di Alberto Prunetti
[Ritengo che In Patagonia di Chatwin esprima un punto di vista che può essere considerato gringo o coloniale. Racconto qui un frammento di una storia che Chatwin ha liquidato con sufficienza. In coda, un aneddoto che oppone la Patagonia gringa a quella rebelde, “criolla” e libertaria] A.P.
Nel far south argentino due italiani battono le sterminate lande della Patagonia. Sono il terrore di militari e latifondisti. Hanno cavalli criolli dal garretto saldo, staffe di cuoio e sottosella in lana di pecora. Il baio di “el Toscano” scarta innervosito e si stringe contro il fianco del quadrupede di “el 68”. “El Toscano” è uomo dai mille nomi: Alfredo Willrey, o Godofredo Fontes, o José Villar, o Max Miligan, o Juan Trini, o Hilario Rolis. Si è anche fatto chiamare José Ventura, Antonio Mora e José Rosendo. Il vero nome di questo toscano della Patagonia è Alfredo Fonte, ma per i latifondisti che ha sequestrato e per i peones con cui ha diviso l’asado di carne al tramonto, lui è soltanto “el Toscano”. Il suo compagno d’avventura è un piemontese, José Aicardi, chiamato “el 68” dal numero della cella che occupava nel terribile carcere d’Ushuaia, un inferno ghiacciato alla fine del mondo.
Due cavalieri consumati, abili col coltello e con le bolas, questi gauchos italiani degli antipodi.
La loro storia comincia e finisce nel nulla, ma qualche traccia del loro passaggio è rimasta attorno alle montagne del Lago argentino, nel 1920. Sappiamo che “el Toscano” (nella foto) aveva trentatré anni. Nelle fattorie australi aveva conosciuto immigrati provenienti dagli angoli più remoti del pianeta. Gente come “el paisano” Díaz e “il gaucho” Cuello, che aveva scontato cinque anni di carcere per una storia di lame; bravi come il cileno Cardénas, pratico e dal sangue freddo; come l’anarchico tedesco Franz Lorentz; come il libertario francese Villard Peyre. Completano il gruppo il nordamericano Charles Middleton, dai denti d’oro; l’anarchico russo Juan Vlasko; un negro portoghese noto come Cantrill e lo spagnolo José Graña.
Sono questi gli uomini che si daranno da fare, con logica da bandoleros, per opporre alla violenza dei grandi proprietari i loro schioppi e la velocità delle loro cavalcature.
Siamo nel novembre 1920. Lo sciopero dei proletari patagonici è nel pieno del suo svolgimento: gli operai non lavorano, i vaqueros non si occupano del bestiame, i cuochi disertano le cucine. Il lavoro è fermo nelle immense e desolate fattorie della Patagonia. I padroni fanno arrivare una nave di crumiri da Buenos Aires, li caricano su un trattore e li conducono verso una fattoria. A un tratto appaiono alcuni uomini a cavallo, estraggono i fucili e sparano poche spanne sopra la testa dei crumiri, che si danno alla fuga, nel panico.
No, “el 68” e “el Toscano” non seguono le strategie del sindacato, né si preoccupano della volontà sovrana dell’assemblea. Sono vaqueros che hanno provato sulla loro pelle la dura vita patagonica e preferiscono applicare la logica della guerriglia, della montonera: radunare i peones, organizzarli in squadre, assaltare le fattorie, prendere in ostaggio padroni e amministratori e poi muoversi da un lato all’altro delle ventose province meridionali, per disorientare polizia ed esercito. È questo quello che faranno per alcuni mesi. Mentre il sindacato, animato dal galiziano Soto, si divide sul senso dello sciopero e delle rivendicazioni, il toscano e il piemontese si muovono a dorso di cavallo: tagliano il filo spinato dei recinti e razziano le fattorie, fanno incetta di bottino, sequestrano armi e cavalli.
Il 2 gennaio 1921 è un brutto giorno per i latifondisti: la fattoria “el Campamento” è stata assaltata da un gruppo di contadini, capitanati da “un italiano piemontés”. Hanno portato via tremila pesos, armi e cibo, e se ne sono andati dopo aver distrutto un’automobile, di cui non sapevano che fare. Si sono però impossessati dei cavalli e hanno preso in ostaggio l’amministratore della proprietà. I dipendenti — contadini, vaqueros e personale di servizio — si sono uniti agli assaltatori.
Un paio di auto della polizia si dirigono allora verso la fattoria “el Cerrito”, su cui incombe la minaccia di un attacco degli uomini del 68. A capo della pattuglia c’è il commissario Micheri, uno a cui non trema il polso quando c’è da usare metodi spicci. Ha una reputazione come esperto nell’arte di massacrare i sospetti a bastonate. Arrivati nei pressi del Cerrito, i poliziotti si trovano di fronte un’altra sorpresa: la fattoria non solo è stata depredata, ma letteralmente occupata dai ribelli. Micheri ha la presunzione che la vista delle uniformi possa bastare a impaurire quattro peones ubriachi, ma si sbaglia. La gente della squadra del toscano apre il fuoco contro i veicoli, un colpo preciso di winchester squarcia il copertone di una ruota. Segue una tempesta di piombo: due poliziotti sono colpiti a morte, Micheri è ferito e fatto prigioniero.
Il commissario crede sia suonata la sua ora, mentre lo portano al cospetto del “68”. Il piemontese lo sbeffeggia: _E allora, che facciamo? Dov’è il guapo? Dov’è il bastonatore?
C’è chi chiede di fucilarlo, ma gli argentini intercedono e suggeriscono di non ucciderlo a freddo, per non compromettere le lotte degli scioperanti. Lo fanno prigioniero, ma intanto arrivano altre due auto cariche di poliziotti. Questa volta si fermano a distanza. I gauchos si fiondano contro di loro a cavallo, i poliziotti sono a secco di benzina e scendono dal mezzo per prendere posizione. Inizia una sparatoria, ma le pistole dei militari incontrano i fucili dei vaqueros.
Ci sono morti da entrambe le parti, i poliziotti sopravvissuti sono costretti a fuggire e a cercare soccorso in un’altra fattoria. Per “el 68” e “el Toscano” è arrivato il momento di raccogliere la banda e prepararsi a fuggire. Duecento rivoltosi lasciano la fattoria del Cerrito, portandosi dietro alcuni ostaggi.
Intanto lo sciopero prosegue. “El 68” e “el Toscano” si fanno più prudenti: si muovono con abilità tra le montagne, si spostano da un lato all’altro, cercano di disorientare la polizia. I bandoleros installano il loro campo in un luogo isolato e aspettano il ritorno del 68. L’avventuriero piemontese si è lanciato al galoppo alla volta di Santa Cruz per incontrare l’anarchico Soto, il leader della Sociedad Obrera, il sindacato che sostiene le proteste operaie. La città è presidiata dall’esercito, ma “el 68” riesce a entrarvi e uscirne con trenta uomini, e mentre ritorna assalta e depreda le fattorie che incontra sul proprio percorso, cattura cinque gendarmi e rientra infine all’accampamento con ben centocinquanta uomini conquistati alla guerriglia. Adesso il gruppo capitanato dai due italiani è composto da seicento rivoltosi. Tolgono le tende e partono all’assalto della fattoria Anita, una delle più importanti della zona, che viene occupata senza problemi.
Ormai i latifondisti si rendono conto che è meglio fare concessioni. Avanzano una proposta ai ribelli. Saranno accolte alcune richieste degli operai. Formalmente, tutto apparirà come una resa incondizionata dei lavoratori. In realtà questi rilasceranno ostaggi, armi e cavalli rubati, ma godranno dell’impunità e di migliori condizioni salariali. Questa proposta viene comunicata attraverso alcuni gauchos argentini.
“El Toscano” e “el 68” rifiutano la proposta: non accettano di deporre le armi. Si lascia decidere l’assemblea. “El 68” e lo spagnolo Graña propongono di continuare le ostilità. Altri gauchos preferiscono accettare l’offerta. Vincono questi ultimi: 427 voti per tornare al lavoro contro 200 sulla proposta di continuare a battersi. Gli ostaggi sono rimessi in libertà, peones e gauchos tornano al lavoro. Il toscano e il piemontese se ne vanno con una parte degli uomini e il grosso delle armi.
Del “68” si perdono le tracce. Quanto a “el Toscano”, si nasconde nella cordigliera andina e organizza un nuovo gruppo d’azione, “El consejo rojo”. Un bracciale rosso, come simbolo del socialismo, sarà il loro segno distintivo. Oltre all’italiano, che si proclama presidente del gruppo, c’è Frank Cross, un pugile nordamericano di ventisette anni, armato di tre revolver; Zacaria Caro, argentino di trentadue anni, di cui sette passati nel penitenziario di Ushuaia; il cileno Santiago Díaz, esperto conoscitore dei luoghi.
Il Toscano incontra Soto e gli propone una campagna di primavera: sollevare i peones contro i grandi proprietari e poi muovere contro le caserme, ripulendo la zona della cordigliera andina dalla presenza della polizia. Soto non è d’accordo con il progetto della guerriglia e propone soluzioni sindacali. La rottura tra i due è definitiva.
I bandoleros del Toscano sono accampati presso Rio Rico, vicino al confine col Cile. Hanno acceso il fuoco, e la carne dell’asado è già infilata nelle sbarre di ferro a forma di croce. All’improvviso delle ombre si materializzano intorno al bivacco. Un istante di silenzio ansioso, rotto poi dalla molla di un grilletto: i fucili della polizia sono pronti a sparare. Il Toscano e i suoi sono circondati e presi prigionieri dagli uomini in divisa, le cui file sono state ingrossate da quegli stessi peones che il bandolero pretendeva di liberare. Pensò forse di essere stato tradito, mentre scagliava a terra il fucile, ai piedi di un asado che non avrebbe mai mangiato.
[Questo episodio, inedito in questa forma, è narrato in maniera estensiva nella Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer. L’avevo inserito in una prima stesura del mio Il fioraio di Perón ma l’ho escluso nel momento in cui la casa editrice Eleuthera ha accettato di pubblicare in Italia l’opera di Bayer. Allego di seguito un aneddoto che illustra l’antipatia, basata su ragioni ideologiche, tra Chatwin e Bayer. Questo secondo testo è apparso in appendice all’edizione italiana della Patagonia rebelde, tradotta da chi scrive] A.P.
Dialogo immaginario: autore e traduttore parlano della Patagonia, di Chatwin e di puma ribelli
di Alberto Prunetti
_Osvaldo, l’altro giorno pensavo al tuo libro, la Patagonia Rebelde…
Bayer annuisce.
_Sono pazzesche queste storie patagoniche e mi sorprende che in Italia nessuno le conosca…
_Be’, voi avete la vostra Patagonia, e noi la nostra. Voi quella dei viaggi dei turisti, e noi quella dei bandoleros e dei gauchos. Voi quella di Chatwin…
_…e voi quella di Bayer!, lo interrompe il traduttore.
Osvaldo, che non vede l’ora di parlare di Chatwin, sorride, poi si avvicina con l’aria di chi sta per rivelare un segreto.
_Sai, il libro di Chatwin sulla Patagonia è scritto per gli europei. Agli argentini non piace. Ma voglio dirti qualcosa di più. Ti racconterò dell’antipatia reciproca che mi legava a Chatwin.
Osvaldo si avvicina ancora di più, poi inizia a parlare sottovoce, come per non farsi sentire.
_La prima volta che l’ho visto, mi ha ricordato una vecchia rappresentazione di un ambasciatore di sua maestà britannica. Senza l’occhio bendato, però…
Scoppiano entrambi a ridere.
_Stava di fronte a me. Proprio qui, nello studio. Dove sei seduto tu. Gli avevano fatto il mio nome. Gli avevano detto: “Questo Bayer è un intellettuale del terzo mondo, sa tutto sulla Patagonia”. Lui ha tempo per un viaggio, qualche settimana nel lontano sud. Sì, non è troppo, lo ammette, ma nel primo mondo time is money. Chiede una bibliografia sul tema. Sì, libri, niente documenti. No, niente antropologia o etnologia. Preistoria? Yes. Leggende: sì. Ecologia? No, no. Viaggiatori, leggende, donne, indios, bandoleros? Excellent. Scioperi? Ah, scioperi… Mah!… Con anarchici? Oh, allora yes, fantastico!
Misi tutti i libri in una valigia e gliela diedi. Ovviamente anche la Patagonia rebelde. Tre settimane dopo mi restituì tutto.>>
Il traduttore è incuriosito: _L’hai più rivisto?
_Lo incontrai qualche anno dopo, quando ero già in esilio. Lui aveva fatto delle dichiarazioni su di me, sul “Times”. Criticava la mia indagine, dall’alto del suo scranno di intellettuale europeo. A Parigi lo incrociai. Gli dissi che aveva fatto un bel lavoro col suo libro In Patagonia. Ma era un lavoro da cocinero. Ovvero aveva “cucinato” il suo libro mettendo insieme gli ingredienti trovati nei libri degli altri. Niente di male, si fa spesso così. Ma non mi piaceva la sua arroganza. Questo non si può fare con tematiche europee, ma viene bene con gli argomenti dei paesi coloniali. Qui anche i lettori colonizzati sono orgogliosi del fatto che un europeo parli di loro. Allora gli feci una proposta…
_Che proposta?
_Gli dissi: “Ascolta, hai guadagnato tanti quattrini con questo libro, scritto assemblando il lavoro faticoso d’indagine di autori locali argentini, poveri e sconosciuti, che nella loro vita non hanno mai visto uno spicciolo per le loro fatiche. Perché non dai una parte dei soldi che ottieni dalle vendite alle biblioteche dei piccoli villaggi della Patagonia?”. Mi guardò con sguardo sovrano che tradiva compassione e disprezzo. Non si degnò di rispondermi, e non lo vidi mai più.
_Non hai neanche avuto uno scambio di lettere con lui? Magari per un chiarimento?
_Be’, diciamo che è tornato a scrivere su di me dopo la sua morte. Probabilmente aveva la coda di paglia!, dice con un po’ di malizia.
Adesso il traduttore non capisce. _Che vuoi dire?
_Un giorno, dopo la sua morte, esce un altro libro. Un’antologia postuma intitolata Anatomia dell’irrequietezza. E lì trovo un capitolo contro di me e contro gli anarchici, come Soto, che avevano condotto gli scioperi della parte sindacalista del movimento di rivolta in Patagonia. Uomini che combatterono una lotta disperata a trentamila chilometri dal centro del mondo. Mi scuso con Chatwin: mi sono occupato di peones ubriachi e di profeti anarchici. Avrei dovuto occuparmi di latifondisti di sangue britannico dagli stivali lucidi e di militari dal frustino facile. Tranquillizzatevi, fan dei grandi scrittori di best-seller. Gli scrittori del terzo mondo spesso finiscono male, e le loro ossa si mescolano alle ossa anonime dei refrattari patagonici, visitate solo da cani vagabondi e puma ribelli.
E allora Osvaldo scoppia di nuovo a ridere e versa altri due bicchieri di whisky.