di Valerio Evangelisti
Loriano Macchiavelli, Strage, Einaudi Stile Libero, 2010, pp. 590, € 21,00
Non si può prescindere, nel trattare del ponderoso romanzo Strage di Loriano Macchiavelli, dalla curiosa storia di questo libro. Pubblicato da Rizzoli nel 1990, fu ritirato dalle librerie dopo una sola settimana di visibilità. Uno degli imputati del processo d’appello per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 si era riconosciuto in uno dei personaggi. Il tribunale di Milano ordinò il sequestro di una copia, ma la casa editrice, temendo querele, preferì fare sparire l’intera tiratura.
A trent’anni di distanza, la riedizione da parte di Stile Libero è un’idea eccellente. Diciamo subito che la trama ideata da Macchiavelli, qui alle prese con i meccanismi del thriller più che con quelli del giallo, non coincide nei dettagli con le risultanze processuali. A grandi linee però sì, visto che sono in scena logge massoniche, corpi deviati dello Stato, estremisti di destra, cosche mafiose e servizi segreti internazionali. Dalle sinergie di queste entità mostruose nasce un piano efferato che, se non è quello vero (o presunto tale, alla luce delle attuali, ancora troppo lacunose conoscenze), è tuttavia plausibile.
Sfruttando la consueta abilità narrativa, Macchiavelli mette in scena, con tocchi ripetuti di pennello, un’intera galleria di personaggi, a Bologna il 2 agosto più o meno per caso (il più delle volte prevale il “meno”). Tutti costoro, elencati all’inizio in un’utile rassegna degna dei vecchi Gialli Mondadori, sono destinati a interagire. Due coppie casuali reggono l’azione, che però è disegnata dal “coro”: l’accozzaglia di arnesi, di regime o di altri regimi, decisi a imporre in Italia una svolta conservatrice. Loschi figuri il cui sodalizio data dal fallito “golpe Borghese” — qui non chiamato così, ma il riferimento è chiaro — dei primi anni Settanta.
Questo non è, sinceramente, il miglior romanzo di Macchiavelli, che prima e dopo ha saputo dare di meglio. Vi sono soluzioni un poco artefatte, tipo un castello-convento in un’isoletta sul Po i cui sotterranei ospitano misteriosi laboratori; oppure l’arruolamento frettoloso di Claudia, ragazza focosa dal viso di bambina e bel personaggio, quale infiltrata nella cuspide ideatrice della strage. Ciò ha un po’ il sapore di reminiscenze cinematografiche, lontane dall’immaginario a cui lo scrittore ci ha abituati.
Invece la zampata di Macchiavelli torna dolorosa nelle descrizioni ferocemente critiche di Bologna, città che conosce e ama come pochi, tanto da saperne denunciare spietatamente i difetti. Oppure nelle riflessioni, con puntuale riscontro nella realtà, sull’inquinamento della foce del Po.
Quanto alle bizzarrie del romanzo, sono poi tali? I processi sulla strage del 2 agosto ci hanno parlato (non entro nel merito della fondatezza delle sentenze) di terroristi vestiti alla tirolese, berretto piumato e bretelloni, di quelli che ballano dandosi pacche nel sedere. Portavano una bomba ferocemente letale. Una tale immagine, ai limiti dell’onirismo, supera in follia le soluzioni più ardite escogitate dall’autore per “colorare” il suo romanzo.
Macchiavelli resta comunque ammirevole, come scrittore e come uomo. Sul primo piano, Strage, con i difetti che vi ho scorto, resta lettura appassionante, vertiginosa. Qualche occasionale momento di sconcerto non impedisce che l’intreccio seduca e ipnotizzi. Sul secondo piano, abbiamo a che fare con un personaggio dalla tempra di ferro, coraggioso e nobile, sempre mascalzone. Lo stesso che, tanti anni fa, mentre si rappresentava una sua opera teatrale — Hanno dato l’assalto al cielo, sulla Comune di Parigi — incitò gli altri “comunardi” a caricare le prime poltrone della platea, in cui sedevano le autorità cittadine bolognesi.
In apparenza pacato e saggio, Loriano Macchiavelli resta una canaglia nello spirito. Irriverente per scelta e capace di dire ciò che altri non sussurrano nemmeno. Così vanno letti i suoi romanzi, incluso Strage.