Sul supplemento letterario del “New York Times”, il non eccezionale narratore Geoff Dyer (di cui intendo ricordare unicamente lo splendido Natura morta con custodia di sax, edito in Italia per i tipi Instar) esprime una considerazione che, da quanto si legge in Rete e su carta, sono in molti a ritenere corretta: e cioè che, dopo l’esplosione paraepica di Underworld, uno dei pesi massimi del romanzo americano fin de XX siècle, Don DeLillo è andato sgonfiandosi, depotenziandosi, deludendo, con libri minuscoli troppo autoreferenziati, densi di metalivelli evitabili, come Cosmopolis, che Dyer definisce “un alto-concettuale auto-karaoke”, mentre il precedente Body art era un calando già preoccupante. Come si faceva a scuola, nei temi, dopo avere comperato il quinterno a righe, tenterò di smentire il giudizio critico di Geoff Dyer: utilizzando cioè la premessa del “Secondo me”. E’ dalla quinta elementare che non facevo così, ma a ciò devo ridurmi per definire, in via del tutto personale, Punto omega (Einaudi, allo spropositato prezzo di 18.50 euro per 118 pagine…), il più recente romanzo firmato Don DeLillo.
Anzitutto proverò a mostrare cosa e come credo DeLillo stia creando nel XXI secolo in àmbito letterario — il che significa: mostrando come Dyer & co. proprio non abbiano compreso cosa sia stato DeLillo fino ad Underworld, durante Underworld e dopo Underworld.
Tento quindi, in modalità relativista, l’anatomia di un capolavoro che rischia di rimanere incompreso o, se compreso davvero, scartato per impossibilità di “stare” nella sua onda intensa. Questo è un romanzo sull’autoconsapevolezza, sulla coscienza che sperimenta nuda se stessa — e non è certo questo il tempo per esercizi del genere, che vengono definiti “filosofici” come minimo, oppure sono allontanati dal cerchio magico della narrazione, quando a mio parere ne sono proprio il punto centrale.
Una necessaria premessa
Che cos’è il Punto Omega che dà il titolo al romanzo di DeLillo? Esattamente come non è possibile comprendere Body Art a prescindere dalle nozioni di “corpo” e di “arte” oppure capire Cosmpolis ignorando l’idea di “cosmo” e di “metropoli” e il riferimento a Metropolis, così non si può recepire nulla di Punto omega senza sapere che l’espressione è una singolarità finale che il filosofo Teilhard de Chardin pone come compimento dell’evoluzione coscienziale da cui, secondo questo teorico spiritualista, il cosmo è emerso e tornerà a trascendersi. Alcuni attributi dell’Omega Point di Teilhard de Chardin saranno utili a circostanziare parte della parabola narrativa allestita da DeLillo: poiché la coscienza è, essa è sempre esistita, anche se magari in stato potenziale, e quindi a maggior ragione nel suo acme che compie la coscienza stessa, il quale acme è appunto Omega point; esso non è astratto, ma personale, è la persona che si trascende, riconoscendosi come pura coscienza; raggiunto questo stadio di autoconsapevolezza, non si torna indietro, così come non si disimpara mai ad andare in bicicletta una volta appreso come si fa; è al di là dello spazio e del tempo anche se può crollare nella manifestazione spaziotemporale; è esterno, o meglio è trascendente rispetto a qualsiasi universo, costituendone il punto iniziale, anche se l’espressione è inadeguata, poiché Omega Point è in piena indipendenza da spazio e tempo, che sono sue manifestazioni.
Ora, scrivere un romanzo intorno a questo “tema”, bene o male, significa non scrivere un romanzo — o, perlomeno, non farlo secondo una poetica tradizionale in cui iscriviamo il racconto di storie come momento mitico che compie una comunità. Piuttosto, si tratta di raccontare come un momento mitico possa essere un momento, ovvero cosa sia un momento. Non si tratta di ragionarci sopra in termini filosofici, poiché DeLillo è un narratore. E’ come circondare un vuoto, tentare di sagomarlo o emblematizzarlo, rendere l’inspiegabile come puro inspiegabile e ciò che trascende il linguaggio farlo percepire come al di là del linguaggio. Quando ci si impegna in una simile poetica che possiamo definire “del grado zero del racconto”, il fine non è quello di trascendere la Storia — sarebbe sbagliato riguardare in questo modo a questo nobile tentativo di condensare la narrazione avendo in essa una fede abnorme: che è quella della letteratura in quanto medium veicolare, arte che conduce più dentro che mai ai linguaggi, fino a spostare tutto fuori da ogni linguaggio. Non c’è sfiducia nella narrazione, qui. C’è un’immensa fede a un compito che, solitamente, è più proprio della poesia che del romanzo. Narrazioni simili sono sempre esistite e non sono riportabili all’epoca in cui si manifestano. Che siano l’Odradek di Kafka o l’Orfeo di Apollonio Rodio, il Bartleby di Melville o la Katje di Pynchon, l’Austerlitz di Sebald o il Pym di Poe, il Daniel clone di Houellebecq o il Gilliat di Hugo, lo scrittore pomeridiano di Handke o il Carlo di Pasolini — la letteratura esonda di questi personaggi che possono esistere o non esistere, ma il cui impatto potentissimo è che si sente che sono. E sono coscienza, anzitutto — nuda coscienza, che osserva i fatti o li vive con un attaccamento in cui penetra un progressivo distacco, il che non li separa dal mondo eppure li separa dal mondo: Odradek è nel mondo ma non è del mondo. Sono figure cristiche? No, sono incarnazioni della coscienza, sono tutti Punti omega, che esistono qui ma sono al di là dell’universo che esiste. Punto omega di DeLillo è un romanzo che si iscrive in questa tradizione. Tale tradizione, che ad alcuni potrà apparire il momento in cui la narrativa si sfibra per mancanza di lingua e di impeto poietico, è una linea perpetua che indica (non realizza!) un trascendimento e si dà il compito di urlare sottovoce tutta la potenza di essere. A farne le spese è quello che si chiama plot, trama, andamento sinfonico, racconto. Ciò non indica alcun prevalere di una poetica su un’altra — da un lato chi apprezza il raccontare che si distende e diviene veritativo in un allargamento; dall’altro chi sta nel punto, concentrato, apparentemente distaccato e freddo, gravemente meditabondo. Giovanni Bellini contro Mark Rothko: ha senso porre una simile e idiotissima questione? No, per l’appunto. E’ tuttora questione di gusto e di prospettiva e di tipologia di lavoro su se stessi che la narrazione implica e a cui essa veicola, sia per lo scrittore sia per il lettore.
DeLillo rules
A questo punto, va detto come è fatto Punto omega di Don DeLillo: è fatto come un fotogramma in una pellicola. C’è una prima sezione, minima, vuota, lo stacco temporale, il momento in cui dal frame precedente si passa al nuovo e si ha, così, l’illusione del movimento. Poi c’è una più ampia immagine, estesa, ma immobile, fermissima nonostante faccia parte di un movimento che dà l’illusione di un flusso, impercepita in quanto immagine fissa perché lo sguardo vede il movimento e non i singoli frame. Infine il fotogramma si chiude con la nuova cesura: un niente che anticipa il frame successivo.
La metafora è calzante. Nello straordinario prologo c’è un uomo ridotto a sguardo, che assiste a una installazione del videoartista Douglas Gordon, 24 Hour Psycho: su uno schermo al centro di una stanza di un museo d’arte contemporanea viene proiettato Psycho di Hitchcock, alla velocità di due frame al secondo, in modo che il film duri esattamente 24 ore. Tutto si dilata all’estremo, in questo improponibile lavoro sul tempo e la percezione e la rappresentazione e lo spazio. L’attenzione coglie tutto. Lo sguardo vede ogni cosa. La bocca spalancata, urla, i rivoli di acqua della doccia. Ogni elemento è in risalto. Tutto si connette a tutto.
“Cominciò a pensare alla relazione fra una cosa e l’altra. Quel film e la pellicola originale avevano la stessa relazione che c’era tra la pellicola originale e l’esperienza vissuta realmente. Quello era lo scostamento dallo scostamento. Il film originale era finzione, quello era vero.”
E a un dato punto, nella sala della proiezione, mentre l’uomo che guarda è dietro lo schermo e osserva il film dal lato sbagliato, entrano un anziano e un giovane, forse un docente universitario col suo assistente. Resistono poco, se ne vanno annoiati. Qui, DeLillo stacca.
Inizia l’immagine del grande frame.
Quei due uomini non c’entravano nulla con il mondo accademico. C’è il più vecchio, Elster, esperto del Pentagono, consulente per il conflitto in Iraq (valutatore di rischi: una reminiscenza della professione prediletta nella narrativa di DeLillo), un uomo stanco che ha abbandonato il Pentagono e l’esistenza metropolitana, per ritirarsi in pieno deserto, in una baracca di alluminio, una casa disossata, immobile in uno scenario immanemente immobile. Il giovane è invece un regista, Jim, desideroso di girare un lungometraggio con Elster che racconta, a ruota libera: soltanto Elster e un muro dietro. E cosa può raccontarci Elster? Del mondo — davvero, di tutto il mondo. Se non si comprende questo, sfugge totalmente il punto di Punto omega, nemmeno si arriva all’alfa, figurarsi se si raggiunge l’omega.
Elster è Colui Che Sa e che però non ha più voglia di apprendere, poiché sa già tutto. Può parlare della guerra, del tempo, della verità, degli astri, del rischio, del pieno e del vuoto, della metropoli e dello spazio desertificato, della moglie e della figlia, del matrimonio e del divorzio, della gioventù e della vecchiaia, della gioia e della nausea, della vita e della morte, dell’assedio, della conquista, della polvere, di altri e più lontani e sanguinosi deserti. Si potrebbe andare avanti all’infinito. Questo soggetto, Elster, è universale.
Le giornate passano non monotone, ma addirittura metafisiche.
Jim viene da New York, il deserto è californiano, oltre San Diego, ed Elster è ovunque con la sua silenziosa presenza che puntella con sentenze orfiche, al limite del grottesco o dello sfiatato, se non si mantiene alta la fiducia nel narratore:
“— Vogliamo essere la materia inerte che eravamo un tempo. Siamo l’ultimo miliardesimo di secondo nell’evoluzione della materia. Da studente andavo alla ricerca di idee radicali. Scienziati, teologi, leggevo gli scritti dei mistici dei vari secoli, ero una mente famelica, una mente pura. Riempivo quaderni con le mie versioni della filosofia mondiale. E oggi eccoci qua. Non facciamo che inventare leggende popolari sulla fine. La diffusione di malattie animali, tumori contagiosi. Che altro?
— Il clima, — dissi io.
— Il clima.
— L’asteroide, — dissi.
— L’asteroide, il meteorite. Che altro?”
E anche:
“— Il tempo che si sgretola. Ecco cosa sento qui. Il tempo che lentamente invecchia. Diventa vecchissimo. Non giorno dopo giorno. Si tratta di un tempo profondo, tempo epocale. Le nostre vite che si ritirano nel lungo passato. Ecco cosa c’è qui. Il deserto del pleistocene, la legge dell’estinzione.”
Mentre è evidente che, a ogni pagina, a ogni voltare pagina precisamente, stiamo rivivendo l’installazione di Doug Gordon, ecco che arriva Jessie, la figlia di Elster.
Si instaura un clima saturo di un eros estenuato.
La figlia di Elster scompare.
Vengono chiamate in soccorso le autorità. Partono le ricerche.
E’ ritrovato un coltello. C’è sangue secco, sulla lama. Il corpo non si trova, né vivente né cadavere.
Elster collassa come una supernova, si raggrincia come una mummia, è come se fosse morto.
Jim si avventura nel deserto, verso il punto in cui è stato rinvenuto il coltello, si muove a bordo dell’auto coperta di polvere di criosoto, un viaggio alla McCarthy rallentato a due frame al secondo. Si inocula nel luogo arcaico, Jim: tra calanchi che richiamano possenti movimenti tellurici risalenti a ere addietro, abbacinato dal sole, in un labiritno di massi e stratificazioni geologiche, perde la cognizione di dove sia la macchina, è l’inferno, sente che qui, perduto, abbandonato, al centro del deserto, sente che sarà perduto, che morirà, perché ci è venuto?, dov’è la macchina?, come tornare indietro?, finché il silenzio assoluto lo porta a una immobilità vastissima e avviluppante, a sentire il nulla, sì, “ma un nulla che era”.
Ecco il punto, dunque. Un percorso dantesco in due pagine e mezzo, proprio la descrizione di un antinferno e poi un inferno e poi il buco nero che non può essere il nulla: il non essere non è. Soltanto per analogia possiamo sentircelo raccontare, in modi sghembi, in modi che non coincidono col romanzo classico — come il poema di Parmenide, che è una narrazione, o il Sofista di Platone, che è una narrazione, o lo Zarathustra di Nietzsche, che è una narrazione, o La terra desolata di Eliot, che è una narrazione.
Scomparsa nel nulla, la figlia riapparirà? Qui, DeLillo stacca nuovamente.
Siamo allo spazio tra frame e frame.
E si torna nell’anonimato (Anonimato 1 e Anonimato 2 sono i titoli di prologo e appendice). Di nuovo davanti all’installazione di Psycho 24h. Ancora lo sguardo: quell’uomo che chiaramente è e non è lo scrittore, il DeLillo in carne e ossa, un DeLillo immaginale, un niente che niente non è, è pur sempre un qualcosa. Si apre un incontro. Arriva una donna.
L’installazione, come il film, termina. Il libro no. Si spalanca la possibilità di amore, vita, rifiuto, movimento — ma ormai non si può recedere dalla grave consapevolezza che il tempo esiste ma anche è: il che significa che non è più tempo, il mondo scolpito come una metopa universale, come un indefinito frame tra due stacchi la cui natura non è essere nulla, bensì l’abisso apparentemente silenzioso da cui può emergere ogni universo, il silenzio inorganico delle pietre così come il flusso ematico di una ragazza uccisa in mezzo a un deserto.
Rewinding DeLillo
Punto omega rappresenta uno dei quadri di una personale di DeLillo — quadri narrativi. Se escludiamo il fallimento di Falling man, laddove l’uomo che cadeva era DeLillo stesso, Body Art e Cosmopolis sono da mettersi in relazione con questo ultimo lavoro — forse il più profondo dei tre, anche se probabilmente non si tratta di una trilogia, bensì di una serie che non è dato sapere quando DeLillo interromperà.
E di cosa aveva scritto, del resto, DeLillo, in precedenza? Certo: della paranoia, della contemporaneità, del popolare trasformatosi in cultura di massa che è una cultura, della relatività e dei tempi, del sogno e incubo detti America. Di molte, certo, cose. Davvero?
Inviterei gli amanti del complotto labirintico di Libra o dei settarismi esoterici de I nomi o dei sofismi da quarterback e avatar in End Zone o del terrore letterale in Mao II — inviterei i fan del cosiddetto “vecchio DeLillo” a misurare se già in quei lavori (e specialmente in Great Jones Street) i capitoli non fossero già dopotutto una molteplicità di Punti omega aggregati da un racconto esibito come finzione palese. Così come inviterei chi ha scambiato Underworld per un’opera à la Balzac a rileggere il tomone e a domandarsi se esso stesso non fosse una macroscopica installazione di un Punto omega interlacciato a un altro Punto omega, quasi ad infinitum, fino al terminale “Peace”, in evidente allusione allo “Shantih” di Eliot.
Don DeLillo è “secondo me” lo scrittore che conduce la linea poetica della narrazione a grado zero oltre il XX secolo, imponendola come imprescindibile elemento della nostra contemporaneità — accanto a molte altre tradizioni e poetiche, il cui futuro non sappiamo quanto è certo, in senso letterario. Ciò costituisce un punto a favore della narrazione coscienziale di cui DeLillo è il più recente esponente, il monaco laico o il rinunciatario che appartiene a una lunga catena di scrittori, che vanno da Lascaux a Villon allo Shakespeare del Racconto d’inverno fino a Beckett, a Wallace Stevens, a Celan. E’ quella letteratura che, ovunque e in qualunque epoca, è in grado di situare il fenomeno umano — espressione, questa, che tra l’altro è il titolo del libro in cui appare per la prima volta il concetto di Punto omega.