di Valerio Evangelisti
La guerriglia palestinese ha dunque valore simbolico, nel senso che non si prefigge direttamente la riconquista del territorio nazionale. ma persegue obiettivi collaterali cosi riassumibili (seguendo parzialmente una traccia fornita dallo stesso Habash) (73):
1) impedire che lo Stato di Israele possa stabilizzarsi sia sul piano organizzativo che, soprattutto, sul piano della “sicurezza psicologica”. Ciò è tanto più importante in quanto Israele vive sull’immigrazione. Le improvvise incursioni dei fedayin, all’apparenza slegate e non molto efficaci, tendono appunto ad arrestare il flusso migratorio, rendendone negativo il saldo (come in effetti risulta sia avvenuto). Anche azioni come l’attentato del 22 novembre ’68 al mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme (12 morti), rivendicato dall’FPLP. o l’esplosione di un ordigno su un autobus di Tel Aviv, il primo aprile 1969 si spiegano (senza volerle giustificare) nel quadro di questa tattica – ispirata più dal FLN algerino che dai vietcong o dai guerriglieri castristi.
2) Danneggiare l’economia israeliana, fragilissima e in pratica puntellata dai sussidi statunitensi (magari fino a rendere il sostegno di Israele un onere troppo gravoso per i governi alleati). Tra le azioni dell’FPLP, tendono a questo scopo la distruzione della rete elettrica nel nord del paese, attuata nel dicembre ’67; il sabotaggio, nel giugno ’69, all’oleodotto del Mar di Galilea (che, inquinando le acque e impedendo la pesca, infligge un duro colpo ai kibbutzim rivieraschi; e soprattutto l’assalto con natanti a una petroliera israeliana negli stretti di Bab Al-Mandeb, nel giugno ’71, che ha l’effetto di svelare, con grande imbarazzo degli interessati, l’uso che Iran e Arabia Saudita fanno dell’oleodotto di Israele (74).
3) Dimostrare la sopravvivenza dell’identità nazionale del popolo palestinese, il profondo radicamento delle sue istanze e la sua determinazione – scopo che, di tutti, è indubbiamente quello meglio raggiunto (75), ed è dall’FPLP principalmente affidato ai dirottamenti aerei (di cui si parlerà fra breve).
Un quarto obiettivo – l’innesco nella società israeliana di contraddizioni politiche e sociali tali da indurre il proletariato ebraico all’insubordinazione (76) – non viene invece conseguito che in misura irrilevante. A parte i rapporti che il Fronte Democratico intrattiene per qualche tempo con il gruppo di estrema sinistra Matzpen, il dialogo a distanza con le Pantere Nere di Israele (organizzazione di ebrei sefarditi, soggetti a discriminazione razziale per la loro origine non europea) (77) e le discrete relazioni con uno dei due partiti comunisti israeliani (il Rakah, a composizione però quasi esclusivamente palestinese) (78), l’alleanza con il proletariato ebraico resta nel limbo delle petizioni di principio. Anche gli strati inferiori della società israeliana godono pur sempre di una posizione privilegiata nei confronti della minoranza araba, né la questione sociale può aggravarsi al punto da spegnere in essi il sentimento nazionale.
La singolare natura della guerriglia palestinese trova riscontro nell’analoga singolarità del colonialismo israeliano, diverso da qualsiasi altro per origine e per sviluppo. Il movimento sionista (che si identifica nello Stato di Israele, e nel quale lo Stato si identifica a sua volta quasi completamente) non punta a dominare o a sfruttare la popolazione araba (anche se Gaza e Cisgiordania forniscono, all’occorrenza, abbondante manodopera a buon mercato) (79). Punta invece a un totale annientamento della presenza araba in Palestina, giustificato non da motivazioni puramente economiche, ma sulla base di una ricostruzione storica di natura essenzialmente mistica.
Il conflitto è dunque assoluto, senza mediazione o composizione possibile; la lotta tende costantemente ad assumere i caratteri di sterminio. Ogni israeliano, militare o civile, è agli occhi dei palestinesi un occupante e un usurpatore, contro il quale è legittimo l’impiego di qualsiasi arma. Ogni palestinese, civile o guerrigliero, è agli occhi degli israeliani un alieno minaccioso e ingombrante, da neutralizzare, allontanare o sopprimere. Se l’FPLP si propone statutariamente “la distruzione di Israele in quanto Stato” (80), Israele persegue, in tutte le sue componenti politiche principali, l’eliminazione fisica dei fedayin e la cancellazione dalla geografia, dalla politica e persino dalla memoria storica dei palestinesi in quanto popolo distinto. Né potrebbe essere altrimenti, salvo il venir meno della stessa identità israeliana.
La contrapposizione è accentuata dalla cultura di tipo europeo, solcata da venature colonialistiche e razzistiche, che gli israeliani rivendicano e che li induce a non vedere altro che barbarie all’esterno della propria oasi fortificata. E’ questa, del vincolo culturale con l’Occidente, una carta vincente sotto più di un profilo. Oltre a rendere ‘accettabile’ il virtuale genocidio identitario posto in atto ai danni dei palestinesi (che, secondo un metro eurocentrico, rappresentano una popolazione arretrata indistinguibile da quelle confinanti), permette infatti di acquisire l’automatica solidarietà del vecchio continente, lieto di trasferire agli arabi la responsabilità morale accumulata con le persecuzioni antisemite succedutesi in Europa fino a metà del XX secolo. Consente inoltre a Israele di proporsi quale avamposto della civiltà occidentale nei confronti dei movimenti anticoloniali e delle forze che li sostengono, collocandosi all’intersezione dei conflitti Nord-Sud ed Est-Ovest e divenendo, con ciò stesso, pedina irrinunciabile dello schieramento guidato dagli Stati Uniti.
Non che Israele sia mero strumento dell’imperialismo, come anche l’FPLP pare credere (81). Il rapporto tra l’espansionismo israeliano e l’imperialismo statunitense, che risale alla nascita dello Stato ebraico (82), più che di subordinazione del primo al secondo è di strumentalità reciproca. Se c’è un ‘agente’ degli Stati Uniti in Medio Oriente è l’Arabia Saudita (83). Israele gode invece di un ampio margine di autonomia, intrecciando con i propri presunti ‘mandatari’ relazioni talora basate sulla comunanza di interessi, talaltra su veri e propri ricatti di natura sia materiale che morale. Il fatto è che l’azione di Israele non è interamente riconducibile a incentivi di carattere economico o politico. La sua natura di Stato apertamente confessionale, l’origine religiosa (e non etnica o storica) del suo insediamento e della sua dilatazione territoriale, fondano la scelta israeliana a favore dell’Occidente non solo su epidermiche ragioni di convenienza, ma anche sull’appartenenza a una medesima cultura giudaico-cristiana ritenuta – sulla scorta dei pregiudizi del colonialismo classico – per definizione superiore. Non è l’espansionismo israeliano a dettare a posteriori la propria giustificazione morale. E’ un ancestrale retroterra etico ad avere nel colonialismo e nell’espansionismo il proprio corollario pratico.
Qui risiedono i motivi profondi della battaglia a difesa della supremazia occidentale, di dimensioni addirittura planetarie, in cui Israele si trova sin dagli inizi impegnato (quale che sia il governo in carica). Battaglia i cui momenti salienti sono l’entusiastico sostegno alla dittatura haitiana di Duvalier o a quella nicaraguense dei Somoza, l’azione contro il movimento di liberazione algerino, l’appoggio fraterno al governo razzista del Sud Africa, l’aiuto diplomatico e in armamenti offerto alle più sanguinose tirannie dell’Africa e dell’America Latina. Non esiste episodio di rilievo del conflitto Nord-Sud che non veda Israele farsi parte attiva a fianco delle forze conservatrici – si tratti dello sterminio degli indios guatemaltechi o del mantenimento dell’apartheid nella repubblica sudafricana. E ciò anche quando nessun interesse immediato è individuabile, o quando le potenze imperialistiche si sono già ritirate dalla lotta (come è il caso, in anni recenti, del Nicaragua).
Entro simile cornice la guerriglia dei fedayin acquista dimensioni politico-sociali dilatate, essendo rivolta a un tempo contro due civiltà – la civiltà araba tradizionale e la civiltà colonialista occidentale. Come far fronte a un simile compito? Le soluzioni proposte dalle due principali correnti della resistenza (Al-Fatah e FPLP) sono assai diverse tra loro. Dal momento che una rivoluzione interna a Israele è impossibile, Al-Fatah punta ad un coinvolgimento militare dei paesi arabi, attenuando ogni polemica nei loro confronti e facendosi, pur nel quadro di una rigorosa autonomia, forza coagulante dell’intera nazione araba. La stessa guerra di guerriglia, che causa al nemico perdite irrilevanti (anche se amplificate da comunicati del tutto inattendibili), pare indirizzata più a sensibilizzare i governi potenzialmente alleati che a scardinare lo Stato nemico. Considerazione parzialmente riferibile anche all’azione internazionale (condotta tramite l’OLP, organizzazione pluralista ma largamente egemonizzata dal gruppo di Yasser Arafat), tesa a conseguire sul piano politico una vittoria irraggiungibile sul piano militare, se non col concorso dei paesi ‘amici’.
Assai differente la condotta dell’FPLP, data la diversa natura dei suoi obiettivi. Anche il Fronte comprende che le sole energie palestinesi non possono piegare Israele. Si tratta dunque di coinvolgere gli Stati arabi circostanti. Ma non quali essi sono, come per Al-Fatah, bensì dopo aver avviato in essi dei processi di trasformazione rivoluzionaria, in cui la resistenza palestinese funga da detonatore chiamando all’azione le popolazioni autoctone. Sarà la coalizione degli Stati sorti sulle rovine dei regimi reazionari che potrà aver ragione di Israele a fianco e sotto la guida dei fedayin. Reazione araba e sionismo vanno quindi abbattuti senza soluzione di continuità, nell’ambito di un medesimo sollevamento globale.
Ma, come si è detto, esiste un terzo nemico – l’imperialismo – alla cui tutela le altre forze sono sottoposte. Occorre allora fornire alla resistenza un vasto sostegno internazionale, capace di paralizzare la rete di alleanze che difende Israele e gli Stati arabi reazionari. Ciò è possibile non tanto tramite una generica attività diplomatica (il rapporto dell’FPLP con l’OLP è discontinuo e talora teso), quanto attraverso una stretta collaborazione con gli altri movimenti di liberazione e un ancor più stretto legame con l’Unione Sovietica (che presto sostituisce quale referente la Cina, dedita a una politica estera a dir poco incoerente) (84).
Non che il Fronte Popolare sia totalmente subordinato alle indicazioni dell’URSS (come lo sarà il Fronte Democratico dalla metà degli anni ’70). I punti di frizione, alla luce della politica mediorientale sovietica (ratifica nel 1967, in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dell’occupazione dei territori confinanti da parte di Israele; rapporti privilegiati con gli Stati arabi anche a detrimento della resistenza, ecc.) sono anzi numerosi. Scriverà Habash nel 1974, all’epoca del cosiddetto “fronte del rifiuto”:
“I Sovietici sono nostri amici, teniamo alla loro amicizia. Ma, a imitazione dei rivoluzionari vietnamiti, noi dobbiamo mobilitare tutte le alleanze e metterle al servizio della strategia e della tattica della Rivoluzione. Come loro, dobbiamo evitare che il nostro attaccamento a questa amicizia con i Sovietici ci porti a subordinare gli interessi della Rivoluzione a quelli di un alleato, chiunque esso sia. Devo insistere tanto sull’amicizia dei Sovietici, sulla sua importanza e sulla nostra sincera gratitudine nei loro confronti, quanto affermare che spetta a noi elaborare i nostri programmi. Ed è possibile che compaiano tra queste due posizioni delle contraddizioni fondamentali: non potremo ignorarle, e farlo sarebbe cadere in una specie di dipendenza che ostacolerebbe il cammino della Rivoluzione” (85).
Risulta evidente che il Fronte Popolare, al pari di molti altri movimenti di liberazione, giudica indispensabile l’appoggio sovietico, l’unico in grado di consentire la conduzione e il successo di una guerra rivoluzionaria prolungata. Ma al tempo stesso comprende la necessità di salvaguardare la propria autonomia decisionale, a fronte di un alleato il cui aiuto non è sempre disinteressato e il cui impegno internazionalista cela un opportunismo talora cinico (anche se mai quanto quello cinese).
Sta di fatto che, dovendo combattere con poche migliaia di uomini un’intera coalizione di Stati, sorretta e guidata dalla maggiore potenza occidentale, l’FPLP non può evitare di inserirsi in un arco di alleanze altrettanto articolato. Ma il suo ruolo, come quello di Israele sull’opposto versante, non è passivo né subalterno. Come lo Stato sionista alimenta e difende le forze conservatrici di tre continenti, cosi l’FPLP, in forma del tutto speculare e di propria iniziativa, apre i campi di addestramento del Libano ai militanti dei principali movimenti di guerriglia del Terzo Mondo (86). Il confronto col nemico assume cosi dimensioni che non è esagerato definire titaniche. Agenti del Mossad percorrono ogni angolo della terra alla ricerca di capi della resistenza palestinese da sopprimere (vittima illustre di simile caccia all’uomo sarà, tra le file del Fronte, Ghassan Kanafani, assassinato con la nipote nelle vie di Beirut 1’8 luglio 1972). Dal canto loro, i fedayin di Habash iniziano ad attaccare direttamente – sulle prime in forma incruenta e puramente dimostrativa – i paesi occidentali che accordano a Israele il loro sostegno.
Rientra in questo contesto la serie dei dirottamenti aerei – culminata con quello, clamoroso, iniziato il 6 settembre 1970 e conclusosi con la distruzione di quattro velivoli (uno svizzero, uno inglese e due statunitensi). La reazione dell’Occidente, malgrado l’assenza di vittime, è rabbiosa – in flagrante contrasto, sia detto per inciso, con l’indifferenza manifestata nei riguardi dei continui bombardamenti israeliani sui campi profughi situati in Libano, che causano invece innumerevoli perdite umane (87). Lo stesso si può dire per il temporaneo sequestro degli ospiti stranieri di due alberghi di Amman, nel giugno 1970, operato al fine di porre termine alle rappresaglie dell’aviazione di re Hussein contro i rifugiati palestinesi in Giordania (88).
Formalmente condannata dall’OLP (che giunge a sospendere per qualche mese il Fronte), la tattica dell’attacco diretto ai paesi che armano Israele non tarda in realtà a contagiare le altre formazioni guerrigliere. L’organizzazione Settembre Nero, collegata a un’ala di Al-Fatah, attua il 18 maggio 1972 un dirottamento aereo che si conclude con l’uccisione di tre fedayin. Seguono altre azioni, tra cui il sequestro (sfociato in un massacro generale) degli atleti di Israele partecipanti alle Olimpiadi di Monaco – giustificato con l’illegittimità di una rappresentanza atletica proveniente da un paese sottratto ai nativi (89).
Dal canto proprio, lo Stato di Israele reagisce alle ferite inflittegli versando torrenti di napalm (da aerei di fabbricazione europea o statunitense) sugli attendamenti dei profughi della Palestina, dovunque essi sorgano. Lungo tutto il 1972 la guerra si imbarbarisce progressivamente. Il 26 febbraio la fanteria e l’aviazione israeliane compiono un raid punitivo nel Libano meridionale, uccidendo undici civili e ferendone una cinquantina. Il 30 maggio tre militanti dell’Armata Rossa giapponese – un gruppetto di ispirazione trotzkista – scendono per conto dell’FPLP all’aeroporto israeliano di Lod aprendo il fuoco sulla folla. I morti sono 28 (inclusi due membri del commando), i feriti oltre 90. Motivo dell’attentato, secondo il comunicato del Fronte (90), vendicare i tre dirottatori di Settembre Nero uccisi sempre a Lod 18 giorni prima e scoraggiare il turismo in Israele. Quale rappresaglia, il 30 maggio mezzi corazzati israeliani, scortati da una squadra di Mirage, attaccano i campi profughi del Libano, uccidendo 48 rifugiati e ferendone 55. Una nuova incursione, condotta nei giorni successivi alla strage di Monaco, provoca tra gli esuli altre 200 vittime civili. Parallelamente, proseguono le esecuzioni individuali da parte degli agenti del Mossad. Dopo Ghassan Kanafani è Wail Adel Zuaiter, militante di Al-Fatah e rappresentante dell’OLP in Italia, a essere assassinato a Roma il 16 ottobre.
La lotta tra gli antichi abitatori della Palestina e i nuovi occupanti non conosce ormai confini.
NOTE:
73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.
74) Cfr. F. Halliday, Il governo conservatore inglese e il Golfo Persico, in “Quaderni Piacentini”, 1971. n° 44-45, p. 110.
75) “La rivoluzione palestinese, malgrado i suoi errori, è stata capace di provare davanti a tutto il mondo che esiste una causa, la causa di un popolo che non vuole arrendersi a nessun prezzo, malgrado tutte le cospirazioni ordite contro di lui da 50 anni, e questo persino il nemico deve riconoscerlo”. G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 13.
76) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit. , pp. 243-244.
77) Cfr. il volume Panthères Noires d’Israël, Paris, 1975.
78) Su questo partito cfr. D. Meghnagi, op. cit., pp. 109 ss.
79) Ivi, p. 147; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279 ss. Cfr. anche G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 22.
80) Cfr. PFLP, Internal rules and regulations, cit, p. 122 (art. l).
81) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 11-13.
82) Cfr. G. Valabrega, Medio Oriente. Aspetti e problemi, Milano, 1980, pp. 18 ss.
83) Cfr. F. Halliday, La politica di Washington nel Medio Oriente, in ‘Quaderni Piacentini’, 1974, pp. 7-14.
84) Per un esame della politica cinese nei confronti dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo cfr. G. Chaliand, Mythes révolutionnaires, cit., pp. 237-243. Il punto di vista del Fronte Popolare è espresso nell’articolo Full support to the Vietnamese revolution, in “PFLP Bullettin”, 1979, n° 25.
85) G. Habash, No al negoziato e a uno Stato provvisorio, in OLP, Al- Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 274- 275.
86) Ad esempio al nucleo originario del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Cfr. J. Ziegler, op. cit., p. 105.
87) Commenta Habash: “Per quanto riguarda i dirottamenti di aerei, a parte quello di Zurigo che ha fatto due vittime (dei nostri, peraltro) noi ci siamo sempre preoccupati della sicurezza dei passeggeri. Nessun occidentale ha pagato alcunché a causa di essi. ( … ) Evidentemente abbiamo violato il diritto internazionale, ma si trattava di aerei israeliani o di compagnie particolarmente legate a Israele o comunque di noti alleati del sionismo. ( … ) Se in Occidente sono stati deplorati o hanno fatto tanta impressione, tra i palestinesi e tra le masse arabe in generale, i dirottamenti sono stati visti con simpatia; ed è questo che conta per noi”. G. Chaliand, La. Resistenza Palestinese, cit., pp. 185-186.
88) Cfr. L’opuscolo di G. Habash, Our code of morals is our revolution, s.l. (ma Amman), 1970, che riproduce il discorso rivolto dal leader dell’FPLP agli stranieri sequestrati, al momento di rimetterli in libertà.
89) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 339-340. Cfr. anche G. Mury, Septembre Noir, Paris, 1973.
90) Riprodotto in C. Moffa, op. cit., p. 120.
(5-FINE)