di Nando Mainardi
Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell’ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984), ed. Nutrimenti, 2010, pp. 256, € 14,00
Ricostruire la storia dei nostri servizi segreti serve indubbiamente a capire la storia recente del nostro Paese e la qualità della nostra democrazia. Giacomo Pacini, con Il cuore occulto del potere. Storia dell’Ufficio Affari riservati del Viminale, dà un contributo in questa direzione: non svela segreti inediti e sconvolgenti, ma prova a mettere insieme i diversi tasselli con un utilizzo rigoroso dei documenti, delle sentenze e delle testimonianze. Ne emerge un quadro a tratti compiuto e definito, a tratti sfocato e sfuggente.
E’ un dato assodato, ad esempio, la continuità tra l’Ovra — la polizia segreta fascista — e l’Ufficio Affari riservati sul piano del personale e delle modalità organizzative: segno evidente della “riconversione” repubblicana — nel nome dell’anticomunismo e sotto l’attenta regia dei servizi segreti americani – di agenti fino a poco prima convinti e spietati servitori del fascismo e della RSI. Così pure Pacini ricostruisce una fase particolarmente inquietante della storia dell’Uar: la “rivoluzione triestina”, e cioè la promozione al vertice degli Affari riservati — alla fine degli anni ’50 e per volere del ministro degli Interni Tambroni – della dirigenza della Questura di Trieste. Avvalendosi di tecnologie inedite e avanzate per il nostro Paese, i “triestini” misero sotto controllo gran parte della classe dirigente dell’epoca, fino a quando Tambroni stesso non si accorse di essere controllato, e quindi potenzialmente ricattabile.
Pacini ricorda, a questo proposito, l’ipotesi secondo cui il governo Tambroni, qualche mese dopo, sarebbe caduto non solo per i fatti del luglio del ’60, ma perché era troppo fresco — nella stessa Democrazia Cristiana – il ricordo dei “triestini” e l’idea che esistesse da qualche parte un archivio segreto contenente vizi, ruberie e peccati degli uomini di governo e di potere.
E’ a partire dalla seconda metà degli anni ’60 che avanza e s’impone Federico Umberto D’Amato, una delle figure più ambigue, difficilmente decifrabili e sfaccettate dei servizi segreti italiani. Uomo di fiducia del governo americano, ex repubblichino ma, secondo la propria ricostruzione ovviamente, persecutore di criminali di guerra nazisti, riuscì nel tempo a costruire una fitta rete di relazioni internazionali e nazionali che lo tenne, più o meno, al riparo dai maggiori scandali che colpirono i servizi italiani.
L’Uar ebbe un ruolo provato nella strage di Piazza Fontana: bloccò le indagini e spinse per il trasferimento del commisario Juliano della squadra Mobile di Padova, colpevole di voler fermare i nazi-fascisti veneti di Ordine Nuovo che stavano terrorizzando l’Italia con le bombe sui treni e si stavano preparando alla strage; ancora, l’Uar evitò accuratamente e sistematicamente di informare, dopo la strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura, la magistratura su indizi evidenti che avrebbero portato con largo anticipo a Freda, Ventura e soci.
Non solo: fu attraverso la fonte “Anna Bolena” (e cioè l’impresario musicale milanese Rovelli) che l’Uar imbastì buona parte della pista anarchica mentre, negli anni successivi, emersero le relazioni – mai pienamente chiarite – con Stefano Delle Chiaie e Delfo Zorzi.
L’Uar giocò un ruolo significativo anche nel fallito golpe Borghese, al punto che – rammenta Pacini – D’Amato venne dipinto come l’ispiratore e al contempo l’affossatore del colpo di Stato. L’obiettivo reale sarebbe stato, da una parte, compromettere e rendere ricattabili settori della destra eversiva e, dall’altra, diffondere presso l’opinione pubblica il terrore del golpe.
L’Ufficio Affari Riservati cessò di esistere nel 1974, poco dopo la strage di Piazza della Loggia. Stava cambiando la fase politica a livello internazionale e stavano venendo meno alcuni presupposti della strategia della tensione: perciò lo Stato cominciò a smantellare gli apparati maggiormente collusi, riverniciandoli di nuovo, nascondendo la cenere sotto il tappeto e scaricando le figure più compromesse. D’Amato se la cavò, venne mandato a fare il capo del servizio di polizia di frontiera e continuò a giocare il proprio ruolo fino alla fine con ambiguità, arroganza e sfrontatezza. Spiegò i contatti tra il capo dell’ufficio stampa della Direzione Generale di Polizia e l’ordinovista Zorzi con il comune interesse per le lingue orientali. Affermò, una volta smascherato, di aver aderito alla P2 per scoprirne i segreti e informare le istituzioni. Tutto ogni volta finiva con il diventare un gioco di specchi, in cui ogni azione sarebbe stata ispirata dall’obiettivo contrario e in cui spariva ogni possibilità di scoprire la verità. In realtà – ricorda l’autore – D’Amato proseguì a svolgere incarichi riservati per il ministero degli Interni fino al 1984.
Pacini, ricostruendo la storia dell’Ufficio Affari Riservati, ci ricorda quanta opacità e nebbia ancora oggi attraversino la nostra democrazia, e quanti ostacoli siano stati posti per provare a rendere impossibile conoscere fino in fondo alcune terribili verità.