di Dziga Cacace
Aho, se devi di’ ‘na stronzata, mettete sur cesso, no?
Tomas Milian in Delitto sull’autostrada
103 – Grass – Marijuana Story di Un Belinone, USA 1999
L’alterna fortuna della canapa indiana in occidente, tanto apprezzata da pacifici fumatori quanto osteggiata da isterici governanti: Grass racconta la guerra assurda contro la marijuana e quali costi abbia comportato (in USA). Perché il proibizionismo? Ce lo ricordano candidamente diversi personaggi politici (tra cui Ford, Nixon e Kennedy): per combattere questa piaga servono soldi e gestire soldi significa gestire potere. Ogni volta una campagna moralizzatrice, ogni volta nuovi studi scientifici (che mostrano inesorabilmente che la marijuana sia meno nociva del caffè) e ogni volta esilaranti documentari allarmistici che dovrebbero mostrare quanto sia pericolosa questa “droga” e invece invogliano all’uso. Si arriva agli anni ’80 e non ci vengono risparmiate le facce da fessi di Reagan e Bush padre. Si tace invece su Clinton, il frescone che ha fumato senza aspirare, dice. Seee.
Ben confezionato, povero di testimonianze “parlanti”, ricco di documenti di repertorio, Grass è professionale e freddo come un ghiacciolo in culo. Tolto il personale entusiasmo per un micidiale assolo di batteria di Gene Krupa (artista rovinato per uso d’erba), devo rilevare la totale mancanza di riflessione su ciò che il proibizionismo comporta per tutto l’orbe terracqueo comandato a bacchetta dagli americani: oltre un certo limite il ragionamento si fa difficoltoso anche per lo yankee colto e politicamente aperto e poi, fuori dai confini patrii, evidentemente non gliene frega nulla. Prodotto discreto, insomma, molto d’immagine e poco di sostanza, firmato da un omonimo del mascellone di Beautiful (Ron Moss, magari è lo stesso, e allora sarebbe geniale). Fumiamoci sopra. C’entra niente, ma a futura memoria segnalo i clamorosi video Number One dei Playground, con un robot animato che balla in tutte le maniere, e I’m so crazy, dei Par-T-One vs. INXS, con una pogata da paura in b&w. (Vhs da Tele+; 22/2/01)
105 – La Ville est tranquille di un rigoroso Robert Guédiguian, Francia 2000
Torniamo da Genova e, al volo, finiamo al cinema Nuova Orchidea per l’ultimo Guédiguian. In sala c’è anche Ivano Marescotti che sgranocchia M&M’s. Il film parte con una Gnossienne di Satie e io mi predispongo a godere anche se, visti gli argomenti, da godere ci sarebbe poco. Storia di disagio vero, non le menate esistenziali che si permettono quelli che stanno troppo bene, ma l’angoscia per un lavoro di merda, una figlia drogata, la necessità di prostituirsi, un marito ubriaco, nessun amore intorno. La protagonista (la stessa di Marius e Jeannette) deve lottare contro tutto questo e Guédiguian, lontanissimo dal calore, dall’affetto del film che ho appena citato, riesce a trasferire perfettamente questo senso d’angoscia: le mani che puzzano di pesce, il sudore dei corpi che fanno amore mercenario sotto il sole di Marsiglia, i tremiti di un corpo in astinenza, il pianto di un bimbo che ha fame, lo sguardo vuoto di chi rimpiange un amore perso nella giovinezza. Echi di Izzo in un film corporeo, carnale, fisico, per un cinema essenziale, dove lo sguardo registico è pulito, puro, narrativamente economico, senza alcuna retorica pur sfiorando millanta luoghi comuni. La ville est tranquille mi è piaciuto perché coraggioso, diverso e scostante. Non ha la vendibilità di Loach e neanche la sua prevedibilità, ed è rigoroso. Amerò sempre di più Marius e Jeannette, ma questo è forse ancor più riuscito. Nella bella colonna sonora ci sono anche Cry Baby e Summertime di Janis Joplin (con la Full Tilt Boogie Band): quest’anno è la seconda volta, dopo I cento passi. Così, tanto per fare un inutile rilevamento statistico. Ah, non ho finito: sentita con le mie orecchie una giornalista del Tg1 in stato preorgasmico riferire che Russell Crowe – in conferenza stampa a Milano – ha “una voce sensuale oltre ogni limite”. (Sala; 25/2/01)
106 – Bulworth dell’indomito trombatore Warren Beatty, USA 1997
Se uno va a controllarsi le ultime copertine di Cineforum del 1998 gli viene più di un dubbio: trova infatti immortalate Velvet Goldmine e Romance, due schifezze umilianti. Allora teme anche Bulworth, in copertina nel numero prima dell’estate. Me ne sono precauzionalmente tenuto alla larga: il trailer era fuorviante e Beatty, con la faccia scolpita come un Pirelli da bagnato, non invitava. Però qualcuno m’ha detto: guarda che non è male… Tele+ lo trasmette a ripetizione e finisce che, via!, una registrazione non la si nega a nessuno. Il fatto è che un americano che riflette sulla politica degli Stati Uniti è come Andreotti in confessionale. Prendete Grass, visto qualche sera fa: un prodotto “democratico” e libertario, ma superficiale, poco approfondito, decisamente rozzo. E invece Bulworth smentisce tutto quello che temevo: Beatty ha il coraggio di dire cose scomode e lo fa con un film molto curato (e molto italiano: Canonero, Morricone, Storaro). Praticamente è Ho affittato un killer con un protagonista dedito alla politica e schifato da ciò che la politica è diventata. Da vecchio democratico Beatty dice peste e corna di Clinton, denuncia i compromessi e la svendita degli ideali in cambio dell’appoggio delle famigerate lobby, sputtana senza vergogna il sistema politico americano e fa tutto a suon di rap. Veloce (addirittura brusco nella parte iniziale), divertente, autoironico, più pratico che ideologico, ci fa rivedere Amiri Baraka (aka LeRoi Jones), ci fa conoscere tale Halle Berry bella da schiantarti e fornisce anche interessanti ipotesi sulla ritirata black dalla politica. Inoltre non è consolatorio e ti spiazza con un finale che ormai credevi impossibile. E poi questo è l’uomo che ha girato Reds, che, dite quello che volete, a me commuove sempre. Difetta la traduzione del rap che andava affidata a qualcuno che sapesse rappare sul serio. Chessò, un rapper?!? O è un’idea troppo azzardata per i geniacci che si occupano di cinema in Italia? (Vhs da Tele+; 26/2/01)
107 – Juha del filologico Aki Kaurismäki, Finlandia 1997
Ci vuole proprio una gran bella testa per fare un film che, a 100 anni dalla nascita del cinema, ritorni tematicamente e tecnicamente alle origini. Si studiano le convenzioni linguistiche e gli accorgimenti tecnici, okay… ma come giravano, praticamente, ai tempi del muto? (Riletto qualche mese dopo: cosa cazzo sto dicendo?). Kaurismäki fa un film muto e non solo: Juha è anche grammaticalmente simile ai film di inizio secolo. Torna insomma a narrare per immagini, cosa che molti autori o presunti tali spesso dimenticano affidando la trama al dialogo. In realtà qualche variante modernista il buon Aki se la concede: c’è una musica incalzante e ben montata e c’è una fotografia scintillante che mai e poi mai si sarebbe potuta ottenere durante il pionierismo cinematografico. Ma che ci frega? È mica un saggio questo, è una storia di amore e tradimento, di passioni roventi nel freddissimo nord, di disillusione e morte. C’è il consueto umorismo beffardo, ci sono le facce stralunate dei protagonisti e c’è questo silenzioso gelo. Maria e Juha fanno coppia. Lui è zoppo e indulge con l’acquavite, ma sono felici. Poi un bel giorno arriva Sheimekka, un viandante dalla bella macchina che seduce Maria e se la porta via, in città. Qui Maria è costretta a far la vita. La vendetta di Juha non tarderà e alla fine Maria rimarrà sola con un figlio. Bello, lineare e struggente, Juha è il film che non ti aspetti ma che per fortuna Kaurismaki ha pensato di girare, una sorta di muto invito a tornare alle origini del linguaggio, intuitivo e potente. Il film l’ho visto dopo cena e poi è arrivato Pier Paolo e dopo ancora un po’, sorpresa, citofona il vecchio Zook. Si presenta con una bottiglia di champagne e ci annuncia che diventerà padre: ammazza, che film! Brindiamo felici. (Vhs da Tele+; 27/2/01)
109 – La congiura degli innocenti di un pallosissimo Alfred Hitchcock, USA 1955
Retequattro, la rete che coccola con film vecchiotti il suo pubblico di sessantenni con la terza elementare (non è vero, ma sembra comodo trattarli così), mi dà l’occasione di vedere un nuovo Hitchcock — uno mai visto prima, intendo. Tante interruzioni e verso la fine del secondo tempo c’è pure la telepromozione dei materassi dentro il film, forse perché la pellicola invitava al sonno. La congiura degli innocenti gode di buona fama ma è avvincente come vedere crescere un rampicante: in un boschetto del New England (bella fotografia) viene trovato il cadavere di Harry. Più persone sono ritenute colpevoli dell’uccisione, ma sbagliano tutti: Harry ha avuto semplicemente un “insulto cardiaco”. La trama è ricca di spunti grotteschi, qualche doppio senso piccante e una recitazione sorniona come la regia. Un filmetto lento, teatrale, arguto e rompicoglioni. Però, siccome non sono altro che un cialtrone, il mio giudizio vale quel che vale. E riguardo alla cialtronaggine diffusa segnalo che sul Corriere della Sera Mario Luzzatto Fegiz s’è lanciato in un arguto paragone tra la regia scriteriata del Festival di Sanremo di Sergio Japino e quella di Besson, perché il primo mozza i corpi dei cantanti e il secondo “descrisse una battaglia mostrando solamente i piedi dei guerrieri”. Il giornalista confonde Besson con Bresson e se si tratta di refuso è un refuso vindice quanto mai appropriato perché Luzzatto Fegiz ha alle spalle anni di recensioni scritte senza assistere ai concerti, cappelle clamorose e costante ignoranza manifesta riguardo al rock mondiale passato e futuro. Così, tanto per sfogarmi. (Vhs da Retequattro; 3/3/01)
110 – Kràmpack del felicemente leggero Cesc Gay, Spagna 2000
Strano film! Siamo andati a vederlo al Colosseo con Matteo e Nuria e all’uscita non riuscivamo a esprimerci, tutti un po’ frastornati. C’è una prima parte spensierata, estiva, spumeggiante, sennonché i due protagonisti (due quindicenni che stanno vivendo la loro maturazione sessuale) si masturbano reciprocamente (fanno “kràmpack”, nel loro gergo) e uno dei due non esita a praticare al fraterno amico anche un rapporto orale. La seconda parte del film (meno coesa, meno ritmata) affronta esplicitamente l’incertezza sessuale dei due e vive le loro esperienze senza la leggerezza della prima parte, quasi a significare il passaggio d’età o di consapevolezza. Lo stacco nella narrazione è evidente, ma è gestito senza alcuna preoccupazione e funziona eccome. Kràmpack è un film solare e allo stesso tempo difficile perché affronta un argomento pesante (la sessualità adolescenziale) senza drammatizzare troppo: sembra che lasci solo agli spettatori l’imbarazzo di alcune situazioni, perché la regia la vive con la naturalezza con cui la vivono i protagonisti. Questa scelta che spiazza lo spettatore abituato a generi precisi, a convenzioni narrative e di buon gusto è sicuramente il pregio più evidente di un film simpatico, dalla regia anonima ma recitato bene dai due ragazzini protagonisti. Si parte con l’incertezza dei quindici anni, quando abbracciarsi, stringersi, prendersi a pugni, toccarsi, cercare il contatto fisico, è un modo per esprimere una sessualità non ancora adulta. Dei due protagonisti, però, uno sente un forte desiderio omosessuale e non capisce se quello che fa con l’amico è solo una scappatoia per procurarsi piacere. Dopo diversi tentativi, a vacanze prossime alla conclusione, rimarrà il dubbio se, in spiaggia, approcciare un ragazzo o una ragazza, dubbio salomonicamente evitato con un tuffo in mare. Se pensiamo che questo film viene dalla cattolica Spagna… Krampack mette in scena la sincerità, le pulsioni non mediate dei ragazzini, la loro spontaneità e soprattutto non assume alcuna valenza rivendicativa (come succede a tanto cinema gay), ma è sempre felicemente sereno ribaltando l’ottica – per esempio – di Beautiful Thing (ambiente proletario e scelta drammatica). Ha vinto tanti premi, tutto sommato meritandoseli per il coraggio e la buona riuscita. Tra l’altro oggi ho visto un “Appuntamento al cinema” da brividi. Tolti Il gusto degli altri e La tigre e il dragone di cui ho già parlato a ragion veduta, mi lancio in una improbabile disamina critica di film che probabilmente MAI vedrò e che mi sono stati presentati in questa amena rassegna di trailer. Partiamo dal film probabilmente più nobile. Si tratta di Hannibal di Ridley Scott. È stato maltrattato dalla critica (a parte qualche originale come Carabba su “Sette”, che però riteneva superbo anche Le verità nascoste, per cui…) e da tutti gli amici che si sono avventurati. Mi fido. Poi presentano Chocolat, una porcata simil Pranzo di Babette ma girato con i miliardi e la Binoche che ormai ha l’espressività di una Real Doll. Segue un tragico filotto italico: E adesso sesso dei Vanzina, Amici ahrarara di Franco Amurri e Una milanese a Roma di tale Diego Febbraio. Il primo film mostra un po’ di tette al vento (la Henger, artificiale) e ironizza sulle manie sessuali degli italiani. Immondo. Il film con protagonisti i Fichi d’India sembra deprimente in maniera celestiale, ma l’autentico mistero è l’ultimo titolo che, forse, narra di una fettina di carne impanata. Neanche con la pistola alla tempia. Poi tocca a un blockbuster americano: Rapimento e riscatto, ottuso sin dal titolo. Infine Concorrenza sleale di Scola che, boh, ti fa chiedere: lo ha fatto perché ha ancora qualcosa da dire o perché la Melandri e Veltroni hanno visto qualche suo film con le videocassette dell’Unità e allora…? Buon ultimo arriva Francesco Nuti con Caruso: zero in condotta: anche qui dolori. Saprò rinunciarci, anche se… (continua…). (Cinema Colosseo, Milano; 4/3/01)
111 – Io amo Andrea dell’irriducibile Francesco Nuti, Italia 1999
(Segue)…anche se, lo ammetto, Nuti è stato un mio idolo d’infanzia e oggi, tra i tanti cialtroni che provano a fare cinema medio in Italia, non mi sembra meno cialtrone di altri che si piccano d’essere autori. Io amo Andrea è una stronzata, diciamocelo subito per sgomberare il campo da equivoci, ma è una piacevole e generosa stronzata che si può vedere e non ha cali di ritmo. La storia è semplice semplice, ma non insulta, e di fronte a quella colossale cazzata che era Il signor Quindicipalle la crescita è impetuosa. Mettiamo in cascina i lati positivi del film, tutti d’immagine: belle location (Milano zona Garibaldi in notturna, Monteriggioni in pieno sole), belle scenografie e belle attrici (la francese Agathe de Fontaine dal seno ubertoso e Claudia Neri, elegantissima). Nuti non evita la consueta misoginia (menando anche più donne) ma la tempera con un’autoironia inconsueta (dalla Neri le piglia sode; e poi un cagnolino gli piscia sul biliardo). E alla fine ingravida una irriducibile lesbica, quasi a significare il potere del maschio. O è lui lo sfruttato? Secondo me questa stronzata non è neanche tanto malvagia, sai? Il fatto grave è che Nuti scrive film dove non ci sono battute manco a morire: smozzica qualche frase, parla con la acca aspirata, fa il faccino triste, ma non riesce a far ridere. I suoi film sono costruiti grazie a situazioni gradevoli, se volete. Ma richiede come un atto di fede: mi guardate, sapete chi sono e ridete con me perché sono (faccio/dico di essere) comunista (fischietta l’Internazionale e ascolta l’inno sovietico), nessuno mi ama e mi sono ridotto a parlare con i cani. E come mi riscatto? Dando un figlio alla nemica giurata dell’umanità eterosessuale di sesso maschile, per cui — occhiolino strizzato — sono la vostra solita simpatica canaglia, no? Insomma, c’è tutto il Nuti, nel bene e nel male, che già conoscevamo. È più curata del solito la confezione e l’equilibrio narrativo. E la storia (passabile, discutibile, quello che si vuole) c’è e va avanti senza pause. Adesso arriva un altro Caruso e sarà un pianto, ma per il momento facciamo finta che Io amo Andrea sia più che decente, perché secondo me Nuti è sottovalutato oltre i suoi oggettivi limiti. Va da sé che sarei meno indulgente se avessi visto il film in sala, spendendo 13mila lire, dopo aver cercato il parcheggio per un quarto d’ora, col vicino che ride come un imbecille e Barbara che mi guarda in cagnesco. E dopo Nuti ho visto cose splendide che voi umani non vi sognate neppure (o come cacchio è la frase famosa di Blade Runner, insomma). (Vhs da Tele+; 6/3/01)
112 – Led Zeppelin Live in Copenaghen di Geniale Ignoto, Danimarca 1969
Uno si affanna a cercare registrazioni illegali, bootleg, performance radiofoniche e un bel giorno ti arriva un amico con una videocassetta registrata da Canal Jimmy. Cosa contiene? “Mah, alcuni pezzi dal vivo dei Led Zeppelin”. Curioso come sono mi approprio subito del nastro. Arrivo a casa, neanche il tempo di levarmi la giacca e già il videoregistratore inghiotte il prezioso: schiaccio play sul telecomando e, roba da non crederci, c’è Robert Plant bamboccio e imberbe, ricciolone e basettone; sotto quell’altra selva di capelli c’è Jimmy Page, magrissimo, demoniaco e misterioso nella sua camicia con gli sbuffi; dietro alla batteria c’è John Bonham Bonzo con i baffetti, che rulla come un dannato e infine a destra c’è John Paul Jones dalle lunghe dita adunche a tormentare il suo Fender. Signore e signori, i Led Zeppelin nella potenza del sound annata 1969. Cosa posso dire? Che mi mancano le parole, che sono fantastici, perversi, durissimi, puri, imprecisi, violenti, viscerali, grezzi, unici. Il repertorio proviene tutto dal primo album dei nostri eroi: Communication Breakdown, Dazed and Confused, Baby I’m Gonna Leave You e How Many More Times, quattro pezzi per 30 minuti secchi. Blues testosteronico agli ordini del Gran Maestro Page che dirige tutti con piglio sicuro: è pasticcione, quando improvvisa non è pulito, ma che grinta, che passione, che genialità nel tentare con la spocchia dei vent’anni cose mai fatte prima. L’inarrivabile sperimentatore tortura la sua Telecaster (quella col dragone, regalo di Jeff Beck) e sporca il blues, su cui ha studiato tutta una generazione, con psichedelia, folk e rumore, inventando l’hard rock. Lo seguono gli altri, con Plant che si scortica l’ugola e vomita un blues rovente e maschio. Stupefacente. Il miracolo avvenne in uno studio televisivo danese, con 4 amplificatori e 3 microfoni, in mezzo a un pubblico seduto in cerchio su dei cuscini, in un’atmosfera molto hippie. La regia ignota è perfetta e lascia realmente di stucco se si pensa che si parla di trent’anni fa. Le poche telecamere non perdono nulla in uno studio semplice ed elegante, con sfondo nero: i danesi sono dei geni e il Dogma è solo un’altra dimostrazione. (Vhs da Canal Jimmy; 6/3/01)
113 – The Eye di Un Borioso, Canada/Gran Bretagna 1999
Pier me lo consiglia, Alessandra mi fa no-no col ditino, ma io, nella mia beata ignoranza, do retta al fraterno compagno di mille avventure. E mi becco l’ennesima fregatura. Un agente investigativo britannico vive e lavora a Washington, ossessionato dal fantasma della figlia (che gli appare di fianco e gli parla: e lui si preoccupa se lei si materializza anche nelle foto… ma va’!). Assiste a un primo barbaro omicidio e pur avendo tutte le prove per incastrare la colpevole continua a seguirla, affezionandosi, innamorandosene, difendendola da chi la sta ricercando. Praticamente nessuno ostacola questa corsa verso un amore folle che lei rifiuterà fino al congiungimento finale, in punto di morte di lei. Bella stronzata commessa da tale Stephen Elliott, che parte benino e poi svacca progressivamente. La qualità visiva c’è, le implicazioni sullo sguardo (che autorizzano la consueta pippa dei critici segaioli) potrebbero esserci e invece non ci sono, tanto basta un bel primo piano di Ashley Judd, magari con le tette al vento. Al di là delle incongruenze narrative presenti fin dall’inizio, il finale tragico è prevedibile dopo la prima mezz’ora. E poi ‘sta cosa patetica di usare Ewan McGregor come agente inglese, per meglio vendere il suo accento, dài. Ovviamente il film ha solleticato la critica di cui sopra, critica che – pare incredibile – dopo innumerevoli letture e visioni, si fa ancora prendere pei fondelli e ingannare da una regia furbetta che sa toccare i tasti giusti. E c’è cascato pure Pier che il film ce l’ha consigliato. Lo aveva visto durante una rassegna del festival di Venezia a Milano, ulteriore dimostrazione che vedere 20 film in una settimana annulla ogni possibilità di giudizio sereno. E non parlo solo di Pier, evidentemente. Ah, nel cast c’è anche la cantante k.d. laing, curiosità che ritengo non interessi a nessuno, come del resto il film. Finito The Eye incoccio nel nuovo video musicale di Jennifer Lopez in implacabile heavy rotation sui canali musicali. La Lopez non sa cantare, non sa ballare, ha le gambe suine e il culo talmente basso che quando corre fa le scintille. Però ha una faccia torbida (vulgo, da zoccola, così si accalappiano i maschioni onanisti), ha love story che fanno gola alla stampa scandalistica (e qui si pigliano le casalinghe annoiate) ed è chicana, appartenenza razziale che consente al Sistema di marciare con la famosa balla che “tutti in questo paese ce la possono fare” (e qui si fan fessi i “non bianchi” di ogni censo e livello culturale). Prima di andare al cinema o di comprare il nuovo disco di questo pupazzo chiatto, pensateci e punite gli addetti al marketing della industria dello spettacolo nord americano. Alè. (Vhs da Tele+; 9/3/01)
(Continua — 8)