di Fabio Deotto
Luca si sta per buttare.
Se ne sta lì, in piedi sul cornicione. È calmo, lo si vede bene da quaggiù, ha quei capelli stopposi che il vento scuote appena. Lo guardo consumare una sigaretta dietro l’altra e sono sicuro che sorride. Non è un fallimento, per lui, no… è una riscossa.
Ricordo che quando eravamo piccoli io e Luca sognavamo di fare gli archeologi. Alle elementari si facevano più gite che lezioni, e mentre la guida snocciolava la sua nenia triste e annoiata noi ci staccavamo dal branco per perlustrare gli angoli più bui della chiesa di turno. Cercavamo una cripta, un calice sacro, non ricordo bene ora, so solo che Indiana Jones per noi era molto di più di un film d’azione. Harrison Ford con il cappello di tela e la frusta era solo una scusa, ciò che ci appassionava davvero era la scoperta, ancor più la ricerca dell’ignoto, del proibito, di tutto quello che la Storia aveva voluto tener lontano dalle sue pagine ufficiali in modo che due ragazzi col pallino dell’archeologia avrebbero potuto disseppellirlo alle porte del nuovo millennio.
La poca gente che vedo gironzolare qui in piazza non si è ancora accorta di lui. Sono tutti troppo occupati a lamentarsi del caldo di fine primavera, per occuparsi di cosa accada sopra il loro naso. La saracinesca di un’edicola viene abbassata con stizza, l’edicolante ha venduto poco oggi, sono tutti a fare il ponte, o a guardare lo speciale del tg sulle code del ponte, o a lamentarsi di non aver saputo inserire qualche giorno di ferie in questo dannatissimo ponte. Io, che da bravo universitario a vita il ponte lo faccio ogni settimana, non ho fretta di sdraiarmi sotto l’ombra del primo parco alberato, non ho lo spettro di un lunedì di lavoro che mi costringa a spendere bene ogni minuto di assolata vacanza. E Luca… be’ Luca un lavoro ce l’avrebbe, fra poco meno di due ore dovrebbe presentarsi a Milano, con la camicia stirata di fresco e i polsini abbottonati, impiccato a una cravatta “che non sia troppo larga, mi raccomando, se no il capo ci fa brutta figura coi piani alti.” I piani alti, certo, come se davvero interessasse a qualcuno come si vestono le scimmie laureate del centro informazioni della Bocconi. Ma poco importa, mi basta socchiudere un po’ gli occhi per capire che Luca ora non ha né camicia, né cravatta, e credetemi se vi dico che non ha la benché minima intenzione di andare in Bocconi oggi.
Del resto, oggi è giorno di scadenza di contratto. E nessuno ancora gli ha comunicato l’intenzione di rinnovarglielo. Il mutuo? Puf, avresti dovuto pensarci prima di mandare al diavolo il capo. La gita fuori porta con Laura? Puf, avresti dovuto pensarci prima di fare venti minuti di ritardo nella tua pausa pranzo di mezz’ora. Venti minuti su mezz’ora, Gesùccristo, quasi il doppio del tempo! C’era coda dal paninaro e avevi già pagato? Puf, affari tuoi, avresti dovuto pensarci prima di metterti in fila, col poco tempo che avevi.
Si dice che l’età in cui si decide cosa sarà della propria vita non sia quella del liceo, e ahimè, nemmeno quella dell’università. Si dice che molta gente capisca solo intorno ai 25 anni cosa intende fare della propria vita. Ma non era il caso di Luca. No, lui aveva le idee ben chiare fin da piccolo. Quando ci aggiravamo per i sotterranei del liceo con le torce della Kodak mezze scariche, pensando di scovare chissà quale reperto, io giocavo, Luca ci credeva. Quando setacciavamo ogni centimetro quadrato del Ponte romano che portava fuori città, alla ricerca di chissà quale fantomatico linguaggio perduto, io giocavo, Luca ci credeva. Quando dicevamo di voler diventare affermati archeologi, io giocavo, Luca ci credeva. E allora forse si spiega perché otto anni dopo Luca si iscriveva a Storia e io zampettavo indeciso tra Ingegneria e Filosofia, con un’ebete incertezza su cosa fare e covando l’inconfessabile tentazione di non scegliere mai veramente, perché se scegli una cosa perdi tutte le altre, e allora tanto vale stare fermi. Luca non stava fermo, correva, macinava esami su esami, e nel giro di cinque anni aveva già inanellato tutte e due le lauree, massimo dei voti. Me lo ricordo mentre si sottraeva superbo alle grinfie della commissione d’esame, superava gli amici di rito e veniva a stringermi la mano col sorriso di chi aveva la mano vincente per la partita della vita.
“Ora tocca a te” mi disse quella volta.
Ora tocca a me.
Già forse Luca aveva ragione, forse dovrei essere a casa a studiare quel dannato esame di teoretica invece di stare qua col naso all’aria, a guardare il mio amico consumare gli ultimi minuti di un’esistenza diluita da anni di inerzia.
La mano vincente di Luca si era rivelata ben poca cosa, in un mondo dove tutti giocano coi jolly. Ma lui non era tipo da arrendersi. Mentre noi passavamo ore al baretto della biblioteca, tra un caffè shakerato e un aperitivo formato cena, lui aveva subito cominciato a lavorare. La mattina mandava curriculum, il pomeriggio si inchiodava alla sedia girevole di un cubicolo di call center a farsi insultare da metà mondo per quattro euro all’ora, la sera annegava le frustrazioni sotto le lenzuola di Laura, la ragazza del liceo, una che giuro non l’ho mai vista con un capello fuori posto, sempre stretta in quei vestitini da contadinella acqua e sapone che ti ingessano il sangue solo a pensarli. La stessa Laura che ora starà dormendo beata, mummificata in una tomba di lenzuola come è solita fare, ignara che fra qualche ora si sveglierà in un mondo dove è rimasta sola.
La gente ha cominciato a darmi di gomito, mi chiede se sto bene, dice che sudo, e sono interi minuti che fisso il vuoto. Ma le loro frasi si spezzano a metà quando seguendo il mio sguardo vedono Luca, e capiscono. Ora c’è un bel trambusto, qui in piazza Marconi. I ragazzi della Loco sono tutti fuori, alcuni non si sono nemmeno tolti il grembiule. Mentre li guardo accorrere alla spicciolata mi chiedo distrattamente se ci sarà qualcuno abbastanza furbo che approfitterà del suicidio di Luca per svuotare il registratore di cassa dietro il bancone. Vedo gente che armeggia con i cellulari, idioti… si affannano, come se davvero gli fregasse qualcosa del poveraccio in bilico su quel cornicione. Non sanno niente di lui, e nemmeno vogliono saperlo presumo, eppure si dannano nella corsa a chi chiama prima l’ambulanza. Sono pronto a scommettere che chiunque, qua sotto, sarebbe ansioso di dargli dei soldi, a Luca, di promettergli asilo, vogliono tutti dargli qualcosa, a Luca, per evitargli il tragico gesto. Tutto gli vogliono dare, ora.
Dopo un anno al call-center l’ottimismo di Luca aveva incominciato a mostrare le prime crepe, e intanto le risposte non arrivavano. Non so quanti curricula abbia spedito in quei dodici mesi, ma ognuno riceveva, quando la riceveva, risposte tiepide e vaghe. “Ora non stiamo valutando nuove collaborazioni” “riprovi fra qualche mese” ma in molte spiccava una proposta che si faceva sempre più insistente “All’estero sono sicuro troverà un’adeguata sistemazione”. Sicuro, all’estero, la fuga dei cervelli, come no? E Laura? Dove la metteva, Laura? Che poi, come se non bastasse, dopo qualche mese avevano pure avuto la bella idea di mettersi a concepire un cucciolo. Non che fosse stata una cosa del tutto voluta, semplicemente era capitato il fattaccio e avevan deciso di tenere la gravidanza. Sciocchi? Irresponsabili? Ingenui? Forse, ma non abbastanza da non meritare più di vivere.
E allora ecco arrivare la proposta di lavoro in Bocconi. Un lavoro pulito, di quelli che danno solo ai laureati ma che richiedeva ben poco impegno. Centro informazioni per lo studente straniero. Camicia, cravatta, barba ben fatta. Sorridi, saluta, prima scala a destra. Facile, no? Ci butti dentro qualche convenevole e il gioco è fatto.
Sorridi, saluta, prima scala a destra.
Eccolo, sento il suono ipocrita di un’ambulanza, qualche volontario deve aver trovato il giorno giusto per passare da nullità a eroe. Senti come fa squillare quelle sirene, sembrano tanti marmocchi su un treno a vapore. Ai piedi del civico 7, il bestione a sei piani che Luca ha scelto come ultimo trampolino, zampettano quattro giovanotti che fanno a gara a chi sfoggia il timbro più rassicurante: “RIFLETTI!!”, “ASPETTA, NON FARE PAZZIE ORA VENIAMO SU” e così via.
Illusi… Sarebbe più utile se cominciassero a preparare acqua e strofinaccio per ripulire quanto di Luca rimarrà attaccato all’asfalto
Luca è uno sveglio, così nel giro di una settimana aveva imparato tutte le regole del mestiere. Sorridi, saluta, prima scala a destra. Un ritornello così facile che dopo i primi sei mesi aveva già ottenuto il rinnovo del contratto. Altri sei e poi, a sentire i colleghi, “ti assumevano a tempo indeterminato”.
I quattro là sotto, quelli che si sbracciano, li ho riconosciuti. Gestivano un locale in città qualche anno fa. Ci organizzavano concerti, dibattiti, proiezioni… io ci andavo solo perché la birra costava poco. Anzi no, aspetta, non era un locale… ma “un centro di aggregazione culturale per la promozione di bla bla bla…”
Balle. La realtà è che quelli sono filantropi di professione, maniaci della mano tesa, gente che ha solo trovato un modo produttivo di gettare via il proprio tempo. La realtà è che non c’è alcuna differenza tra Luca e quei quattro sfaticati, precario lui, precari loro, precari i baristi della Loco, e i volontari che corrono fuori dall’ambulanza colorati come tanti ghiaccioli arancioni condannati dal sole di giugno. L’unica vera differenza è che Luca ha già incassato tutti i calci che voi schivate da anni, lì a penzolare dal capezzolo rinsecchito di una madre che si è stancata di darvi latte.
Un brusio preoccupato serpeggia da ormai mezz’ora, poi all’improvviso…
Silenzio
Luca sta dicendo qualcosa…
Con un lavoro così Luca poteva continuare a sognare le cripte romane e il pancione di Laura poteva continuare a crescere. Almeno fin quando a Luca non venne la brillante idea di allungare di ben venti minuti la sua mezz’ora di pausa pranzo. Non era colpa sua, intendiamoci, c’era coda, la cassiera aveva sbagliato a battere l’ordinazione, il cuoco era sommerso di lavoro e… “Non mi interessa” aveva tagliato corto il capo “La tua pausa dura mezz’ora, non un minuto di più. Per ora chiuderò un occhio, e mi limiterò a levarti un’ora dalla busta paga di questo mese”. Luca aveva protestato, chiesto elasticità… Ma il capo di Luca non era elastico, manco per sbaglio. Il capo si era fatto furibondo e gli aveva chiesto immediate scuse. Scuse che non erano mai arrivate, come mai arrivò il rinnovo del contratto per Luca. Molto semplice, non ti va bene come vanno le cose? Bene: un sorriso, un saluto, prima porta a destra.
“Io sono per la meritocrazia” aveva decretato il capo. Già, meritocrazia… che coraggio parlare di merito a uno come Luca. Ma così stan le cose. Domani il suo contratto scade, e Luca ha dovuto passare una settimana di inferno. I suoi colleghi hanno ricevuto la lettera di rinnovo, ognuna confezionata e timbrata per bene, i caratteri stampati con cura, sul retro i nomi di tutti e quattro i dipendenti del centro informazioni. Tutti tranne il suo. Dirlo a Laura non si poteva, quella arrivava con qualcosa di nuovo ogni giorno, e se non erano articoli per il bambino erano progetti per la nuova casa, e se non erano progetti erano silenziosi sorrisi affilati come rasoi, il sorriso di chi sa che grazie ai sacrifici tutto andrà per il meglio.
Ora, mentre i suoi colleghi cazzeggiano su internet, mentre Laura mastica gli ultimi minuti di sonno, mentre una torma di eroi della domenica si è coagulata ventuno metri sotto di lui, Luca strascica il primo passo verso il bordo del cornicione.
Le sue labbra increspate regalano preziose parole al vento.
E questo li manda tutti in palla, quelli quaggiù. I ragazzi della Loco, i quattro filantropi a manovella, i ghiaccioli all’arancia che tentennano sotto le luci dell’ambulanza, tutto quel popolo di menti precarie si affanna a strappare un significato a quelle labbra secche.
Ah, se solo imparaste a tacere! E invece no, mentre Luca parla voi non lo guardate nemmeno più, vi affannate in un ridicolo passaparola. La realtà è che non volete sentire quello che ha da dirvi, perché lui ormai ha finito, se l’è bevute tutte le amare medicine della vita, e no, non gli sono servite a nulla.
Io, invece, Luca lo guardo, non vedo le sue labbra, coperte come sono dalla zazzera ribelle, ma lo vedo che mi saetta l’ultimo sguardo:
“Ora tocca a te” dice.
Poi nulla più.
Un silenzio orribile appiattisce la platea, una legione di nasi puntano verso l’alto
Poi, il giro di vento.
Ora tocca a voi.
Sorridi, saluta … prima scala a destra.