di Paola Papetti
Jonathan Lethem, Chronic City, Il Saggiatore, 2010, pp. 487, € 17,00
“Esiste una guerra tra chi sostiene che c’è una guerra e chi sostiene che non c’è.”
Case è un attore. Da bambino ha lavorato a una sitcom di successo e da allora campa di diritti di immagine. C’è anche Perkus Tooth. E’ un personaggio particolare, in passato affissore di manifesti abusivi situazionisti, un paio di libri e molta critica rock. Ora vive di marijuana, imbevuto in ellissi di ragionamento che lo divorano psicologicamente e fisicamente. Richard Abnerg, invece, era uno squatter, partendo dalla lotta per il diritto alla casa è giunto fino ai palazzi dell’amministrazione: leva castagne dal fuoco per il sindaco e con la sua folta barba ricorda il suo passato, per quanto stridente con il presente. Oona Laslo è una ghost writer, camaleontica figura in nero bisognosa di tenerezza, ma si muove in modo spesso ambiguo.
Questi personaggi vivono la propria vicenda sul proscenio di Manhattan. E lì già siamo ferrati: Woody Allen, Sex And The City, i broker e Andy ti presento Sally.
Dapprima il luogo e le situazioni, sembrano giusto scenario per una vicenda semplicemente più intricata, nulla di trascendentale. Ma ben presto si intuisce che le coordinate di tempo e spazio sono colate in un tutto indistinto e che la realtà e i suoi doppi virtuali si scambiano. I vari piani dell’altrove agiscono sul reale con una potenza maggiore del rapporto causa-effetto che la trama suggerirebbe. Insomma ci si chiede il perché di un sacco di cose mentre si divorano le 458 pagine.
Per esempio: cosa ci fa la fidanzata di Case in una stazione spaziale? Perché le sue lettere giungono prima ai giornali che a lui? Perché la Cina ha costellato lo spazio di mine? Che ruolo ha l’enorme tigre (una tigre?!) che si aggira per l’isola devastando interi fast food? Che cosa sono in realtà i misteriosi vasi a calderone?
Lethem procede per accumulazione, crea una costellazione di centinaia di punti e riferimenti, ma senza perderne mai uno (non so chi sia l’editor, ma deve aver sudato sette camicie).
Mette in campo un vero e proprio arsenale di attori e concetti: la tigre e alcune aquile, babbione dell’altissima borghesia e senza tetto, astronauti russi e una santone che pratica l’agopuntura.
La coerenza onirica risulta sviluppata sui termini stessi, vocaboli come reificazione sono le liane utilizzate per traghettare il lettore da un altrove all’altro.
E poi, verso il finale, si intravede il disegno, semplicemente portando la comprensione a un livello superiore, come quando un complotto si svela.
Solo un’annotazione. Ho il sospetto che la traduzione di una delle battute finali (centrale per la trama!!) sia troppo letterale.
Messa così, davvero non si capisce e si deve inferire, ma spero che qualcuno mi corregga se sbaglio in questa interpretazione.
Credo che l’autore mi strizzerebbe l’occhio se lo accostassi a Ballard e al suo altrove tutto terreno. E a Orwell, senz’altro. Insomma Lethem sostiene che non servano personaggi con antennine verdi e panottici classicamente intesi per rielaborare la realtà: i mezzi di informazione ci pensano ampiamente ogni giorno. Il futuro è già il presente, lo spazio è già la terra quindi il reale è un sogno perfettamente architettato, solo senza la cartesiana garanzia di un buono e giusto demiurgo.
Una lettura coinvolgente ed entusiasmante. Assolutamente gioiosa e nel contempo non consolatoria.