di Marilù Oliva
“Mano Nera” (Baldini Castoldi Dalai editore, 2010, euro 13), prende il nome dall’organizzazione criminale Crna Ruka, lo stesso gruppo nazionalista serbo-bosniaco che, il 28 giugno del 1914, armando la mano di Gavrilo Princip per eliminare l’erede al trono d’asburgo arciduca Francesco Ferdinando, aveva acceso la scintilla della prima guerra mondiale. Un’organizzazione creduta morta e sepolta, ma che invece è ancora attivissima e persegue i suoi scopi politici agendo nell’ombra, sullo sfondo di una Sarajevo multietnica e irrisolta, magicamente sfaccettata, in balia di traffici illegali, un epicentro multirazziale dove l’integrazione sussiste solo attraverso la dis/integrazione e dove popoli diversi convivono non sempre pacificamente.
Inserita all’interno di “Vidocq”, la nuova collana di Baldini Castoldi Dalai, “Mano Nera” di Al Custerlina comincia a Sarajevo, col sangue: la strage provocata dal sequestro di Sanja Karahasan, figlia di un ministro bosgnacco, cui segue, a breve, il rapimento della cugina Nadira.
Azione dopo azione, il mistero si infittisce caricandosi di altri significati quando si diffonde la notizia che, insieme a Nadira, è scomparso anche il tesoro più prezioso della Bosnia-Erzegovina, l’Haggadah, un antichissimo manoscritto sefardita custodito al Museo Nazionale di Sarajevo, pregno di valori subliminali inscritti nella simbologia poliedrica di una multiculturalità che tarda ad affermarsi. Perché Custerlina abbia scelto Sarajevo come luogo d’elezione, lo spiega lui stesso alternando una triade di pregi e difetti della città: «É un territorio narrativamente ancora inesplorato, è ricca di storia, è multi-etnica e multi-religiosa. É stata ed è ancora sede di conflitti infiniti, è un naturale crocevia geografico di traffici illeciti da Est verso Ovest, è povera economicamente, quindi un incubatore naturale di illegalità».
Serbi, croati, bosgnacchi, un Greco — con la G maiuscola —, avventurieri, musulmani, ortodossi, cattolici e integralisti, ciascuno con la sua missione profana, col pezzetto di storia che gli compete e qualcuno col carico religioso estremizzato, come si conviene a chi non accetta compromessi. Kostas, Darko Kavajan, lo scacchista russo di madre serba, Kirill Todorovski, con le sue ambiguità e le sue tattiche non sempre limpide. E poi c’è la riuscitissima killer croata Ljudmila Horvat, detta La Santa, per via di quel suo integralismo che lascia senza scampo le sue vittime ma in primis la sua stessa esistenza. Ex crocerossina nella guerra serbo-coata del ’91, aveva sublimato l’esperienza di volontariato imparando ad uccidere. Nel mirino di questa incredibile macchina da guerra che fa il bagno nell’acqua profumata di rosa e bisbiglia il rosario, ci sono: i nemici di Dio e della Croazia. Ma questa volta la missione che le viene affidata è leggermente differente…
Scritto con una prosa calibrata come le armi profuse solo nei momenti giusti, questo romanzo ha lo stesso ritmo turbo della musica balcanica, regge su situazioni, descrizioni, movimenti che hanno la corposità e l’agilità di una narrazione che sa il fatto suo. Con equilibrio, esplodendo nei punti giusti, Custerlina, dopo l’ottima prova d’esordio “Balkan bang!” (Perdisa Pop, 2008) ci trascina in questa polveriera balcanica che non si è ancora scrollata di dosso il retaggio del passato e che presenta, nella contraddizione inspiegabile tra un Bene e un Male non demarcati, la sua più grande fascinazione.
Sono le colline venete del prosecco l’ambientazione di “Finché c’è prosecco c’è speranza” (Marcos y Marcos, 2010, euro 16,50), di Fulvio Ervas, classe 1955, nato a Musile di Piave, piccolo centro agricolo tra Venezia e Treviso. E proprio a Treviso l’ispettore Stucky, mezzosangue persiano e veneziano, protagonista di questo e di tre precedenti romanzi, tenterà di risolvere alcunimisteri, in primis quello dell’apparente suicidio del conte Ancillotto, fornitore di vini pregiati. Sembra strano anche all’ispettore Stucky che si sia tolto la vita proprio un uomo amante delle donne e soprattutto del vino, simbolo per eccellenza della vitalità. Sarà la bevanda degli dei il protagonista, silenzioso ed effervescente, a scorrere in sottofondo, metonimia di un tutto compreso tra la vigna — e la particella di terra — e il legno della botte, la bottiglia finale, la dedizione del viticoltore, l’umore —e l’amore- del consumatore finale. Stucky, col suo intercalare “Antimama!” e col suo sguardo apparentemente disteso sul mondo, condurrà interrogatori non proprio formali e attraverserà paesaggi descritti con pennellate veloci e intense. Che portano, nella loro descrizione, l’allegria del vino e la malinconia della bevuta che passa: «Stucky vedeva a stento i cartelli stradali, Ponte della Priula sul lungo letto ghiaioso del Piave, poi a sinistra, costeggiando il fiume, tra i nomi famosi della Grande guerra, Nervesa e Sernaglia della Battaglia, ancora a lato del fiume Soligo, dove il percorso non era esattamente una linea retta, piuttosto anse improvvise, bordi fittamente alberati, graziose osterie e clienti ondeggianti sul ciglio della strada. […] Lui seguiva i profili delle colline, lo sfondo di verde cartapesta che faceva dimenticare la pianura, accompagnava lo sguardo verso il cielo e, come una rampa, lo lanciava lontano». Ma accanto a questi scorci intatti, Ervas introduce con delicatezza anche la piaga del progresso, luoghi-non luoghi tetri come il cementificio dai camini svettanti: «Certe fabbriche hanno qualcosa di orrorifico, si capisce subito, al primo sguardo, che non sono luoghi sani, che vi si producono reddito e malattia con la stessa intensità. Invece il cementificio non aveva un aspetto maligno, vi si accedeva da una strada alberata, ottimamente collegata alla rete viaria poiché il flusso di camion, in entrata e uscita, era considerevole. Stucky la percorse piano, osservando la lieve patina di polvere, come un velo di zucchero, che ricopriva la zona. Polveri sottili. Le case più vicine distavano un chilometro in linea d’aria. Chissà se quella polvere gli condiva l’insalata».
O come cave di ghiaia, ditte di smaltimento, discariche, tutte collegate da reti di interessi che si fanno beffe del libero mercato e dei principi d’onestà, spesso con la compiacenza di amministrazioni locali. Un romanzo scorrevole, piacevole, con punte d’ironia e con la freschezza del prosecco. Un prosecco provvidenziale, in questo caso. Perché, se è assodato che in vino veritas, allora non c’è dubbio che in vino spes!
Storie differenti e due scrittori in “Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo” (Transeuropa, 2010, euro 14,50), due terre, la Toscana e la Liguria, raccontate attraverso sguardi dalla saggezza autoctona, a tratti smarriti, a tratti lirici, sempre puntati in profondità.
Vincenzo Pardini, giornalista e romanziere, ha narrato “Il nido dell’aquila” e “Broggi”. Vorrei concentrarmi sul primo racconto, la storia di Fidelco, il cacciatore che conosce la montagna, personaggio che, come ha sintetizzato nella sua superba postfazione Arnaldo Colasanti, cela in sé il messaggio inenarrabile di chi non ha scampo: «…qualsiasi cosa si faccia o accada nella vita, sarà solo un mistero ad aggiungersi ad un altro mistero. Nessuna scorciatoia in questa alba rafferma e vuota. L’eccesso è la morte del pensiero: è la letteratura intesa come una nuda umana infedeltà all’esistere». Ma al di là delle letture critiche, le evidenze paesaggistiche si stagliano potenti attraverso immagini, case arroccate sulla punta dei cucuzzoli, venti gelidi appenninici incappucciati nelle nubi, osterie locali, monti, luci ed ombre che si rimpallano su pezzi di terra, alberi e rocce, quasi umanizzandoli nel torpore. Così come, nel racconto successivo, affiancano il narrato i prati e i declivi su cui pascola Broggi, il bovino grosso e tozzo eponimo del capitolo. In queste pagine, quindi, i luoghi esistono soprattutto attraverso gli animali che li abitano, in primis rapaci e aquile ne “Il nido dell’aquila”, creature più celesti che terrestri: «Ce n’erano due. Volavano in maniera concentrica. A tratti andavano verso le Apuane, a tratti verso di lui. Dal basso risalivano in alto sospinte, pareva, da una forza misteriosa. Coda e remiganti, descrivevano orbite circolari. Ali piegate alla stregua di un arco, una prese a picchiare».
Marino Magliani, traduttore e narratore, ha concentrato i suoi brani “La parte” e “Il controllo delle piante” sul personaggio di Emiliano, emigrante che torna alle origini, anche se per breve. Colasanti ha precisato che questa condizione di espatriato non si può intendere con tutte le sue accezioni perché Emiliano «non conosce la malinconia. Guarda il mondo con un vecchio binocolo, ripensa all’infanzia e vede sul muro screpolato un manifesto pallido dei nuovi morti dell’anno, l’ombra nera dei vecchi sugli scalini del paese. C’è odore di fico e forse di lavanda masticata. La pietra di questo paesaggio sfarina ma sembra invincibile». Emiliano — in qualche modo libero, grazie alla sua malinconia mancata — è l’osservatore di una terra ligure che non è materna né tantomeno gli concede ospitalità. Una luogo marchiato dai tetti di paese dalle terrazze soprane, da fichi e crisantemi ed eucalipti, da muri con pietre arroccate, da ferite dalle fessure e piene di quarzi, da terre inghiottite dai rovi, da valloni sconosciuti e da un sole di ponente che dimentica colpi di luce sulle pietraie. La voce narrante di Emiliano, chiave del suo pensiero, fotografa il paesaggio mentalmente. E in quelle immagini nitide che sanno di vissuto ma estraneo al contempo, si fa granitica e insormontabile la sua sensazione di non-appartenenza.