invece m’è piaciuto e non lo sacrifico: lo terrò perché è film da avere per colpire la ragazzina da sedurre, eh eh. Scheeerzo. (Vhs da Tele+; 3/6/01)

159 – Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, Italia/Francia/Germania 2001

Per il week end siamo sul Lago Maggiore, da vera coppietta gggiovane. Fa un freddo dell’accidente e io, come al solito, ho sbagliato in pieno i bagagli, portandomi soltanto una Lacoste e un paio di calzoni. E basta. In più sono nervoso perché sul lavoro mi sono dovuto accapigliare con un pulcinella cialtrone, ma son qui per parlare di cinema, va’. Piove che Dio la manda: da queste parti sta passando il Giro d’Italia e ci sorbiamo in tutti i Tg le domande dei cronisti che chiedono al pubblico di doping e di condizioni meteorologiche. Bestiale. Barbara si scopre veggente e anche lei azzarda delle previsioni immancabilmente fallaci. In ogni caso mi convince a passare la notte tra questi monti nebbiosi e freddissimi. Però, in serata, ci concediamo un cinema, al Sociale di Intra dove quattro anni fa abbiamo visto Potere assoluto. Siccome è sabato la sala è piena, indifferentemente dal titolo proposto. E pochi minuti dopo che la proiezione è cominciata, la gente del luogo, ad alto reddito e basso quoziente intellettivo, comincia a parlare. Chissà: magari pensano che parlando col vicino la visione si semplifichi. Boh. Comunque assistiamo a una lezione di cinema: Il mestiere delle armi è bellissimo. Come sarà venuto in mente a Olmi di dedicare un film a Giovanni delle Bande Nere? La storia del capitano di ventura pontificio dà l’occasione per riflettere sulla guerra, sull’arte del combattimento, su chi vive di guerra, su chi la guerra non la fa ma ne subisce il passaggio, sull’onore cavalleresco, sull’elemento umano e su quello tecnologico. E infine sulla fede e sul desiderio. Un film austero e ricco allo stesso tempo, impreziosito da una fotografia da urlo e da alcune scelte registiche inaspettate (di questi tempi) e azzeccatissime: su un impianto narrativo classico Olmi innesta inserti documentari, commenti dei protagonisti che guardano fisso in camera, dialoghi in italiano volgare. Proprio bello. Dopo il film pessima pizza e ritorno a casa attraversando il bosco avvolto nella nebbia. Procedo pianissimo perché non si vede una beneamata minchia e Barbara, forse credendo di essere in un horror, precisa: “Qualunque cosa accada, non fermarti”. Giuro. (Sala; 9/6/01)

(Continua – 12)