di Luca Bortolazzi
Simone Sarasso, Settanta, Marsilio, 2009, pp. 694, € 21,50
Come dice lo stesso autore nella postfazione del romanzo, citando Valerio Evangelisti: “sebbene questo romanzo non abbia pretese storiografiche, il contesto della vicenda è frutto di ricerche piuttosto accurate”. Il risultato è un quadro impressionista in cui da vicino non si vedono che macchie di colore che sembrano messe giù a casaccio, ma mano a mano che ci si allontana, quando lo sguardo abbraccia l’intero dipinto, mano a mano che la trama si dipana, si osserva uno splendido giardino fiorito, oppure la facciata della cattedrale di Rouen o quello che volete voi.
La ricostruzione del periodo più buio che ha attraversato l’Italia (buio nel senso che su molti episodi non è mai stata fatta luce) emerge dall’insieme, dai tanti ruscelli che scorrono per altrettanti versanti fino a fondersi in un fiume immenso. Il fiume è il decennio che Simone Sarasso ha raccontato in questo libro. Ed è plausibile pur essendo frutto di fantasia, perché partendo dagli avvenimenti noti: le stragi, il terrorismo rosso e nero, i governi, Sarasso ha cucito una trama in cui si evidenziano i rapporti tra i servizi americani e quelli italiani, tra questi ultimi e l’eversione nera e in alcuni casi la criminalità pura e semplice, fino alle infiltrazioni nelle colonne brigatiste. Anche se non viene mai nominato con questo nome, Stay behind, Ultor nel libro, incombe come una presenza ossessiva tra le pagine di Settanta. Quello che emerge è che in Italia si è combattuta una delle tante guerre collaterali del più ampio conflitto tra Usa e Urss che va sotto il nome di Guerra fredda.
Nonostante il crescente consenso che aveva l’opposizione, il Partito comunista non sarebbe mai potuto andare al potere perché l’Italia apparteneva all’Occidente, alla sfera d’influenza americana, alla Nato. La penisola: una portaerei nel mediterraneo. Gli Usa non avrebbero rinunciato facilmente alle loro basi militari. Per questo l’Italia era un Paese a sovranità limitata, una democrazia bloccata, finta, di facciata. Ministri comunisti che entravano nel governo e venivano a conoscenza di segreti strategici e militari che avrebbero potuto passare ai sovietici: questo era l’incubo di Kissinger! E questo è il vero motivo per cui molti giovani in quegli anni sono passati alla lotta armata: quando ti accorgi che la democrazia è soltanto un paravento non puoi che uscire dalla legalità e dai metodi democratici.
Ovviamente tutti i torrenti, tutte le trame, tutte le contraddizioni dell’Italia di quegli anni si incontrano nel rapimento e nell’esecuzione di Aldo Moro, vero buco nero che attrae ogni cosa, al quale Sarasso dedica a mio parere le pagine più belle del libro. Molto bella anche l’intera vicenda del giudice Incatenato, che purtroppo però alla fine arriva soltanto a intuire la verità, la voragine che si spalanca sotto i suoi piedi: “lo Stato che fa la guerra allo Stato”. Mi è parsa un po’ debole invece la storia del “Commissario” del cinema che dà di matto e diventa uno spietato persecutore del crimine anche nella realtà. Credo che si possa tranquillamente saltarla senza alterare l’essenza del romanzo.
Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente della scrittura di Sarasso è la pluralità di voci, di gerghi, di inflessioni, di caratteri differenti e contrapposti che riesce a mettere in campo, che si riflette in una grande elasticità della scrittura, in una cifra stilistica del tutto originale.
Tornando alla “vertigine”, io credo che solo quando sapremo che cosa è veramente successo in quei giorni del maggio del 1978, potremo dire di aver superato per sempre gli anni di piombo. Fino ad allora saremo e saremo considerati soltanto “bersagli”.