di Filippo Casaccia
Ero un ragazzino alto e magro con tanto tempo a disposizione, una certa propensione al fancazzismo e, modestamente, l’inarrivabile abilità a dedicarsi a cose completamente inutili. Fatto sta che nei miei quindici anni compulsavo settimanalmente il Guerin Sportivo e mi aggiornavo con stolida precisione sui risultati di squadre internazionali che mai avevo (e avrei poi) visto giocare. C’era una logica, distorta, ma c’era: facevo il tifo — un tifo “freddo”, da poltrona — per squadre a cui ero legato dai più diversi e impensabili motivi. Quando avevo 10 anni, per una troppo breve stagione, a casa nostra fu ospite la splendida Dorothy, ragazzona au pair di Glasgow che, in cambio di vitto, alloggio e un piccolo stipendio, insegnava l’inglese a me e mia sorella. Dorothy imparò l’italiano, io quasi niente del suo idioma gutturale e contratto, ma mi colpì molto il suo invidiatissimo fidanzato. Ci venne a trovare prima dell’estate: giocava in una squadra di calcio scozzese dell’allora Premier Division locale, il Morton. Quest’uomo affrontava in campo gente come Gordon Strachan. E magari aveva conosciuto Kenny Dalglish o John Wark…
In regalo mi portò una maglia da gioco ufficiale che chissà che fine ha fatto: fornita dalla Umbro era, per gli spartani standard italiani dell’epoca, elaboratissima: a righe orizzontali bianche e blu, con lo stemma ricamato. E io, da allora, ho sempre seguito da lontano le gesta del Morton, che oggi milita in prima divisione (la nostra serie B).
Seguivo anche il Levski Spartak di Sofia, e qui si entra in un terreno imbarazzante. Infatti, se mai esiste un motivo valido per fare il tifo per squadre sconosciute, qui si travalica nel patologico. La mia squadra di Subbuteo preferita era — confesso — la nazionale bulgara, con la quale, assieme agli amici, vivevo in una dimensione parallela sconcertante: infatti la compagine balcanica era campione del mondo — del nostro mondo —, rivaleggiando col Camerun di mia sorella, il Perù del mio amico Federico e — più realisticamente — l’Argentina di suo fratello Lorenzo. Una aberrazione calcistica, insomma, ma tant’è. Siccome ci dilettavamo a compilare i tabellini degli incontri (lunghissimi! 40 interminabili minuti, secondo l’allora regolamento internazionale del calcio da tavolo), per me era indispensabile conoscere qualche nome e il Guerin Sportivo dava una mano con la classifica cannonieri. In quegli anni il Levski, squadra associata al ministero degli interni bulgaro, era vincente nei confronti del consueto strapotere dei rivali del CSKA, sempre di Sofia, che rappresentava invece l’esercito.
Nel 1985, durante la finale della coppa nazionale, ci fu un rissone clamoroso in campo, tanto che la federcalcio bulgara dovette sospendere le due squadre (e diversi giocatori, tra cui, chiaro, un giovane e fumantino Hristo Stoichkov) e riammetterle cambiandogli nome. Il Levski diventò Vitosha, il CSKA Sredets e, crescendo e diventando leggermente più furbo, le ho poi perse di vista. Apprendo adesso che nel 1989, a Muro caduto, le due squadre hanno ripreso i vecchi nomi e nel frattempo il Levski ha vinto 11 scudetti contro gli 8 del CSKA.
Tiè.
C’erano poi le simpatie: l’Aston Villa in Inghilterra (perché era originale la maglia!), il Paris Saint-Germain in Francia (perché il Parco dei Principi sembrava lo stadio più bello del mondo) e il Barcellona (per Cruijff prima e Maradona poi… ed era la rivale repubblicana dei franchisti e realisti di Madrid: cosa ti dice certe volte la testa!).
E ancora oggi mi ritrovo, con altri strumenti e altri tempi, a seguire sulla carta qualcuno per cui provo un’affezione puramente elettiva. Si tratta dei bucanieri del quartiere di Sankt Pauli, ad Amburgo: il FC St. Pauli.
La squadra ha una storia unica: team centenario, sempre antagonista e avversato dal nazismo, continua a distinguersi conducendo campagne sociali e per la tifoseria antifascista, al punto che lo stadio, il Millerntor, è interdetto a chiunque manifesti sentimenti xenofobi, razzisti o sessisti.
L’inno ufficiale suonato a ogni incontro è Hell’s Bells degli Ac/Dc e quando si segna risuonano le note della Song 2 dei Blur più cattivi. In curva, invece, è forte la componente punk, erede di un culto che risale agli anni Ottanta, quando il club trasferì il suo campo da gioco nella Reeperbahn in ristrutturazione urbanistica. Smantellata la vecchia strada “a luci rosse”, dove prostituzione e azzardo (e anche i nascenti Beatles) avevano allietato i marittimi di passaggio da Amburgo, arrivarono tanti squatter, che adottarono la squadra.
Salvato ripetutamente da raccolte di fondi popolari, il club ha un seguito che travalica i confini della città portuale e della Germania stessa. Esistono circa 200 club affiliati alla tifoseria — uno anche in Italia, a Genova — e le partite hanno sempre la dimensione dell’evento, forti della partecipazione popolare (con fortissima presenza femminile), mentre in curva garriscono centinaia di Jolly Roger.
Il ritorno in Bundesliga dell’anno scorso, dopo anni di alti e bassi, è una bella storia e un balsamo per chi crede che il calcio non sia soltanto acquisti virtuali di star firmate da capo a piedi.
Non so come giochi il St. Pauli, ma francamente non è neanche così importante.
P.s.: una segnalazione al volo per un’opera sfiziosa, non letteraria, ma che del Mito calcistico si ciba e lo propaga: La Mappa (molto affollata) dei Mondiali di Walter Fontana e Michele Tranquillini (De Agostini, 48 p., 10 €). Su una mappa pieghevole — come tradizione cartografica della De Agostini — che rappresenta un campo da calcio, sono disegnate cento azioni (non solo calcistiche) che hanno caratterizzato i mondiali di calcio. Se ricordate i disegni di Carlo Silva sulla Gazzetta dello Sport o quelli di Paolo Samarelli sul Guerin Sportivo, potete farvi un’idea. Solo che le cento “azioni” sono tutte contemporaneamente in campo! Un modo originale e divertente per innescare i ricordi e giocare con l’epica del “gioco più bello del mondo”.
Non sempre, ma talvolta sì.