di Sandro Moiso
Quand’ero bambino, uno zio mi insegnò che per distrarre qualcuno e poterlo fregare occorreva attirare la sua attenzione sugli asini che volavano in cielo.
Certo quell’italietta degli anni ’50 era ancora vicina alle storie medievali di Calandrino e le truffe alla Totò per vendere il Colosseo a turisti sprovveduti facevano ancora sorridere.
Oggi, invece, siamo diventati moderni e seri, liberal e globalizzati e soprattutto cinici e disincantati e quelle innocue storielle, ormai, richiamano soltanto alla mente il retaggio di una cultura popolare arcaica e superata.
Così, finalmente, tutta la dotta cultura millenaria, latina e cristiana, che caratterizza il Bel Paese e la sua indiscutibile modernità ha potuto esprimere la propria ricchezza e profondità filosofica, politica e morale nel vivace dibattito sull’opportunità o meno dell’esistenza della lotta di classe.
A destra, a sinistra, in alto, in basso e al centro il ragliare degli asini saccenti si è inseguito e moltiplicato sulle pagine dei giornali come in un novello castello del mago Atlante.
Con arguzia e intelligenza il Sig. Marchionne e la Sig.ra Marcegaglia hanno stabilito che la lotta di classe, oltre che essere lesiva degli interessi aziendali e nazionali, non deve semplicemente più esistere.
Un assoluto lampo di genio; magari ci avessero pensato i generali argentini e cileni invece di spargere tutto quel sangue. E magari tutti gli altri che nel corso della storia hanno difeso il loro diritto a governare e opprimere la specie.
“Basta con la lotta di classe!” e via tutto risolto, tutto scomparso, tutto in ordine.
Niente crisi, niente proteste, nemmeno più qualche Gattopardo disposto a cambiare tutto affinché nulla cambi.
Magia.
Pura.
La Storia, quella con la S maiuscola, potrà finalmente arrestare il suo corso e veder finalmente fissato da qui all’eternità il dominio del Capitale.
Nemmeno James Ballard in qualcuno dei suoi deliranti romanzi di anticipazione l’aveva pensato.
D’altra parte in un’intervista lo scrittore inglese aveva dichiarato di aver smesso di scrivere storie di fantascienza perché questa ormai si andava realizzando sotto i nostri occhi. Ecco, appunto.
E pensare che, per esplicita ammissione dello stesso, la lotta di classe non è nemmeno un’invenzione, una scoperta o una trovata di quel terrorista fallito di un Marx.
Legge del plusvalore e rovesciamento della dialettica hegeliana (insieme a quel farabutto di Engels) rivendicava il moro di Treviri a memoria dei posteri.
Per la lotta di classe, niente, proprio non poteva, perché quella esisteva già prima e indipendentemente dalle scoperte sue e dell’età della ragione.
A me quasi quasi dispiace di non poter dar ragione a M&M (Marchionne e Marcegaglia), perché se qualcuno ci avesse pensato qualche millennio addietro avremmo potuto far tranquillamente a meno della proprietà privata e dello Stato e oggi potremmo ancora godere delle gioie del comunismo primitivo. Ma si sa la lotta di classe si fa dal basso, ma anche dall’alto… chissà se tale profezia varrà anche per gli imprenditori?
In una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871, Marx affermava: “Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”.
Eh, quell’antiquato di Marx… che non poteva ancora neppure immaginare cosa avrebbero combinato la radio, la televisione e la rete!
E magari fossero rimasti lì i buoi, nella stalla borghese di M&M. No, sono scappati anche fuori, a far danno tra le file degli altri ovvero tra quelli che formalmente si son assunti l’incarico di contestare quelle asinine e a-storiche affermazioni.
Cominciamo dal mio beniamino, l’Adriano dalle infinite memorie, che ha fatto notare (cito da quanto scritto da Guido Viale su Il manifesto del 31 agosto) che “la frase basta lotta tra operai e padroni prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone”. Ecco, bravo! Efficace e intuitiva affermazione.
Peccato che sia errata, come l’altra.
Nella società divisa in classi nessuno può arrogarsi il diritto di affermare la fine della lotta, con buona pace del resuscitato e demagogico operaismo insito nella frase citata.
Può fermarsi per un attimo, per una sconfitta, per confusione ideologica, per la repressione, ma, come ho già affermato in un articolo precedente, questa non può sparire, anche se può assumere connotati contraddittori.
Peggio ancora, poi, hanno fatto il presidente operaio, i vescovi e i sindacati, limitandosi a rivendicare la dignità del lavoro tout-court e a chiedere di non elevare i toni di un possibile scontro in tempi di crisi.
Ma qual è la dignità del lavoro salariato, precario, alienato?
Quella del sacrificio cristiano osannato da vescovi e ciellini?!
L’ho già detto da qualche altra parte e mi ripeto: ogni volta che sento parlare di difesa della dignità del lavoro operaio come fine della lotta di classe, la mia mente corre al lavoro rende liberi dei campi di concentramento nazisti, al gulag, oppure alla Costituzione staliniana del 1936 nell’URSS o a quella mai entrata in vigore della Repubblica di Salò che ponevano al primo punto la fondazione della repubblica sul lavoro. Dimenticavo, scusate, che anche la nostra inizia con lo stesso articolo.
Scriveva un giovane Marx, nel 1844:”Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce […] Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.
E ora, in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E’ a casa propria se non lavora e se lavora non è a casa propria.
Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste.
Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […]. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro” (1).
E con buona pace di M&M, Peppone e don Camillo, la lotta di classe nella società capitalistica continuerà a esistere per una società di uomini e donne “…liberi dal lavor!”.
(1) Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi, 1968, pp.71-75.