Lucio Iaccarino, Napoli bene. Salotti, clienti e intellettuali nella capitale del Mezzogiorno, Ediesse Edizioni – Carta Bianca, 2008.
“Gli anni italiani insegnano che i palazzi sono micidiali quanto i campi di battaglia, solo che qui dentro i rumori della guerra sono attutiti, assorbiti dal parlottio delle trattative e dalle menti acute e assassine di questi uomini. […] Nessuno può cogliere il quadro d’insieme, vedere contemporaneamente la figura e lo sfondo, l’obiettivo finale. Nessuno eccetto coloro che tengono i fili di quelle trame…”. Luther Blissett, Q.
Se Saviano ci ha accompagnato nel ventre delle periferie degradate e del sistema della camorra, Iaccarino ci racconta un’altra Napoli, quella istituzionale, quella del potere politico. Scrutando nelle maglie più nascoste della città, il libro — che si sviluppa in modo ibrido tra narrativa, finzione e dettagliato reportage sociale, una sorta di memoir di formazione intellettuale — illustra i motivi di complicità che legano la società civile all’illegalità, riflettendo sulle debolezze politiche e sulle possibili vie per risollevare le sorti della città.
Dopo anni d’intensa attività un anziano professore inglese di Scienza politica va in pensione, costringendo il suo assistente universitario al precariato. Appena prima di partire per l’Inghilterra, il maestro decide di lasciare al suo discepolo un divano bianco. Il giovane comincia così un viaggio nei salotti della Napoli bene, in cerca di una degna sistemazione per l’oggetto ereditato. La ricerca diventa l’occasione per rileggere alcuni capitoli della storia sociale e politica napoletana: da Lauro a Gava, agli “opachi anni ottanta”, per finire con il disincanto della Iervolino e il disastro dei rifiuti.
La politica campana, rinchiudendosi nel salotto, aveva finito per sottovalutare la portata reale dei problemi. I cittadini avvertivano la crescente distanza, come se il personale politico avesse smesso di calpestare i suoli della città. […] Le politiche pubbliche nell’era dei rifiuti sembravano soffrire della “sindrome del sassolino”. Tutte le volte che provavamo a scrivere dei processi decisionali nella nostra regione, menzionando il nome del governatore campano, il computer lo correggeva automaticamente con “”Sassolino”. Come se, dinnanzi alla tragedia della spazzatura, ogni altra decisione, persino la più valida, si dovesse tramutare in un sassolino caduto nello stagno.
Napoli bene e il suo universo di salotti, aule universitarie, palazzi, uffici, strade e quartieri incuriosiscono il partenopeo e “lo straniero”. Da una parte, come milanese, avevo molto interesse nell’affrontare un romanzo che completasse e, in qualche modo, s’affiancasse idealmente al quadro duro e crudo dipinto da Saviano con Gomorra. I toni sono riflessivi, l’analisi è profonda e propositiva mentre l’impatto visivo ed emotivo dell’opera risulta più pacato e concentrato sull’origine dei problemi e su ambienti e personaggi meno “pericolosi”, spesso collocati fuori dal rumore delle cronache, ma comunque fondamentali. Si tratta in parte di altre zone, di altre classi sociali e di problematiche complementari ma con lo stesso sottofondo culturale e storico, le stesse connivenze e giochi d’interesse. Anche qui, qualcosa lo sapevamo già, forse molte altre città d’Italia possono vantare condizioni simili, ma ci sfuggivano i nessi, le specificità locali, le geometrie, a volte improbabili nel resto del paese, e le connessioni tra i gangli vitali del sistema politico, culturale e sociale della Napoli bene e delle altre, quella illecita, quella che sopravvive, quella dei quartieri tristemente famosi come Scampia o Forcella, con le loro interazioni, gli scontri, le violenze e i loro reciproci scambi di favori.
Ora abbiamo ancora qualche tassello in più e ci viene proposto da molteplici punti di vista disciplinari, temporali e spaziali. La nascita del sistema (non inteso solamente come quello della camorra), la cultura partenopea delle origini, il dopoguerra, gli anni ottanta, il disincanto dei novanta e del nuovo millennio. La visualizzazione di una speranza, di tanti piccoli tasselli del puzzle da ricostruire e degli strappi da ricucire e infine un’occasione: il Forum Universale delle Culture a Napoli nel 2013, l’ennesima data lontana ma al contempo troppo vicina per una rigenerazione e per confrontarsi con il mondo sui temi dello sviluppo sostenibile, i diritti umani, la pace, la legalità e la diversità culturale in una delle realtà più contraddittorie e variegate d’Europa.
Dall’altra parte, come emigrato a Città del Messico da alcuni anni, la lettura di Napoli bene ha risvegliato in me una sensazione di vicinanza, somiglianza culturale ed empatia tra la realtà messicana e quella di Napoli e della Campania, soprattutto per quanto riguarda l’elite politica ed economica così come la racconta Lucio, con il suo sguardo antropologico e giornalistico attento. Dall’esterno, da lontano viene da dire “gente fuori dal mondo e un mondo fuori da quel che la gente potesse immaginare”.
E’ ammirevole trovare tanta imparzialità e autocritica e tanto sforzo costruttivo e deciso nel prendere atto dei propri vizi e delle proprie virtù come in questo caso. Parrebbe un’impresa impossibile quella di estraniarsi e guardarsi da fuori con le lenti della gradazione giusta, non offuscate dalle aspettative personali e dall’interesse altrui. Invece si ha di fronte un’analisi distaccata, ma tagliente, e, cosa che dà molto valore al libro, non sensazionalista riguardo a una dinamica sociale complessa ma spesso spettacolarizzata e banalizzata in Italia e all’estero, secondo i canoni di un folclore incorreggibile e di una superficialità accondiscendente. “Sono così, chiudiamo un occhio”, direbbero al nord schernendo la modernità napoletana che per alcuni non è mai arrivata a compimento, proprio come in America Latina, dove le megalopoli, capitali e non, sarebbero, secondo alcuni, già postmoderne senza essere passate da una modernità trasformatrice, dato che sono state bloccate da mille resistenze ed inerzie che si rincorrevano. Napoli capitale, però, aveva conosciuto una splendida e prematura modernità, forse è per questo che s’è poi fermata in un contesto, il meridione, che era rimasto profondamente arretrato.
Napoli bene è un racconto di vicissitudini, violenze, cadute ma anche piccoli successi del quotidiano, una storia di vita, di tante vite, che prende le forme del reportage e dell’analisi sociologica, del saggio e del romanzo, fino a culminare nella difficile ma coraggiosa ricerca di soluzioni pensate, vissute, provate e proposte. Anche sogni forse, ma non utopie. Dal piccolo esperimento di un condominio, da una strada, fino al quartiere e alla città intera. Visioni, speranze, azioni. Una Napoli con un nuovo e forte settore turistico alternativo e la meritocrazia come nuova bussola nell’università e nella ricerca dei talenti, spesso cooptati dalla partitocrazia, per esempio, oppure la legalizzazione progressiva delle droghe leggere per cominciare a togliere ossigeno alla camorra, con la coscienza che la repressione pura e semplice, priva di approcci globali, sociali, economici e culturali, non serve a nulla, se non a riempire le pagine dei giornali e alimentare le statistiche governative. Più importante sarebbe provvedere alla ricostruzione del capitale sociale e della società civile attraverso un’opera mirata alla riattivazione complessiva della città, partendo dalle zone marginali, con l’idea “copernicana” che la fiducia, la cooperazione e il senso civico possano essere “prodotti socialmente” e non solamente ereditati da un passato glorioso.
Sembra quasi che un occhio esterno, da straniero, come quello del maestro del giovane aspirante ricercatore, abbia fatto da mediatore e consigliere per cercare tra le apparenze e scovare in mezzo alle ambiguità di questa metropoli le storie, le logiche, i meccanismi che muovono la Napoli dell’accademia, della politica, dei salotti e dei suoi rispettivi baroni e baronesse. Per chi viene da fuori (non solo geograficamente ma anche socialmente) risulta spesso ermetico e inafferrabile in tutte le sue dinamiche questo mondo che si divincola tra legalità e illegalità, clientelismo e fedeltà, corruzione e rent seeking, palazzi benpensanti e strade assassine del malaffare.
E’ il mondo delle sinergie tra le “gang del salotto e del vicolo”, alleanze trasversali come quando “i figli della Napoli bene si erano messi in affari coi ragazzi della Torretta, noto quartiere alle spalle del lungomare di Mergellina, dove era possibile acquistare un ventaglio abbastanza ampio di droghe pesanti e leggere”. Clan politici, come i Gava e i Lauro, e clan di altro tipo, insomma. Gruppi con cui “il popolo aveva instaurato un rapporto basato su vincolanti richieste d’aiuto, dinanzi alle drammatiche condizioni di partenza”.
Proprio di sinergie e collaborazioni occulte si tratta quando si parla della camorra come “fenomeno mafioso” che, in quanto tale, non può separarsi dalla sfera politica ed economica con la quale interagisce proficuamente. Monnezza e camorra puzzano di meno se combattute con le armi della ricostruzione comunitaria della società, dell’istruzione e della riabilitazione strutturale cittadina piuttosto che con l’esercito a presidiare Chiaiano o con la polizia che mette dentro due pezzenti di quando in quando.
Iaccarino ci rivela e precisa le dinamiche del potere politico, sempre maschile, spesso profondamente illiberale e quindi privo di regole e freni, così legato ai contropoteri de facto come le mafie e i media. Nel “piccolo” del mondo accademico e nel mercato del lavoro in cui “l’incertezza e la conseguente autocensura dei subalterni” sono le “forme più collaudate del controllo sociale” è ovvio che si favoriscano il corporativismo intellettuale e la stagnazione delle idee, la castrazione sistematica dell’innovazione, concetto vituperato per il suo potenziale sovversivo di un idealizzato status quo.
L’assenza del principio del miglioramento continuo della ricerca e della didattica oltre che dei criteri di selezione dei saperi, dei discenti e dei docenti stessi dentro le università viene tristemente ribadita dall’esperienza personale dell’autore che condivide con i lettori un’amara verità e anche alcuni preziosi tentativi di ribaltare le prospettive dell’insegnamento-apprendimento e dei ruoli di insegnante e studente: suggerimenti interessanti e utili sfide professionali.
E’ palese anche per gli intellettuali già fatti e formati, soprattutto per loro, che tendono al conformismo politico, alla ricerca della prebenda statale, dell’inevitabile e meritevole raccomandazione e del favore interessato declinando dalle loro funzioni critiche e di stimolo socio-culturale. In termini semplici e non pregiudiziali Lucio ci racconta le origini storiche di questi fenomeni senza la considerazione delle quali ogni soluzione e ogni proposta resterà effimera promessa destinata all’insuccesso pratico.
Infine c’è l’epopea del divano, l’unico retaggio del professore scomparso per l’alunno fedele ma ormai condannato al precariato universitario e a una progressiva esclusione, come metafora del focolare e dell’incontro riservato, quindi della casa, del clan, della famiglia, dove si lavano i panni sporchi e dove si discutono, soprattutto tra uomini, le questioni importanti per la cosa pubblica, anzi privata, che la clientela e i sottoposti provvederanno a processare e smaltire in base agli ordini e alle gerarchie. Buona lettura.
Lucio Iaccarino è fondatore dell’unità di ricerca Think Thanks, politologo, saggista, opinionista, blogger, è al suo primo racconto sulle ragioni dell’infelicità pubblica napoletana. Ha insegnato Scienza politica all’Università “l’Orientale” di Napoli, collabora con “la Repubblica” (ed. Napoli), con “il Mese” di “Rassegna Sindacale”. Nel 2005 ha pubblicato, per la casa editrice “l’ancora del mediterraneo”, il saggio La rigenerazione. Bagnoli: politiche pubbliche e società civile nella Napoli post-industriale.
Il libro qui: http://www.ediesseonline.it/catalogo/carta-bianca/napoli-bene
Il suo blog: http://napolibene.blogspot.com/