di Valerio Evangelisti
Logicamente, non è tutta la piccola borghesia radicale a impegnarsi nella costruzione di un’avanguardia proletaria, ma solo una frazione di essa – distinzione politica che, nel plurisegmentato quadro della resistenza palestinese, corrisponde a una speculare distinzione organizzativa. Quanto vale per il Fronte Popolare o per il Fronte Democratico non vale invece per Al-Fatah, per Al-Saiqa (gruppo addestrato dai siriani e rigidamente sottomesso alla loro tutela) o per l’FP-CG. Cosi come solo una frazione del proletariato palestinese si lascia conquistare dall’educazione all’autonomia avviata dall’FPLP. Ciò non toglie che la ‘proletarizzazione’ delle istanze dirigenti del Fronte venga perseguita con notevole efficacia. Agli inizi del 1970 Gérard Chaliand, un giornalista e saggista francese, visita una scuola quadri dell’FPLP nei pressi di Amman e si intrattiene con una sessantina di allievi. Constata che “l’età media è sui venticinque anni. Gli operai e i contadini poveri sono circa un terzo. Metà sono intellettuali o semi-intellettuali, maestri elementari e studenti. Il resto è costituito da impiegati, artigiani e piccoli commercianti” (57).
La piccola borghesia, in particolare nei suoi settori colti, continua dunque a prevalere, ma già si scorgono i primi segni della trasformazione in atto. Le realizzazioni decisive investono però il rapporto tra il Fronte (ma ormai potremmo dire il partito, visto che l’MNA è in via di estinzione) e le masse. Chaliand osserva che nelle località giordane in cui sorgono sedi del Fronte, gli uomini di Habash aiutano i contadini nei lavori agricoli, forniscono loro assistenza medica gratuita, danno vita a organizzazioni incaricate di migliorarne il tenore di vita. Lo stesso accade nelle zone industriali, in cui l’FPLP fruisce di un maggiore radicamento. Qui i fedayin spingono la popolazione a creare i primi sindacati, promuovono scioperi, tentano con successo di elevare i salari operai o bracciantili. Inoltre formano sezioni operaie, gruppi giovanili, milizie femminili (58) – novità, questa, realmente sconvolgente nel contesto della cultura araba, in cui alle donne è assegnato un ruolo rigorosamente subalterno.
In definitiva il Fronte Popolare, a differenza di Al-Fatah (i cui ranghi, in nome del principio della non ingerenza, sono aperti ai soli palestinesi), cerca di integrarsi nel territorio umano in cui si trova ad agire, perseguendo un ambizioso disegno di modernizzazione tanto dei rapporti politici quanto dei rapporti sociali. Si sforza cioè di modellare un proletariato non solo cosciente e combattivo, ma anche culturalmente svincolato dall’opprimente peso della tradizione religiosa (ivi compresa l’impostazione antisemita della lotta al sionismo (59). Rivoluzione sociale e rivoluzione culturale devono quindi intersecarsi a ogni passo. Progetto coraggioso, che trova il proprio più eloquente simbolo in Leila Khaled – la giovane comandante del Fronte che il 16 settembre 1970 si rende protagonista, a Londra, di un tentato dirottamento aereo (60). Per l’Occidente è un atto criminoso, ma per la società araba – palestinese e non – è un traumatico fendente inferto alla catena di pregiudizi e consuetudini retrive da cui è avviluppata.
Parallelamente, l’FPLP tenta di consolidare la capacità di autogoverno delle classi subalterne arabe, senza distinzione di nazionalità. Riferisce Chaliand, recatosi a visitare la valle di Ghor, in cui sorge una base del Fronte Popolare:
“Un grosso proprietario che non si faceva mai vedere nel villaggio aveva un appezzamento di dieci dunam (un ettaro) a maggese: i fedayin lo indussero ad accettare che i contadini, con l’aiuto e la protezione di alcuni di loro, coltivassero quel suo campo, dandogli in cambio una parte del raccolto. Tutto questo avveniva all’inizio dell’anno: alcune settimane più tardi il proprietario regalava il campo ai fedayin, e da allora non si è più fatto vivo. Si formò allora un comitato di contadini composto di tre persone, elementi dell’organizzazione popolare del Fronte; a loro si affiancarono due fedayin. Ogni dieci giorni, i problemi che sorgono a proposito della lavorazione del campo vengono discussi nel corso di una riunione del comitato, che avviene alla presenza dei responsabili della base. Una ventina di contadini, dopo aver coltivato i propri poderi, si recano a lavorare nel campo comune e poi riceveranno una quota del raccolto proporzionale al lavoro prestato. Altre quote andranno al Fronte e ai membri del comitato” (61).
Un’esperienza di gestione cooperativa limitata a un podere di un ettaro può apparire trascurabile. Rende però l’idea della complessità del progetto dell’FPLP, teso non a una semplice estensione della lotta armata, ma a rendere il movimento di liberazione nazionale cerniera di un diretto trapasso da rapporti di produzione feudali a forme produttive socialiste – la cui radicalità egualitaria non vada a scapito né dell’efficienza, né della necessaria gradualità del processo di maturazione dei lavoratori. Per il Fronte Popolare, cosi come per l’intera sinistra palestinese, la lotta armata è elemento determinante ma non momento esclusivo. Altrettanto importante è la forza dell’esempio, l’azione pilota, la costruzione di modelli attraverso il cui potere d’attrazione sia possibile innescare lo spontaneo sgretolamento delle forme sociali oscurantiste.
Il tutto in relazione non alla sola questione palestinese, ma al complesso della cultura e della società arabe. Come scrive Habash, “la grande lezione che noi dobbiamo trarre da quanto è accaduto dal 1967 fino a oggi, la lezione prima e fondamentale è che la rivoluzione palestinese non può essere vittoriosa se non diviene parte integrante della rivoluzione delle masse arabe in ogni angolo del nostro mondo arabo. La forza della nazione araba, le masse della nazione araba costituiscono la forza capace di vincere” (62). Considerazione che potrebbe essere rovesciata. Non può esistere rivoluzione araba che non faccia perno sulla rivoluzione palestinese (il che spiega, tra l’altro, la dissoluzione dell’MNA contestualmente alla crescita dell’FPLP). Solo un popolo che ha assistito alla totale distruzione delle proprie strutture sociali, constatandone cosi l’intrinseca debolezza, e che si è visto proiettare violentemente in un presente senza radici nel passato, può raggiungere una disinibizione culturale tale da essere indotto non a ripristinare l’antico, ma a battersi per una nuova e diversa società.
La dispersione territoriale dei palestinesi consegue dunque un duplice risultato. Da un lato conferisce alla loro identità di nazione una concretezza soggettiva del tutto inedita, che sconvolge i piani di estinzione culturale elaborati dal nemico (come a suo tempo – ironia della sorte – era avvenuto per gli ebrei, trasformatisi da comunità religiosa in popolo secondo percorsi interamente soggettivi). D’altro lato ne fa gli agenti di un rinnovamento tumultuoso delle comunità ospitanti. Ecco perché, nella sinistra palestinese, nazionalismo e rivoluzione sociale si coniugano a pieno diritto. Ecco altresì perché, in Medio Oriente, una sinistra con robuste fondamenta deve necessariamente avere radici nazionaliste. L’emancipazione popolare va di pari passo con la costruzione di un popolo.
E’ facile, a questo punto, intuire la stretta similitudine che vincola il movimento rivoluzionario palestinese alle altre forze di liberazione del Terzo Mondo, e al tempo stesso la singolarità della sua fisionomia. Per quanto concerne il primo aspetto, va tenuto in considerazione un dato basilare. Non vi è praticamente movimento di guerriglia degno di nota che, nel corso del suo sviluppo, non operi per sottrarre all’avversario porzioni di territorio, sottoponendole per periodi più o meno lunghi al proprio controllo (63). In queste zone l’esercito di liberazione procede poi alla costruzione di proprie infrastrutture – scuole, ospedali, ecc. – fino a dar vita a un autentico sistema politico-amministrativo autonomo, totalmente svincolato da quello dominante e tutelato dalla presenza armata dei ribelli. Può trattarsi di un’intera regione, di un territorio ristretto ancora conteso (64) o, come a Cuba nel ’58-59 o nel Salvador degli anni ’80, di un Fronte in movimento (65). Sta di fatto che è nelle ‘zone liberate’ che la guerriglia ‘si fa Stato’, forgiando l’embrione della nuova società rivoluzionaria e coagulando attorno a essa il consenso popolare (66).
L’FPLP, e la sinistra palestinese in genere, operano alla stessa maniera. Solo che la loro peculiare situazione, che vede la resistenza dislocata esternamente al territorio nazionale occupato, impone di costruire una controsocietà – la ‘zona liberata’ – nel cuore di paesi stranieri. Il che rende inevitabile il conflitto con le autorità degli Stati ospitanti, poco propense a veder sorgere aree (per quanto di estensione minima) di diverso orientamento e politicamente autonome entro i propri confini. Di qui quella ‘ingerenza’ a torto rimproverata al Fronte Popolare e al Fronte Democratico, in occasione della crisi giordana del ’70, da Al-Fatah e dai commentatori allineati alle tesi dei nazionalisti ‘puri’ (67). Proprio la costante inframmettenza dell’FPLP e dell’FDLP permette di classificarli tra i movimenti di liberazione nell’accezione anche sociale del termine. La tattica delle ‘zone liberate’ rappresenta infatti uno dei fondamentali criteri di collocazione in questo senso.
E’ tuttavia innegabile che il tentativo di dar vita a ‘basi rosse’ in territorio giordano sia all’origine dei massacri del ‘settembre nero’ 1970. Ma l’esito catastrofico dell’azione della sinistra palestinese, in tale occasione, dipende non dalla natura del disegno di cui si fa portatrice, ma dalle difficoltà (spesso sottovalutate) incontrate nella sua traduzione in pratica. Difficoltà di ordine sia oggettivo che soggettivo. Tra le prime va ad esempio annoverata la condizione minoritaria della sinistra all’interno della resistenza. E’ vero che il Fronte Popola-re è secondo solo ad Al-Fatah quanto a numero di aderenti, ma la somma di tutti i gruppi o gruppuscoli semplicemente nazionalisti (quando non manovrati da Siria o Iraq) rende il divario assai più ampio, ostacolando un progetto che, per conseguire risultati, dovrebbe essere globale (68).
Tra le difficoltà di natura soggettiva spicca invece il differente livello di coscienza delle masse palestinesi in rapporto a quelle giordane, a tutto vantaggio delle prime. Ora, un presupposto ineludibile alla creazione di ‘zone liberate’ in territorio straniero è l’acquisizione della solidarietà delle popolazioni locali. In molti casi il Fronte Popolare riesce effettivamente a coinvolgere il proletariato giordano nella lotta contro re Hussein, ma altrettanto spesso ne sopravvaluta la malleabilità culturale e il grado di consapevolezza, producendosi – tanto a livello di slogan che sul piano del comportamento – in troppo premature sfide a consuetudini inveterate, senza una preventiva campagna di sensibilizzazione graduale. Nel corso del suo terzo congresso (Beirut, 6-9 marzo 1972), il Fronte pronuncerà in proposito un’impietosa autocrttica:
‘Vari gruppi di sinistra commisero errori infantili, fornendo alle autorità altrettanti pretesti per seminare confusione e giustificare le proprie lagnanze localmente, nel mondo arabo e sul piano internazionale. Alcuni furono errori sul tipo di parole d’ordine adottate, e nella pratica che ne risultò (come lo slogan ‘tutto il potere alla resistenza’, che isolò la resistenza dalle masse giordane). Altri furono errori nella prassi e nella valutazione delle conseguenze, come nel caso dell’antagonistico e provocatorio atteggiamento di sfida assunto nei confronti delle tradizioni e dei costumi delle masse” (69).
Con questo, il Fronte Popolare non intende certamente mettere in discussione punti programmatici basilari, come l’emancipazione della donna araba e la laicizzazione della cultura. Vuole piuttosto condannare il frequente abbandono del metodo dell’esempio, su cui la tattica delle ‘zone liberate’ è interamente fondata, a favore del metodo dell’imposizione, troppo spesso adottato dai fedayin durante tutto l’arco dell’esperienza giordana. Non bisogna reprimere usi e comportamenti diversi da quelli caldeggiati dalla sinistra, ma indurre le masse a modificarli spontaneamente grazie all’azione esemplare di quadri qualificati. Ciò vale anche per quanto concerne il grado di coscienza politica:
‘Veicoli fondamentali di propaganda sono quei membri dell’organizzazione politica che lavorano in profondità tra le masse, conducendo riunioni di gruppo che illustrino al popolo le sue responsabilità e lo chiamino ad assolverle. Essi dimostrano anche al popolo come trasformare i suoi spontanei sentimenti patriottici e di classe in lotta rivoluzionaria – solo metodo capace di soddisfare i suoi scopi e le sue ambizioni” (70).
Ma tutto questo richiede consapevolezza, abilità e abnegazione da parte dei militanti – doti non facili da reperire allo stato spontaneo tra un proletariato privo di una memoria di unità e disciplina. Diviene quindi essenziale la funzione del partito marxista-leninista (assolta, al di là del nome, dal Fronte stesso), non solo quale fucina di quadri preparati, ma anche quale educatore collettivo e raffigurazione esplicativa di una nuova nozione di comunità. E’ il partito marxista-leninista, con la sua struttura di piccolo Stato, che educa un popolo appena uscito dalla disgregante tutela coloniale a farsi società. Cosi come è il centralismo democratico, con la sua ferrea regolamentazione dei diritti e dei doveri, delle attribuzioni decisionali e dei loro limiti, che introduce i migliori elementi di un proletariato ancora ricco di connotazioni feudali a sedi di discussione ‘guidata’ via via più ampie, secondo uno schema razionale di alto valore pedagogico altrimenti sconosciuto. Senza partito marxista-leninista, senza cioè una salda avanguardia consapevole dei fini e internamente organica, non solo la tattica delle ‘zone liberate’ sarebbe improponibile, ma non sarebbe nemmeno configurabile una transizione rapida dal sottosviluppo alla modernità. Di qui la struttura rigidamente leninista, che, al pari di molti movimenti del Terzo Mondo, caratterizza l’FPLP. Non si tratta solo di potenziare l’efficacia della lotta. Si tratta di formare i quadri dirigenti della società futura, di cui il partito tratteggia il profilo – per cui il militante deve essere assai più di un semplice propagandista. Recita in proposito lo statuto del Fronte:
“Un partito politico rivoluzionario dovrebbe essere avanguardia e guida delle masse. A tal fine, i suoi aderenti devono raggiungere un livello di coscienza, di volontà di lotta e di correttezza di comportamento adeguati allo scopo. Ne consegue che se un membro del partito perde questa caratteristica essenziale, è il partito intero a perdere la propria capacità direttiva (…). Se scompare il confine organizzativo che separa il membro del partito dal cittadino qualunque, allora il partito ha perduto la sua posizione di avanguardia e di guida nei confronti delle masse” (71).
Simile impostazione è evidentemente dettata, oltre che da quanto si è detto, dai compiti militari che l’organizzazione deve affrontare nel suo assieme. Il Fronte, infatti, a differenza di altre formazioni della resistenza palestinese, non introduce alcuna distinzione tra quadri militari e quadri politici. Dettaglio motivato non solo dalla concezione della guerriglia propria dell’FPLP (non guerra tra eserciti, bensì ‘lotta di popolo’) (72), ma anche dalla peculiare impostazione della lotta armata dettata all’intera resistenza dalla sua dislocazione extraterritoriale.
In questo campo, l’assoluta singolarità della posizione dei fedaytn (e anche la loro grande debolezza) in rapporto ad altri movimenti di liberazione emerge con drammatico rilievo. Operando oltre le frontiere di Israele, la resistenza palestinese non può condurre un’autentica guerra rivoluzionaria (come pare credere l’FPLP, che impropriamente si richiama agli esempi cubano e vietnamita). Il territorio nazionale è interamente occupato da un popolo estraneo e ostile, né i nuclei di palestinesi rimasti in patria possono spingersi oltre la pratica della disobbedienza civile e dell’attentato sporadico. Vi sono, è vero, le centinaia di migliaia di palestinesi che abitano la striscia di Gaza e la Cisgiordania. Ma il cuore dello Stato israeliano risiede entro i confini fissati nel ’47, e non nelle zone conquistate successivamente; mentre lo stesso cuore della resistenza palestinese fino al luglio ’71 si trova in Giordania, e poi in Libano. Non è un caso se la guerriglia nei territori occupati (condotta tra gli altri, con grande abilità, da un militante dell’FPLP soprannominato Guevara Gaza, ucciso nel ’73) cede il posto ad altre forme di azione via via che i fedayin, incalzati dalle controffensive israeliane e giordane, sono costretti ad allontanarsi dalla frontiera.
NOTE:
57) G. Chaliand, op. cit., p. 187.
58) Ivi, p. 182.
59) “La. nostra rivoluzione non ha carattere razzista. Non vuole gettare a mare gli ebrei, come pretendono calunniatori e nemici. La. nostra rivoluzione si batte per una reale alleanza tra tutte le forze oppresse e perseguitate all’interno di Israele, nel cui interesse dev’essere operato un radicale cambiamento rivoluzionario nella regione. L’obiettivo strategico della rivoluzione è uno Stato democratico e amante della pace, legato alla nazione araba e al movimento progressista mondiale”. G. Habash, The revolutionary task, s. l., s. d. (ma Beirut, 1973), pp. 8-9. Espressioni analoghe ricorrono in tutti i documenti de1I’FPLP, a cominciare dall’articolo 9 dello statuto.
60) Sulla personalità di Leila Khaled, divenuta in seguito dirigente dell’organizzazione femminile dell’FPLP, cfr. il volume da lei stessa scritto: L. Khaled, Mon peuple vivra, Paris, 1973.
61) G. Chaliand, op. cit., p. 183.
62) G. Habash, Nous vaincrons, s. l., s. d. (ma Beìrut 1973), p. 30.
63) Cfr. J. Ziegler, op. cit., pp. 80 e 332-333.
64) E’ il caso della striscia di Gaza, che per alcuni anni dopo l’occupazione del ’67 vede gli uomini dell’OLP assumere ogni notte il controllo del territorio, esercitato dalle forze israeliane nelle ore di luce.
65) Per il caso di Cuba, cfr. E. Che Guevara, Oeuvres, voI. III, Souvenirs de la guerre révolutionnaire, Parìs, 1977, capp. XXV e XXVI.
66) Ciò non vale solo per il Terzo Mondo. E’ l’esistenza di aree ‘liberate’ urbane che, in Europa, consente all’Irish Republican Army di condurre con continuità la propria battaglia contro l’esercito inglese – mentre l’impossibilità di costruire analoghe retrovie condanna altri gruppi armati europei al velleitarismo.
67) Cfr. in particolare R Ledda, op. cit.
68) “Questa atomizzazione del movimento palestinese in una decina di organizzazioni è di per sé singolare, se non unica, nella storia dei movimenti di liberazione nazionale, soprattutto se si pensa che il popolo palestinese supera appena la cifra di tre milioni di persone nel quadro di un gruppo etnico, linguistico e religioso relativamente omogeneo”. G. Chaliand, Mythes révolutìonnaìres du Tiers Monde, Paris, 1979, p. 130.
69) PFLP, Tasks of the new stage. The political report of the third national Congress of PFLP, Beirut 1973, p. 36.
70) Ivì, p. 61.
71) PFLP, InternaI rules and regulations, pubblicato in appendice a Tasks of the new stage, cit., p. 129.
72) Ivi, p. 123 (art. 6).
73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.
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