di Mauro Baldrati
Domenica 13 giugno marciavo lungo il Tamigi verso i Docks, incurante del cielo che minacciava pioggia, per vedere da vicino uno dei migliori interventi di recupero e restauro di edifici antichi. I magazzini del ‘700 e dell’800, a picco sulle darsene del grande porto fluviale, costruiti con la pietra inglese seccata dagli anni, ora sono adibiti ad abitazioni e uffici.
Quella parte di cittĂ era semideserta, e il traffico, che a Londra ti crepa i timpani e ti emulsiona di bitume i polmoni, era assente. Gita fuori porta, in campagna, come tutti.
Mentre procedevo ammiravo le vecchie fabbriche recuperate, con le bucature originarie al loro posto, e la soluzione, molto diffusa, di moduli in acciaio che vengono applicati alle finestre per creare i balconi, sostenuti da solide putrelle con un semplice tavolato di assi grezze, assi da muratore, da cantiere. Ecco una cittĂ che valorizza i propri tesori, pensavo. Ecco una riscrittura dell’archeologia industriale secondo uno stile semplice, ma con scelte nette. E pensavo invece alla mania italiana di demolire interi isolati e fabbriche dismesse per edificare i piani particolareggiati, o piani urbanistici attuativi, enclaves di palazzoni tutti uguali studiati con criteri progettuali non semplici, ma mediocri, poveri.
E mi accorgevo pure di essere affamato. Nell’impossibilitĂ di affrontare la tremenda english breakfast, coi minacciosi salsicciotti scuri, il bacon, il salame, le uova fritte, quella mattina in albergo avevo mangiato il solito latte con corn flakes e due fette di pane tostato con marmellata. Ma i chilometri di marcia bruciavano velocemente le calorie. Cercavo un ristorante abbordabile, oppure uno dei punti etnici per un boccone al volo, ma erano tutti chiusi. La prospettiva di una marcia sotto la pioggia a stomaco vuoto non mi entusiasmava.
Avevo appena visitato una delle darsene della riva nord, adibita a riserva di pesca, con un paio di giardinetti nascosti come se ne trovano a Londra, tutti curati, con l’erba tagliata e i fiori, e stavo imboccando la Narrow Street, a Limehouse. Ancora nulla, a parte un pub dall’aria poco raccomandabile, deserto, un coffee black a 3 pounds minimo e chissĂ quanto per un panino, probabilmente vecchio.
D’un tratto l’ho visto. Italian Restaurant Pizzeria. Che allegria. All’estero cerco di stare almeno a trenta metri di distanza dai ristoranti italiani. Ma ero abbastanza provato. Così mi sono avvicinato. Faceva angolo con una piazzetta: La Figa, Pizzeria e Restaurant.
Sono rimasto immobile per qualche secondo, in contemplazione. Ma voleva dire proprio la figa? Forse, ho pensato, il proprietario si chiama tipo Mario La Figa, e l’ha intitolato col suo nome. Ma gli inglesi, lo sapevano? E se lo sapevano, ridevano? Poi ho pensato, vabbĂ©, Henry Miller non ha chiamato Mona sua moglie June nella Crocifissione in Rosa?
Davanti alla porta a vetri sostava un energumeno in camicia bianca e pantaloni neri, il solito locale che ti spenna vivo. A Londra puoi mangiare ottimi piatti indiani, indonesiani, tailandesi nei banchetti dei mercatini di Brick Lane per 3-4 pounds, o una paella squisita a Covent Garden per 5 pounds, ma quei posti con i buttadentro in camicia bianca e pantaloni neri ti alleggeriscono di 25-30 pounds per una pizza, una birra e un coffee black.
Dunque che fare? La Figa non mi attirava per niente.
D’un tratto ho scoperto che, nella parte opposta della piccola piazza, alcune persone erano sedute ai tavoli. Mi sono avvicinato. Alcuni bevevano i coffee black o i coffee milk, tazze gigantesche che noi in Italia come minimo ci ricaviamo tre cappuccini, ma altri mangiavano dei gran piatti colorati e appetitosi. Così mi sono seduto. Locale tipico inglese gestito da pachistani. Ragazze giovani, gentili. Ho ordinato un breakfast vegetariano. A Londra c’è questa bellissima particolaritĂ , che in tutti i ristoranti c’è quasi sempre il menu vegetariano. Varie verdure cotte con salse speziate, due salsicciotti di soia, un formaggio fuso, pane tostato con burro e marmellata e un uovo fritto. Una birra e un coffee black per 10 pounds. Durante il pranzo-break ho tenuto d’occhio La Figa, e non un solo cliente è entrato o uscito.
Tornato a casa ho curiosato sul web e ho trovato il sito de La Figa and il Bordello, e qualche opinione di avventori che ne parlano bene e dicono che c’è un’atmosfera un po’ umida. Ho scoperto che una Figa esiste anche in Brasile, a Salvador de Bahia, e per loro la figa è un amuleto porta fortuna, di grande prosperitĂ .