di Valerio Evangelisti
La replica dell’MNA-FPLP a simili obiezioni, anche in virtù di un quindicennio di esperienza quale organizzazione nazionalista e panaraba, è, per bocca di Habash, puntuale e senza equivoci:
“Naturalmente, la struttura di classe in una comunità sottosviluppata differisce da quella delle comunità industriali. In una comunità industriale c’è una forte classe capitalistica contrapposta a una folta classe operaia, per cui la lotta fondamentale, in simili comunità, è un acuto scontro tra queste classi. Tale quadro non si applica alle comunità sottosviluppate. E’ vero. Ma le comunità sottosviluppate sono anche comunità classiste, nelle quali vi sono classi dominanti sfruttatrici rappresentate dal colonialismo, dal feudalesimo e dalla borghesia. Dall’altro lato le classi sfruttate sono rappresentate dagli operai e dai contadini Ogni classe ha una propria posizione riguardo al corso della storia e nei confronti della rivoluzione.
Le classi superiori sono conservatrici, rifiutano il cambiamento e si oppongono al corso della storia, ma le classi inferiori sono rivoluzionarie, ricercano il cambiamento e sospingono la storia lungo il suo corso dialettico in avanti. Di conseguenza, la discussione sulla particolare natura delle comunità sottosviluppate è scientifica nella misura in cui scientificamente si limita a sottolineare la peculiare situazione di classe esistente in queste comunità, e la differenza con la situazione di classe nelle comunità avanzate. D’altro verso, essa diviene poco scientifica e condizionata da pregiudizi se trascura la questione sociale in queste comunità, o minimizza l’importanza della differente posizione di ogni classe nei confronti della rivoluzione” (31).
Da cui si vede come l’MNA-FPLP, riflettendo sulle ragioni delle molteplici sconfitte arabe, non solo approdi al marxismo, ma elabori un’analisi marxista originale e autonoma dal retaggio terzinternazionalista. Formulare l’intreccio indissolubile tra lotta sociale e lotta per l’indipendenza, ponendo in rilievo la struttura classista delle società sottosviluppate, vuol dire infatti rompere con un’annosa tradizione teorica che at-tribuisce un ruolo centrale alle borghesie nazionali del Terzo Mondo, escludendo o posticipando un contenuto di classe nella lotta di liberazione. Non è un caso se, in quegli anni, l’Unione Sovietica circoscrive il proprio sostegno ai regimi arabi ritenuti ‘progressisti’ (Egitto in primo luogo), trascurando le forze di resistenza, mentre quasi tutti i partiti comunisti ‘ufficiali’ riconoscono solo ad Al-Fatah il ruolo di avanguardia del risveglio palestinese.
L’originalità analitica dell’FPLP – che si manterrà intatta anche quando il Fronte, accantonando l’iniziale ispirazione maoista, perseguirà rapporti amichevoli con l’URSS – si giustifica alla luce del particolare clima internazionale in cui ha luogo la trasformazione ideologica degli Harakyin. La conversione dell’MNA al marxismo e la fondazione del Fronte Popo¬lare si collocano infatti, temporalmente e politicamente, in quello he potremmo definire il ‘ciclo mondiale di lotte’ del 1967-68. Per quanto la cosa possa stupire, esiste un Sessantotto arabo cosi come esiste un Sessantotto francese, tedesco, giapponese, italiano o statunitense. Gli impulsi motori sono gli stessi – rivoluzione culturale cinese, sacrificio di Che Guevara in Bolivia, guerra nel Vietnam. Ma se in Europa o in Giappone le conseguenze si esauriscono inizialmente in un ringiovanimento della sinistra e in una serie di mutamenti cultural-comportamentali (32), nelle aree del Terzo Mondo in cui è in atto una guerriglia antimperialista le ripercussioni sono più profonde. Gli esempi di Cuba, del Vietnam e della Cina dimostrano tangibilmente alle avanguardie anticolonialiste l’obsolescenza delle tesi che disgiungono liberazione nazionale e lotta di classe. Nello specifico, Cuba fornisce il modello di un movimento nazionalista che giunge ad abbracciare il socialismo, condannando alla marginalità i partiti comunisti latino-americani eredi della Terza Internazionale. Il Vietnam dimostra la possibilità di tenere in scacco l’imperialismo con una guerra di popolo che include il marxismo nel proprio arsenale di armi. La Cina addita il nesso tra rivoluzione sociale e rivoluzione culturale, oltre a fornire, tramite gli scritti di Mao, dettagliate analisi della struttura di classe e della guerra di guerriglia in una società sottosviluppata. La svolta marxista degli Harakyin si produce insomma allorché, su scala mondiale, fa la propria apparizione un marxismo tradotto in forme adeguate alle realtà del Terzo Mondo.
Ma esiste un terzo elemento, peculiarmente arabo, che rende ragione della conversione ideologica dell’MNA-FPLP, e la cui individuazione costituisce probabilmente il maggiore apporto di Habash alla rivoluzione palestinese. Come lo stesso Habash non manca di sottolineare ripetutamente (33), l’efficacia dell’azione della resistenza si smussa da principio contro lo scoglio di una mentalità araba irrazionale, non aristotelica, emotiva, irta di incrostazioni mistiche (sulle cui origini non è qui dato di indagare). Quella stessa mentalità che fa sì che la poesia sia il genere letterario più coltivato nel mondo arabo (il culto della parola risale ai primordi di quella civiltà) (34), ma che impedisce un’individuazione chiara e senza sbavature della fase, dei compiti, delle forze in campo. Le istanze morali, le reazioni indignate, gli impulsi di fierezza prevalgono spesso sull’analisi e sull’osservazione ragionata, dando luogo ad azioni tanto impetuose quanto incaute, confuse, prive di prospettive a lungo termine (la guerra del giugno ’67 ne è un buon esempio). Anche la politica, in altri termini, si fa poesia, con tutte le conseguenze negative del caso. La grande intuizione di Habash consiste nello scorgere nel marxismo la scorciatoia più diretta, il veicolo più pratico e più sicuro per sottrarre la rivoluzione palestinese al dominio dell’impulso e consentirle di accedere a una razionalità di tipo occidentale (35). Si spiega cosi l’apparente schematismo della produzione teorica dell’FPLP, caratterizzata dall’essenzialità, dalle proposizioni scarne, dalle classificazioni insistenti, dalle enunciazioni elementari. In realtà, la struttura schematica cela una riflessione marxista niente affatto banale, ma anzi raffinata e creativa. Il fatto è che, per mezzo della schematizzazione, Habash tenta di imporre ai suoi fedayin una disciplina di pensiero, di costringerli a una razionalità e a un rigore logico contrapposti al pensiero arabo divagante della tradizione. Il marxismo è dunque per l’FPLP il mezzo per operare un’autentica sovversione culturale, fondata sull’introduzione di forme laiche e scientifiche di ragionamento nella lotta contro un nemico che nel pensiero razionale ha una delle proprie armi più efficaci.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nasce dalla confluenza di tre gruppi armati (36). Il primo. I Giovani della Vendetta, altro non è che un’appendice guerrigliera palestinese dell’MNA, già attiva alla vigilia della ‘guerra dei sei giorni’. Gli Eroi del Ritorno sono invece un raggruppamento costituito fin dal ’66 sotto l’egida dell’OLP (ancora sottoposta all’influenza egiziana), ma presto conquistato alle tesi del Movimento Nazionalista Arabo.
Natura peculiare ha il terzo gruppo, denominato Fronte di Liberazione della Palestina. Sorto nel 1964, raccoglie sulle prime ufficiali nazionalisti provenienti da vari eserciti arabi, sotto la direzione di Ahmed Jibril e Ahmed Za’rur, cui si aggiungono combattenti il cui unico fine è la lotta armata antiisraeliana (37). Composizione che determina un orientamento prettamente militarista, privo di contenuti politici spiccati e suscettibile di condizionamenti da parte dei regimi impegnati, almeno nominalmente, a contrastare Israele. L’affluenza di simili elementi nel Fronte Popolare si spiega alla luce dei presupposti che inizialmente presiedono alla sua costituzione. Nelle intenzioni dei promotori (38), i compiti di elaborazione ideologica e di guida politica devono rimanere saldamente affidati all’MNA, la cui prospettiva globale e la cui caratterizzazione politica consentono la stesura di piani che oltrepassano la specifica questione palestinese. Invece il Fronte, come indica il nome stesso, dovrebbe essere una coalizione di organizzazioni distinte, unite da una comune strategia militare e da finalità politiche analoghe, per sommi capi, a quelle adottate dall’MNA in relazione alla Palestina.
Tale suddivisione dei compiti non regge alla prova dei fatti. Da un lato l’evidente centralità della questione palestinese fa sì che l’MNA dedichi a essa tutte le proprie attenzioni. D’altro lato, la stretta collaborazione tra Movimento Nazionalista e Fronte Popolare rende quest’ultimo largamente permeabile alle tesi ideologiche e strategiche dibattute dgli Harakyin. L’orientamento marxista dell’MNA non può dunque non contagiare il Fronte, e soprattutto l’ala facente capo a Nayef Hawatmeh – uno dei dirigenti politicamente più preparati e più sensibili all’evoluzione del marxismo internazionale.
E’ soprattutto grazie ad Hawatmeh che il Fronte perde il proprio carattere composito, sovrapponendosi e sostituendosi all’MNA quale nucleo politico con funzioni di partito. Al primo congresso dell’FPLP, svoltosi segretamente in Giordania nell’agosto del ’68, la frazione da lui guidata travolge le cautele di Habash – favorevole a un’ideologizzazione graduale – e propone un documento programmatico di chiara impostazione marxista (e di taglio, per cosi dire, ‘sessantottesco’). Bersaglio fondamentale del documento, più tardi noto come ‘Manifesto d’agosto’, sono i regimi arabi – tutti i regimi arabi – che hanno cinicamente utilizzato la resistenza palestinese per fini di stabilità interna e di prestigio estero. Atteggiamento che tra l’altro ha significato l’imposizione di una tattica militare tale da sottrarre alle masse proletarie le armi per la propria liberazione:
“La vera causa della sconfitta del ’67 dev’essere ricercata nel rifiuto, da parte dei regimi arabi, della guerra popolare. In realtà, la piccola borghesia temeva tanto le forze della reazione quanto quelle delle masse popolari. Per questo ha adottato – sul piano economico – solo delle mezze misure, e costituito – sul piano militare – solo degli eserciti regolari, evitando di armare le masse per la lotta liberatrice. (…) Ma il metodo della guerra popolare, come quello che è stato adottato in Vietnam e a Cuba, è la sola via che può portare alla vittoria dei paesi sottosviluppati di fronte alla superiorità tecnica e culturale dell’imperialismo e del neocolonialismo. Il suo rifiuto significa la sottomissione al sionismo e al neocolonialismo diretto dagli Stati Uniti. nemico principale di tutti i paesi sottosviluppati” (39).
Ma simile consapevolezza è mancata anche alle organizzazioni di resistenza, Fronte Popolare incluso. Certo, i movimenti di guerriglia non hanno delegato agli eserciti nazionali l’offensiva contro Israele. Hanno però evitato di scontrarsi con i regimi arabi, la cui natura oscilla tra il puro e semplice oscurantismo feudale, la subordinazione all’imperialismo e un ambiguo progressismo piccolo borghese, che non prevede alcuna mobilitazione delle masse popolari. La parola d’ordine della “non ingerenza negli affari interni degli Stati arabi”, propria soprattutto di Al-Fatah ma sostanzialmente adottata da tutte le formazioni guerrigliere, tende a cristallizzare simile quadro, ostacolando e indebolendo i singoli movimenti di opposizione nazionali. Ma soprattutto trascura il fatto che gli Stati arabi intervengono invece di continuo negli affari palestinesi, proponendo e imponendo le proprie soluzioni – per cui “non ingerenza” può paradossalmente giungere a significare “una sorta di non intervento del movimento di resistenza negli affari palestinesi” (40). Impostazione evidentemente aberrante, che va duramente combattuta. La molteplicità dei nemici – imperialisrno, sionismo, reazione araba – comanda di articolare la lotta su più fronti, e di proporre soluzioni rivoluzionarie globali per la regione. A questo fine è però preliminarmente necessario strappare la causa della rivoluzione araba e palestinese dalle mani della borghesia, affidandola a operai e contadini:
“Solo queste classi sono rivoluzionarie, perché non hanno nulla da perdere se prendono le armi e combattono. Al contrario, hanno tutto da guadagnare: la loro terra e le loro case. Quelli che presero le armi, dopo la guerra di giugno, non furono certo i figli dei proprietari feudali e dei grossi borghesi, bensì i figli degli operai e dei contadini salariati (…). Certo, l’unità nazionale palestinese è una necessità, ma solamente se porta alla liberazione. L’unità è quella di tutte le classi e le forze politiche, ma sotto la direzione delle classi rivoluzionarie e patriottiche che presero le armi contro l’imperialismo nel corso della storia della Palestina” (41).
Le posizioni del gruppo stretto attorno ad Habash non sono dissimili, anche se non mancano, come si vedrà, sensibili differenze analitiche. Solo che la leadership storica dell’MNA concepisce la transizione dal nazionalismo al marxismo come un processo graduale, affidato, almeno per quanto concerne l’FPLP, a una paziente opera pedagogica condotta dal vertice nei confronti di una base ancora ideologicamente tentennante. Lo stesso vale per i rapporti con i diversi regimi mediorientali. Eccetto che in Iraq, gli Harakyin sono perseguitati quasi dovunque, e vari dirigenti dell’MNA hanno trascorso anni nella clandestinità e subito lunghi periodi di detenzione. Lo stesso Habash nel ’69 verrà arrestato e condannato a morte dal governo siriano, e dovrà la libertà e la vita a un’azione di commando condotta dai suoi uomini. L’atteggiamento della dirigenza del Movimento Nazionalista nei confronti dei regimi arabi, fatta eccezione per alcuni elementi effettivamente schierati a destra, non può dunque essere particolarmente amichevole. Tuttavia è indubbia una notevole cautela iniziale, volta sia a evitare ulteriori persecuzioni ai danni delle varie sezioni nazionali, sia a non alienare i militanti meno consapevoli.
L’iniziativa di Hawatmeh – che riscuote il consenso della maggioranza dei congressisti, sorprendendo un po’ tutti (42) – tende invece ad accelerare i tempi della trasformazione del Fronte in partito marxista-leninista. La reazione della componente puramente militarista dell’FPLP non si fa attendere. Nell’ottobre del 1968 il gruppo di Ahmed Jibril si separa dal Fronte popolare, accusando tanto Hawatmeh che Habash di sottovalutare la necessità del sostegno degli Stati arabi e di voler innescare un conflitto generalizzato, tale da indebolire la lotta contro Israele. I dissidenti danno vita a una nuova formazione denominata Fronte Popolare – Comando Generale, praticamente apolitica (malgrado un’autodefinizione socialista di maniera) e largamente permeabile all’influenza dei paesi ‘amici’ (Siria in primo luogo) (43).
Ma la scissione della ‘destra’ non calma le acque tra l’ ‘ala sinistra’ e il resto del Fronte. Anzi, i dissidi tra il ‘gruppo Habash ‘ e il ‘gruppo Hawatmeh’ si aggravano fino a condurre alla pratica solidificazione di due organizzazioni distinte, dotate ciascuna di propri corpi dirigenti e di proprie milizie. Oggetto di contesa non sono solo i tempi più o meno lunghi della radicalizzazione in senso marxista, o il tema dei rapporti con i regimi arabi progressisti. Lo scontro si incentra invece sul ruolo stesso dell’FPLP, che Hawatmeh giudica entità obsoleta (al pari dell’ MNA), sul rapporto con i partiti comunisti mediorientali e soprattutto sul giudizio relativo alla funzione della piccola borghesia nella guerra di liberazione (44).
La posizione della direzione storica del Fronte Popolare su quest’ultima questione viene compiutamente esposta nel corso del secondo congresso dell’organizzazione (Amman, febbraio 1969). Nel frattempo, però, la cosiddetta ‘ala sinistra’, dopo una serie di incidenti e persino di scontri a fuoco (45), ha scelto di sancire anche sul piano formale una scissione già operante di fatto, costituendo il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina (FDPLP, o anche FDLP) (46). L’entità del danno, in termini di sottrazione di quadri brillanti e competenti, è desumibile dal commento di Habash all’episodio:
“La scissione ci è costata cara, perché abbiamo perduto della gente molto preparata, dei dirigenti di valore. Ma siamo riusciti a trasformarci anche senza di loro. Se fossero rimasti si sarebbe potuto far meglio. Erano un po’ infantili, un po’ di estrema sinistra, ma se fossero restati si sarebbe andati avanti più rapidamente” (47).
NOTE:
31) PFLP, A strategy, cìt., pp.21-22.
32) Questo per quanto riguarda il 1968. Già nel 1969 i moti di protesta inizieranno a investire le strutture dell’occidente capitalistico, quantomeno in Italia.
33) Cfr. G. Chaliand, op. cit., p.185; PFLP, A strategy, cit., pp. 4-6.
34) Cfr. R. Kalisky, Storia del mondo arabo, vol.I, Verona, 1972, pp. 39-42.
35) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., cap.XIII.
36) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p.235. Cfr. anche PFLP, A strategy, cìt., pp. 131 ss.; G. Chaliand, op. cìt., p. 100.
37) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cìt., pp. 331-332.
38) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., pp. 131-132.
39) Manifesto del primo congresso clandestino, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 286-287.
40) Ivi, p. 288.
41) Ivi, pp. 289-290.
42) Ivi, p. 281.
43) Sul FPCG cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp.331-333.
44) Questi temi sono approfonditi in PFLP, Il Fronte e la questione della scissione (in arabo), Beìrut, 1970, che rappresenta uno dei testi teorici più importanti prodotti dal Fronte Popolare.
45) Ivi, cap. IV.
46) Il manifesto programmatico dell’FDPLP è riprodotto in C. Moffa (a cura di). La resistenza palestinese, Roma, 1976, pp.78-83.
47) G. Chaliand, op. cit., p. 186.
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