di Marilù Oliva
Simone Caltabellota fa parte del comitato editoriale della Elliot, ma ha lavorato prima come editor poi come direttore editoriale della Fazi. È fondatore della Lain, creatore della label musicale Sleeping Star. Quest’anno è uscito per Bompiani “Il giardino elettrico”, suo romanzo d’esordio che presenta tutte le qualità di un lavoro successivo. Perché Caltabellota ha tessuto una storia dove i protagonisti vengono eternati in un tempo antico e rarefatto, attraverso una trama che si intreccia con l’impalpabilità di ricordi e di passaggi dimensionali, riportati con la nitidezza non spiegabile della sensazione. Ragazzi e trentenni, fantasmi e innamorati si muovono in una Roma magica e misteriosa, immobile, palcoscenico onirico delle loro vite, dei loro amori, dei loro suicidi. Il luogo è in realtà un non luogo suggestivo, quello deputato a epicentro in cui si toccano esistenze spirituali e fisiche, energie sottili, dove la sfera tangibile si interseca a quella dell’impossibile: lì è, appunto, il giardino elettrico.
Come sei giunto a riprodurre, tecnicamente parlando, le atmosfere elettriche del tuo romanzo?
In realtà mi è bastato seguire il flusso della storia come si veniva sciogliendo per ogni personaggio. Quando ho scritto la prima pagina di quello che sarebbe diventato “Il giardino elettrico”, avevo in mente un racconto per così dire di formazione, volevo seguire le vicende di alcuni giovani uomini e donne a Roma alle prese con un passaggio importante per la loro vita a venire. Poi, improvvisamente, sono entrati in scena i fantasmi e la storia che stavo raccontando si è trasformata in altro. Chiaramente anche lo stile e il ritmo sono andati di pari passo con questo sovrapporsi di piani dell’esistenza.
In questo romanzo ci sono diversi leit-motiv. Come il ricordo e il tempo. La linea sfuggente di demarcazione tra passato e presente e l’ubicazione in una città perpetua hanno prodotto l’effetto di eternare le atmosfere. È stata consapevole questa scelta?
Sì. L’idea di un Tempo non solo lineare è qualcosa in cui credo assolutamente. Del resto la saggistica scientifica più recente ne ha fatto ormai un serio argomento di discussione e studiosi e filosofi come Ioan Petru Culianu già oltre venti anni fa hanno iniziato a presentare l’ipotesi che la Storia come la conosciamo sia semplicemente una convenzione, perché in realtà noi la cambiamo ogni volta che la ricostruiamo in modo differente, scegliendo di sottolineare alcuni eventi o passaggi piuttosto che altri.
Così mi sono immaginato che alcuni dei personaggi di questo racconto si trovassero a confrontarsi “realmente” con il loro sé di un altro tempo.
In che rapporti sei tu coi tuoi ricordi? Il più bel ricordo e il meno bello
I miei ricordi sono forti, li vivo come una parte di me in continuo mutamento. A distanza di anni un ricordo può affiorare improvvisamente modificando la percezione stessa che si ha di sé. A volte può essere una parola, un odore, una situazione. Quando accade si apre un altro mondo, dimenticato, oppure nuovo, misterioso.
Il ricordo più bello non è uno solo, sono tanti, tutti risalenti tra infanzia e prima adolescenza. E’ lo stesso per quelli meno belli.
Un altro leit-motiv è l’amore. Perché, nonostante sia stato trattato e ritrattato, l’amore rimane una delle materie letterarie per eccellenza?
Perché riguarda la vita di ognuno di noi, indistintamente. È alla base di ogni nostra narrazione interiore. La frase d’apertura di Eureka Street, di Robert McLiam Wilson, uno scrittore che mi piace molto, dice: “Tutte le storie sono storie d’amore”. E’ vero.
Arrivi da più di quindici anni nel campo dell’editoria: quali cambiamenti hai riscontrato?
Questa domanda necessiterebbe di una risposta troppo lunga. Quello che posso accennare qui è che tutto, rispetto a meno di venti anni fa, va molto più veloce: il tempo di permanenza di un libro in libreria, quello che si concede a uno scrittore per arrivare ad ottenere un proprio pubblico, il lavoro editoriale che coinvolge editore, editor e autore. Questo non può essere certo un bene.
Molti si lamentano che vengano pubblicati testi di bassissimo spessore. Cosa ne pensi del rapporto qualità di un libro/richiesta di mercato?
Sempre più spesso mi domando se in realtà si debba attribuire una responsabilità del genere al mercato piuttosto che allargare il discorso a un sistema culturale di cui il mercato rappresenta semplicemente un terminale. Il problema non è solo che probabilmente troppi libri mediocri o decisamente brutti arrivino in libreria, quanto la responsabilità di chi dovrebbe contribuire a formare un gusto: giornali, critica letteraria, premi, editori. Anche in questo caso però il discorso richiederebbe un approfondimento che qui non è possibile.
Lo scrittore ha dei doveri verso qualcuno/qualcosa?
Credo proprio di sì. Verso se stesso innanzitutto, verso ciò per cui scrive, quello che l’ha spinto fin da ragazzino a fermarsi e mettere su un foglio pezzi di sé. Non ho mai creduto a una distinzione netta tra generi alti e meno nobili, tra scritture di ricerca e scritture borghesi: la scrittura per me deve essere al servizio della propria personale visione.
Una citazione da “Il giardino elettrico”
“Come un velo sul cuore ogni apparenza viene soffiata via e, per un istante, ognuno resta svelato a se stesso”. Questo, almeno per me, è il senso di ciò che scrivo: lo svelarsi di un destino nella storia che si è scelto di raccontare.