di Luisa Catanese
1. Uno, molti
Il mio pizzaiolo preferito è un ragazzo indiano che ha imparato la sua arte in Germania, a Colonia, in una pizzeria di immigrati italiani. Suo padre, da bambino, nel 1947, alla fine della dominazione britannica, emigrò dal Pakistan all’India, nel Punjab, anzi da una parte all’altra del Punjab. I colleghi che non parlano la sua lingua, le sue lingue, lo chiamano Sonny, forse perché Singh Gurwinder è considerato un nome troppo lungo e difficile.
Quando non ho voglia di prepararmi la cena, vado a trovare Singh Gurwinder e aspetto in piedi, tra la porta e il forno, che produca just in time il manufatto che poi consumerò a casa. Il mio ozio è doppio: non cucino e lo guardo lavorare. Mi piace osservare i gesti del suo lavoro, come se fossi a teatro. Mi esalta, mi avvince come il barbiere che taglia i capelli. Aggiungere, togliere, unire, separare, dare una forma, cambiare. Finché lo guardo lavorare, mi pare di non essere né servo né padrone, o di essere entrambi, allo stesso tempo, per gioco.
Il mio gioco, come l’ozio, è doppio. Chi entra in pizzeria, visto che ho l’abitudine di guardare in faccia e di sorridere, mi saluta come se fossi il proprietario o un cameriere; ma forse è una mia fantasia: posso soltanto immaginare che cosa pensano gli altri, bene o male posso fare quel che fanno tutti quelli che credono di sapere: nessuno garantisce la verità dei miei pensieri, così come nessuno vede in piena luce gli eventi del futuro.
Una sera, mentre aspettavo in piedi tra la porta e il forno, i miei occhi miopi tentavano di mettere a fuoco il pendaglio della catenina d’oro che, mentre il pizzaiolo manipolava l’impasto, sobbalzava sulla sua maglietta bianca. Per un istante mi era sembrato di identificare una falce e martello guarnita di astri e di spighe, una complicata minuscola panoplia, uno di quegli emblemi che campeggiavano su fogli volanti e bandiere di alcuni partiti comunisti del secolo scorso. Il pizzaiolo del Punjab ha notato che osservavo il suo monile e me lo ha mostrato. Ho scoperto che non era altro che il suo nome. Era il suo nome, ma anche una sorta di blasone, di stemma araldico, su questo non mi sbagliavo.
Intanto un collega italiano di Gurwinder, che lavora come sguattero in cucina, e nelle pause serve ai tavoli o porta un aperitivo a chi aspetta in piedi la pizza da portare via, per intrattenermi non trovava di meglio che lamentarsi, più sul serio che per scherzo, davanti al pizzaiolo del Punjab, che sembrava pensare ad altro, di quanto noi italiani siamo caduti in basso, giacché dagli stranieri ci facciamo cucinare anche la pizza. Gli ho fatto notare, amichevole e prolisso come al solito, che la cucina, come la lingua, è un artificio che si apprende. Certo, la cultura di un popolo non è un costume per un ballo in maschera, non è una moda stagionale, ma senza dubbio si possono parlare molte lingue e si può imparare a cucinare ricette di ogni parte del mondo. Inoltre la pizza, fondamento dell’identità culturale italica, nella sua forma storica attuale più diffusa non potrebbe esistere se gli europei non avessero scoperto e smembrato le Americhe e il pomodoro. Purtroppo Gurwinder, benché comprenda il punjabi, l’hindi, l’inglese, il tedesco e l’italiano, non si è lasciato coinvolgere dal mio monologo; non ha detto, per esempio, che l’inglese è la lingua dei signori, del capitalismo mondiale o della globalizzazione liberista, fate voi, ma allo stesso tempo è anche una lingua servile e comune per chi voglia trasformare il mondo, per chi voglia perseguire l’unità del genere umano nell’uguaglianza e nella libertà. Non l’ha detto, non mi aspettavo che dicesse qualcosa, ma il customer lead time e più tardi la qualità della pizza hanno parlato per lui.
Non si è trattato di un monologo, in verità. Mentre la pizza con peperoni e melanzane era già nelle mie mani, stipata in un cartone che fumava, il pizzaiolo indiano ha colto l’ultima occasione per rispondere a me e allo sguattero.
Ha sorriso: «Lui è sempre incazzato».
Non so perché, forse già pregustavo il cibo, forse rimuginavo questo rapido scambio di idee: per la prima volta me ne sono andato senza passare alla cassa: un atto mancato, per me piuttosto insolito, che alla pizza seguente mi è stato rammentato con cortesia, in forma di dubbio, da un cameriere albanese padrone del lessico, della grammatica e finanche dei registri della lingua italiana.
A passo svelto sono tornato a casa. E ho mangiato la pizza da solo guardando la tivù.
2. Due, uno
Con gli amici monologo spesso. Anche se il pizzaiolo quella volta era italiano, non avevo potuto fare a meno di disquisire, dopo l’ordinazione al cameriere, intorno alla natura meticcia della pizza. Poteva essere una via per volgere in sermone, se non proprio in dialogo, il mio ruminare sull’identità ibrida dei commensali.
«Una volta accanto al mio tavolo ha mangiato un professore di New York, il signor Katz, e sua moglie, una assistente sociale, se ho capito bene. Il professore era un uomo socievole, simpatico già a prima vista, uno psicologo. Era entusiasta del monumento ai partigiani di piazza Nettuno. Hai presente?».
Amit dice di sì con la testa.
«Io lo chiamo Diligite iustitiam qui iudicatis terram…».
A Noemi si rivoltano quasi gli occhi: «Tommaso, ti prego, almeno non divagare. Non credo che Amit abbia studiato latino e abbia letto tutta la Divina Commedia».
«Sì. Il professore diceva che la pizza è il cibo migliore del mondo. Non sono del tutto d’accordo, ma è vero che la pizza è una pietanza amerindoeuropea, mondiale…»
Arrivano le birre. Amit ascolta; Noemi mi lascia parlare, poi recita la sua parte.
«Le biografie di Einstein, di Sabin… E Marx, Freud, Kraus, Adorno, Canetti, Levi… Hai presente che cosa intendo? Lui si nutre di questo. È ossessionato dagli ebrei del passato».
«Qualcosa ho letto», la rassicura Amit.
Non le lascio il tempo di continuare: «Sì, per colpa dei preti e dei fascisti, ve ne siete andati e ci avete lasciati soli. Sono stato alla tomba di Dreyfus… Pensa che alle medie un insegnante di religione, un prete, mi chiese il cognome di mia madre perché avevo detto che forse Dio esiste, ma non c’è niente dopo la morte, non esiste il paradiso…».
«Questa mi è nuova», dice Noemi.
Divago, racconto, non concedo tempo per commenti e repliche, torno subito alla mia orazione.
«Le perversioni moderne a cui i nazisti attribuivano una radice ebraica sono una benedizione: cosmopolitismo, pensiero critico, meticciato, liberalismo, marxismo. Gli ebrei per loro erano la finanza e il comunismo, erano una cosa e il suo opposto, una varietà maligna e mondana del dio di Cusano, una caricatura dell’Europa contemporanea».
Noemi comincia ad agitarsi.
«Accusare gli ebrei di essere speculatori finanziari è come accusare gli zingari di rubare nel paese dell’evasione fiscale. Quando sei piccolo e ti portano al circo, nessuno ti dice: “Oggi si va dagli zingari”. Invece l’altro giorno uno stronzo obeso in autobus ha detto: “Con tutti gli zingari che stanno seduti in autobus senza pagare, proprio a me dovevate fare la multa”».
Noemi non mi sopporta più: vorrebbe sentire la voce del nostro amico.
«Walther Rathenau e Walter Benjamin nemici della patria, i Thyssen e i Krupp amici della nazione… Ecco il suicidio dell’Europa. Ecco l’odio di sé…».
Cominciamo a mangiare.
«Per esempio, Amit, tu che cosa hai dell’ebreo?».
«Per esempio? Vuoi che te lo faccia vedere?»
Io sorrido, Noemi meno di me.
«Non c’è niente, niente che si veda senza calare le braghe; o che si senta, a parte la fricativa uvulare…»
«Ah certo, ovulare», biascica Noemi. E chiosa: «Intende dire il suono della resh».
«Sì, questa la so», dice Amit. «È anche la erre degli abitanti di Parma e Fidenza».
«Non c’è niente che ti collochi», ho continuato impassibile, «dentro al luogo comune. O mi sbaglio?»
«Sì, Amit, a parte le battute da vero maschio universale».
Amit racconta a Noemi qualcosa di sé, e di suo padre e di sua madre e dei suoi fratelli. Per poco si tace e io riprendo a parlare.
«È l’internazionalismo degli imbecilli. Non esiste un solo stato naturale al mondo: tutti gli stati sono artificiali. Si naturalizzano col passare del tempo. Nel consenso, nell’ideologia… Per chi voglia trasformare questo mondo, la Francia e l’Italia sono artificiali come, che so io, il Brasile e il Suriname. Le frontiere sono tracciate col sangue, ma gli stati non sono creature vive. Gli stati sono sempre un prodotto dei conflitti storici. Non si può forgiare uno stato senza guerra, non esiste un solo stato al mondo che sia stato fondato senza conflitto, prima o dopo. Sono solo ventimila chilometri quadrati. Israele ha quasi sessanta anni. La distruzione dell’unico stato al mondo in cui gli ebrei sono la maggioranza della popolazione, qualunque sia il giudizio sulla fondazione o sulla politica dello stato di Israele, è una caricatura razzista dell’internazionalismo, della distruzione di ogni stato borghese, della “estinzione dello stato”, come si diceva una volta… Perciò lo chiamo l’internazionalismo degli imbecilli. E poi, come si possono definire ebrei solo quelli che sono di religione ebraica? Ogni identità è complicata, complessa.»
Amit si diverte, Noemi ha già sentito girare il disco, ma studia le reazioni di Amit. E forse si chiede ancora: è in grado questo ragazzo — che studia medicina, che non è madrelingua italiano, che non parla la nostra lingua morta e il nostro gergo, che non è nato qui — è in grado di capire quello che Tommaso dice?
«Nel nostro paese non esiste più una borghesia decente. È successo parecchi anni fa, prima che andasse al potere il Cavaliere Vastoevuoto. Mi fermo ad ascoltare un comizio in Piazza Maggiore… Resto molto ma molto in disparte per non confondermi, sia chiaro. L’oratore è un avvocato, un certo Giuseppe Borselli, che oggi è senatore della Repubblica eccetera eccetera. Un ex neofascista, per farla breve. Si lamenta delle nuove norme liberticide, contro il fumo, negli edifici comunali: un divieto perfido e comunista — nei locali pubblici si fumava ancora… Al terrore bolscevico che proibisce di fumare, si aggiunge che nella nostra città le auto non possono arrivare nel centro storico — come a dire che almeno i tumori da traffico, gratuiti, vanno garantiti a tutti, in centro e in periferia. Poi l’avvocato Borselli ci rivela che quegli stessi che hanno stabilito le regole contro il fumo e le auto non si curano affatto di ripulire le strade dai “travestiti brasiliani” che battono — e che magari, dico io, si fanno fottere dagli onesti padri di famiglia. Di chi disprezza e compra lui non si indigna e invece urla, tuona: “Chiediamo decoro, un futuro per i nostri figli, e ci accusano di razzismo”. Poi il botto finale, si mette ad urlare ancora più forte: “Ma noi non siamo mai stati razzisti: noi abbiamo liberato gli etiopi da una schiavitù secolare…”. Noi, ha detto. Ve lo giuro: ha detto noi. Avete capito: noi».
Noemi e Amit annuiscono, bevono un caffè; e io continuo a parlare e a gesticolare.
«E noi altri invece saremmo quelli che sputano nel piatto in cui mangiamo, saremmo i traditori della Patria e dell’Occidente. Oggi non fanno che dirti: “Odio di sé, odio di sé, odio per la patria, disprezzo per la democrazia occidentale”. Come si permettono? Brandiscono queste frasi come la famosa mascella d’asino, ma i filistei sono loro. Vogliono che ti senti in colpa perché non sei a tuo agio in questo mondo felice: vogliono che ti suicidi. Sono loro che vogliono il suicidio dell’umanità, sono dei nichilisti, sono i peggiori nemici dell’Occidente. Sono vecchi antisemiti mascherati, sono ruffiani perché hanno la coscienza cattiva. Chiedono scusa per le leggi razziali, ma li senti parlare dell’Etiopia o della Libia? E quelli che non si vergognano di andare a spasso con loro, magari se la prendono con noi perché si sentono in colpa, perché loro, quelli là, ora disprezzano apertamente solo i froci, i musulmani, gli immigrati… Ma io dico che detestano anche gli ebrei».
«Troppa psicologia, torna ai fatti», dice Noemi.
«Comunque non è odio di sé», e l’ho guardata in faccia. «Si chiama illuminismo, il suo lato buono e davvero luminoso, si chiama critica e autocritica. Che cosa sarebbe l’Occidente, l’Europa, senza autocritica? E vale anche per gli ebrei dell’Europa che sono stati allegoria o parodia dell’Occidente. Allegoria per chi voleva più libertà e uguaglianza in questo mondo, parodia per gli antisemiti che…»
«L’hai già detto. Come analista puoi avere ragione, però impara ad ascoltare. E a non ripeterti. Forse quelli che vanno a spasso con gli occidentali imperialisti cattivi non vogliono essere nient’altro che quello che sono. Volevano esistere e basta, come tutti: avere i documenti in regola… Che ne so. Tu che ne pensi Amit?»
«Voi come fate a essere cristiani? Lo prendete dal padre?»
«Voi chi? Io non sono cristiana. Mi piace Gesù, ma cristiana non lo sono e ancora meno sono cattolica. Mi ci vedi?»
«Vuoi dire che non sai cos’è un battesimo?», gli chiedo.
«Un rito…», dice Amit.
«Finché non sei battezzato, non sei cristiano. Amit, non ci posso credere. Tu non sei della diaspora, questo è sicuro. Sei in pace col passato, anche se tua madre è nata tra le Croci di ferro rumene».
«Guardie di ferro, grullo», precisa Noemi.
«Sì, lo so, ci ho fatto l’esame».
«C’era una volta che battezzavano i bambini ebrei di nascosto. Anzi, il papà e la mamma ci battezzano tutti prima che si capisca», dice Noemi.
«Non proprio tutti. C’è chi si fa ribattezzare quando sa che cosa vuol dire. E non è una scelta irreversibile», ricambio la cortesia.
«Stasera offro io. Forse non mi amo abbastanza, ma voglio bene a voi due». Noemi si alza e va a pagare.
«Non volevo irritarla. L’ho messa un po’ in imbarazzo», gli dico sottovoce.
«Non mi sembra. È strana, mi piace».
«È senza dubbio insolita».
«Non in quel senso, dicevo. Ora che la conosco mi piace più di prima».
«Ama quasi tutti, ma vuole che gli altri la amino con un po’ di fatica. Devono amarla nonostante tutto. Non odia il suo corpo, se lo tiene e ne vorrebbe di più. Per lei è un modo di fare autocritica: questo corpo è mio ma non gli appartengo del tutto, non appartengo a quello che dicono dovrebbe essere normale, naturale per questo mio corpo. Maschio e femmina li creò, e questo vale quasi alla lettera anche per lei, che bene o a male, come tutti, gli somiglia».
Noemi ritorna e ci sorride: «Parlate di me, suppongo. Non credergli…»
«Vuoi che tutti parlino di te quando non ci sei? È per questo che ci hai offerto la cena, tesoro?»
«Dicevate che sono androgina ma non troppo magra. E mi guardavate il fondo della schiena».
Ci incamminiamo verso casa mia, la casa dove Noemi non abita più.
«Vorrei farti una domanda», le dice Amit.
«Chiedere è lecito, dice mia madre».
«Perché hai scelto di chiamarti Noemi?».
«Era il nome della madre di mia madre, Noemi Mascaro».
«Era ebrea?», le chiedo io per prenderla in giro.
«È possibile. Pare che ogni bambino debba avere due genitori, quattro nonni, otto bisnonni… Non era di religione ebraica, che io sappia. Ma chi lo può dire ormai? Io parlo per me».
«Questa l’ho già sentita, Noemi. So che glielo diresti, se io non fossi qui».
«Certo. Non sono ebrea: sono un’israelita all’inverso come era Noè».
«Pare che veniamo tutti da lì», dice Amit.
«Anch’io immagino. Voi che dite?».
«L’origine è la meta», dico io, nel nostro gergo.
«Sì, ma in quel senso preferisco i maschi», replica Noemi.
«I maschi senza difetto, da avvicinare agli altari?»
«Ho dei limiti e li dichiaro: mi piacciono gli uomini, cioè le donne incompiute. E tu non sei né Aronne né Mosè. Hai la lingua sciolta, e sei piuttosto deficiente senza essere un profeta. Anzi, sei un esemplare di maschio comune: dunque sei più minorato di me».
«Lo so che non lo pensi. Non ti sarei così caro. Tu invece per me sei una benedizione»
«Certo, benedetta e maledetta, storia e natura, dio e animale, gioia e pene d’amore, Noemi ed Emiliano».
«Sei estrema, sì, mia cara, sei maledetta e benedetta, sei sacra e sei te stessa in modo molto concreto, sei la profeta di un mondo intero e giusto».
«Hai sentito, Amit, potete vivere in pace, forse. Ha trovato un ripiego. Più a portata di mano degli ebrei del passato. Ci mangia e ci vive assieme. Un rapporto di indole matrimoniale. Mi seduce, però non mi sposa».
«Se non avete un pubblico di che cosa parlate? Vi accontentate di un ebreo qualsiasi… Non sono né Kraus né Freud né quegli altri».
«Sei un ebreo normale, insomma?»
«Sì, mi potrei avvicinare agli altari antichi, anche se raramente credo in Dio».
«Sei… garbato, mite, vesti in modo sobrio e ti lavi. Un uomo ideale».
Le piace davvero. Noemi scherza ma dice sul serio, penso.
«La tua nonna, Noemi, che faceva?»
Non aspettava altro, la mia amica troppo umana, la mia simile, la mia cara e lontana Noemi. Era una storia che conoscevo, che ogni volta mi metteva il sangue agli occhi.
«Mia nonna era figlia di un ebreo ed era moglie di un socialista. Questo per quanto riguarda i maschi… Lei era fieramente antifascista. Sua madre era un’altra creatura strana, autonoma… Insomma non se la passava bene a quei tempi. Mia mamma è cresciuta con il papà e con un’altra madre. Noemi non ha finito la guerra, diciamo così. È morta in una cantina, quando mia madre è venuta alla luce».
Ero stanco. Non volevo ascoltare di più. Non volevo essere presente alla loro intimità, ma allo stesso tempo mi dispiaceva non ascoltare.
«Si è fatto tardi, per me. Domani mi sveglio presto», dico io.
Sono andato a dormire. Amit è rimasto solo con Noemi, senza imbarazzo. Gli piaceva. Era stato lui a chiedermi di conoscerla. L’aveva chiamata Noemi la yemenita, per gli occhi e la carnagione.
Non so che cosa si siano detti quella notte, mentre rincasavo da solo, spegnevo la luce e dormivo. La mattina dopo ho visto che Noemi era a casa, da sola, in camera sua. Che cosa si siano detti e cosa abbiano fatto, Noemi l’ha solo accennato. Immagino che Amit le abbia chiesto qualcosa di lei e lei gli abbia risposto pressappoco come, meno di un anno prima, dopo un’altra cena, aveva risposto a me.
La vedo camminare verso l’università, verso porta San Vitale, verso la casa di Amit: «Un abbozzo, disse il medico, quando ero piccola. Le parti di donna che si studiano meno a scuola. Le più piacevoli dell’apparato. Un abbozzo. Meglio essere frivoli: un abbozzolo di gioia, dico io. È piccina piccina, e mi manca quello che occorre per procreare. Non posso inseminare me stessa. Lui e madre natura mi suggeriscono che devo fare coppia. L’amore! Per il resto non trovo istruzioni, scelgo io quello che devo essere. Non cedo una sola libbra di me per avere i documenti giusti. Ne potrei cedere un pezzetto solo a Dio, se ci credessi… Mi ci vedi a dire: “Rabbi, vorrei convertirmi, l’ho conservato per l’occasione”. È una parte di me, me la tengo, come le dita dei piedi o le ciglia. Potrei essere un padre, una madre. Posso fare un figlio, come te. Non posso partorirlo, ma posso educarlo, insegnargli a parlare. Gli insegnerei la mia lingua. Questa lingua è mia madre, la mia patria… Nella mia madrepatria entra ed esce chi vuole, senza permesso né documenti. Sono tutti benvenuti. Non posso restare sempre con il passato e con mia madre. Parlo altre lingue, come te. Questa città non mi dispiace; è che voglio andare via da questo paese. A Barcellona, a New York, a Berlino… Ma la lingua italiana resta la mia nazione. Vorrei insegnarla ai ragazzini stranieri, qui. Lo farò nella prossima Italia… Nella prossima vita o tra un paio di anni, chi può saperlo? Tu che ne pensi?».
Li vedo seduti su un divano, bevono una birra in lattina: «Non è un vezzo, non è un fatto biologico. Sono Noemi e non Emiliano: voglio esserlo e lo sono. Non è questione di sesso, di natura o di orientamento sessuale. È quello che so di essere, è la mia carta d’identità. La vita mi ha battezzato Noemi. Hanno battezzato mia madre. Mio nonno era socialista e laico; era ateo finché non si è avvicinato alla morte. È solo un po’ d’acqua, diceva mio nonno prima di invecchiare. I fascisti, le bombe… E vogliono tutti sapere i miei traumi. Solo i miei. La storia universale è una catena di traumi. A qualche maschio magari piacciono solo le femmine perché ha avuto un trauma da piccolo. E magari l’hanno educato male. Che ne sappiamo? Può essere. Perché no? Mia madre mi ama. Mi ha insegnato a scrivere bene, quando c’era chi le diceva che forse ero dislessica. Mia madre è molto cattolica, ma mi vuole bene. La vita, tutta la vita, mi ha battezzato Noemi. Ma ora si parla d’altro, per favore».
Continuano a parlare. Non ce lo vedo Amit che parla dell’identità di Noemi e del Creatore. Lui ha un’identità più sicura. È un mio pregiudizio, lo so. Non c’ero, posso solo immaginare.
Amit ascolta quella voce di donna. Guarda quel viso di donna. Quegli occhi grandi, quelle lunghe ciglia nere. Ma forse non è così. Noemi lo attrae perché è bella, viva, laureata in lettere, loquace; non lo attrae perché è come una donna, perché somiglia a qualcosa. Forse gli piace per quello che è: quelle mani, quelle parole, quei gesti, qualcuno da baciare e da abbracciare per tutta la notte, simile agli altri e diversa dagli altri, come lo sono tutti.
Non posso saperlo. Non c’ero. Non ho voluto indagare con nessuno dei due. Forse voglio solo ricordare quello che è successo e quello che non è successo tra me e Noemi. Un’amicizia, un affetto tra adolescenti molto cresciuti. Un’amicizia da cui Noemi ha avuto baci, parole e carezze, ma forse non ha avuto abbastanza.
Non posso saperlo nemmeno adesso, soprattutto adesso che sono lontani da qui, dalla parte antica della mia città, dove lavoro e vivo immobile come una cozza, come i coppi sui tetti.
Amit non lo sento da anni. Dopo quella sera l’ho visto di rado, si è trasferito per qualche tempo a Ferrara. So che è tornato in Israele, forse a Tel Aviv, dove abitava con i genitori prima di laurearsi; o magari lavora a Giaffa, dove vivevano gli antenati del padre. Noemi invece ha abitato un anno a Berlino — è tornata solo una volta per trovare sua madre — e da qualche mese soggiorna e lavora a New York. Insegna l’italiano, traduce, dipinge. E forse riuscirà, come già a Berlino, a vendere qualche quadro.
Non mi sono stupito quando ho saputo che frequenta la Congregation Beth Simchat Torah, una sinagoga di New York per ebrei lesbiche, gay, bisessuali, transgender, le loro famiglie e i loro amici. Al telefono — l’ho sentita una sola volta — mi ha detto: «Ho rinnovato l’alleanza». Non so dire se prendesse in giro me o se stessa. Se lo ha fatto davvero, lo ha fatto con serietà; ma sono sicuro che Noemi, dovunque si trovi, qualunque cosa faccia, rinnovi ogni giorno l’alleanza con sua nonna.
Intanto, qui e ora, io parlo con me stesso, ricordo, confondo i ricordi e aspetto. Resto qui, nella mia casa, tra le seconde e le terze mura medievali della mia città, nella mia patria sempre più triste. Mangio da solo davanti al video, a volte acceso a volte spento, e in onore della mia amica mi dico in attesa dell’epoca messianica.
«Il Messia non sarà un uomo», dicevo, scandivo a Noemi, seduto sul divano e piuttosto ubriaco. «Non sarà un uomo solo. Non è un partito, non è un principe, non è lo stato guida della rivoluzione mondiale. Sarà un’epoca storica, sarà l’amore, il matrimonio del genere umano sulla Terra». E Noemi rideva e suonava il corno di montone. Così mi alzavo in piedi, la guardavo, brindavo: «A quelli che agiscono per l’umanità e lottano contro una parte di se stessi, contro la loro parte, contro il silenzio, contro il presente».
«Saranno i Noachidi, i nipoti e le nipoti di Noè, i fondatori della Repubblica umana mondiale, quelli che aboliranno le frontiere e i passaporti. No, anzi, mi sbaglio, saranno i Noemiti: le nipoti e i nipoti di Noemi».
E l’abbracciavo. E quel giorno noi due soli, mia cara, eravamo già un mondo, un piccolo mondo quasi intero, unito e giusto.
3. Molti, uno
Se cucinassi per qualcuno, a casa mia, o se anche tagliassi per lavoro i capelli degli altri, forse non scriverei. Cucinare e tagliare i capelli, per me, sono figure di un amore possibile: forme vuote, però, calchi di qualcosa che non esiste più o non esiste ancora. Infatti, non so tagliare i capelli degli altri e da molto tempo non ho voglia di cucinare. Ceno fuori, qualche volta da solo, molto di rado con amici e colleghi. Più spesso compro il cibo già pronto e lo porto a casa.
Torno a casa, mi siedo, mangio; e qui con me non c’è nessuno. Non scriverei se ci fosse qualcuno, un corpo vivo, qui e ora, con cui parlare. Da quando Noemi è lontana, parlo troppo a me stesso, a una parte di me; e ricordo e aspetto qualcosa.
I monologhi sono dialoghi del passato e forse del futuro. Delle cavità imperfette, diceva Noemi. Chi scrive, anche se scrive un diario, cerca di uscire dal soliloquio. Dunque ora scrivo, scrivo perché non parlo. Ai lontani, agli sconosciuti, a chi non ho mai incontrato.
Chi ragiona da solo, diceva la mia amica, non ha mai ragione.