di Simone Ghelli
Tra i momenti più belli dell’andare al cinema vi è senz’altro quello in cui, all’uscita dalla sala, ci si ritrova di colpo in mezzo a quelli che hanno condiviso con noi l’esperienza di una visione dalla durata ben definita. È un momento che dura pochi secondi, simile a quella frazione di tempo che divide la fine del sonno dal risveglio vero e proprio — sarà anche per questo che molti teorici del secolo scorso si sono prodigati in affascinanti paragoni tra il sogno e l’arte cinematografica. Il bello del cinema, però, è che ci dà l’impressione di non risvegliarci mai da soli, perché è quasi sempre anche un’esperienza mondana, un evento al quale non si può mancare, soprattutto se poi il tema affrontato è proprio la mondanità di un certo ambiente (in questo caso del mondo letterario).
E infatti, guardandomi intorno all’uscita dall’Azzurro Scipioni (ma anche al momento di entrare in sala), mi sono chiesto a quale comunità stessi appartenendo in quel momento. E me lo chiedo anche adesso, mentre rifletto sul destinatario di Senza scrittori, il documentario sul mondo dell’editoria letteraria firmato da Andrea Cortellessa e Luca Archibugi.
E mi chiedo: a chi volevano rivolgersi gli autori?
Fuori da quella sala ho avuto subito il sospetto che quella stessa “società frolla”, di cui aveva appena parlato il poeta Valentino Zeichen a proposito del Premio Strega, potesse essere in parte presente intorno a me. Era insomma probabile che buona parte del pubblico fosse costituita da addetti ai lavori, ai quali il documentario è indubbiamente diretto. In un’epoca in cui tutti si lamentano che vi sono più scrittori che lettori, questo — di una società letteraria colta a ri-guardarsi anche nei propri difetti — sembrerebbe il minimo, e infatti il titolo potrebbe apparire paradossale, se non fosse che gli scrittori di cui si denuncia l’inesistenza sono un certo tipo di scrittori, quelli per così dire “di qualità”. Scrittori a rischio di estinzione nei megastore del libro così come nei grandi premi letterari; lo Strega su tutti, dove Andrea Cortellessa si aggira per intervistare quelli del settore (ancora una volta critici, editori e scrittori) che ne parlano male ma sentono comunque il bisogno di esserci, di starci dentro — e in fondo, mi è venuto da pensare guardando ancora il pubblico fuori dalla sala, a quelli dell’ambiente piacerà starci dentro, essere lì per poi criticare e commentare il giorno dopo.
Se in questa critica alla “fiera della vanità” che è diventata il libro possiamo individuare un certo approccio alla Michael Moore — la presenza in campo del critico/autore Andrea Cortellessa, in carne e ossa, diventa cioè un modo per ribadire l’autorità del proprio punto di vista — d’altra parte merita un accenno anche l’uso del montaggio, che passa dall’essere puramente “dimostrativo” — come nel caso della lettura di un brano della Mazzantini, presa come esempio di scrittrice “non letteraria”, alternato a considerazioni sulla letteratura di qualità — al diventare metaforico per mezzo di associazioni di immagini — quel pavone che passa più volte, che se da una parte sembra richiamare l’autore che va in giro a curiosare per premi e librerie, dall’altra appare come una chiara metafora della mondanità di certi ambienti, e quindi una critica alla letteratura ridotta a contenitore di qualcos’altro.
Insomma, senza voler certo negare l’interesse di un documentario che si occupa di una serie di problemi che non sono solo della letteratura — problemi legati alla commercializzazione dell’opera, ovvero agli spazi sempre più ristretti che toccherebbero in sorte oggi ai prodotti “di qualità”, nonché alla concentrazione della produzione e della distribuzione in poche mani — mi sembra che uno dei limiti dell’operazione stia proprio nella scelta di un destinatario che si rispecchia fin troppo bene nel pensiero del critico/autore. Che ne è invece, viene da chiedersi, di quel pubblico che la critica dovrebbe impegnarsi a riavvicinare alle “buone” letture che le logiche del profitto tengono lontane dalle vetrine (ma non certo dagli scaffali)? A giudicare dal documentario, esso sembra scomparire nel nulla, schiacciato dalla mole di libri sputati dal grande mercato; oppure viene bistrattato senza troppe spiegazioni, come accade alla giuria giovane del Festival della Letteratura di Mantova che consegna il premio a Margaret Mazzantini — anche se l’ombra di Andrea Cortellessa, che ammette il proprio sconcerto davanti a questa scelta, produce sì un effetto comico (sempre però per chi ne condivide le posizioni), ma denuncia anche un’incapacità della critica di scendere dal proprio piedistallo per misurarsi con un mondo che sembra terrorizzarla.
Se il nocciolo della questione riguarda dunque in primo luogo la qualità dell’opera messa in pericolo dalle logiche di mercato, come è emerso in un dibattito-fiume sul blog di Loredana Lipperini [in apparenza caotico, ma seguibile e decifrabile nella versione in pdf], dispiace ammettere che su questo punto il documentario non ci dice granché — in fondo non sono certo i libri degli scrittori intervistati (Tiziano Scarpa, Antonio Scurati, Giorgio Vasta, Giulio Mozzi) quelli che non si riuscirebbero a trovare. Questo per dire che nel lavoro della coppia Cortellessa-Archibugi la pars destruens sembra prevalere nettamente sulla pars costruens, anche perché, per quanto l’obiettivo sia quello di mettere a fuoco i problemi e i limiti del mercato “tradizionale”…
…si fa sentire eccome l’assenza di una riflessione sul web, che con le proprie dinamiche sta influenzando sempre di più le scelte dei lettori e degli stessi scrittori (per non parlare degli evidenti cambiamenti che la diffusione degli e-book potrebbe provocare nel giro di pochi anni). Soprattutto perché per i “malcapitati” lettori l’alternativa “al consumo più immediato e irriflesso in luoghi sempre più alienanti e massificanti” (cito il comunicato stampa del film) sta diventando proprio Internet, sempre più luogo di confronto/scontro tra pratiche diverse, dalle quali però il lettore non è escluso a priori, ma chiamato anzi a intervenire. E allora, infine, mi chiedo: non sarà invece forse la critica, date queste premesse, a ritrovarsi senza una bussola e per questo chiamata a ridefinire le proprie strategie dinanzi a un lettore non così sprovveduto come lo si vuole dipingere?
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