di Tommaso de Lorenzis
Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Acqua in bocca, Minimum Fax, 2010, pp. 108, € 10,00
A vederli insieme, nelle pagine dello stesso romanzo, verrebbe da pensare a una versione poliziesca degli incontri ravvicinati del terzo tipo o — magari — a un aggiornamento de les liaisons dangereuses. Stiamo parlando di Salvo Montalbano, il celebre commissario di Vigàta nato dalla penna di Andrea Camilleri, e di Grazia Negro, ispettrice d’origini salentine in forza alla Questura di Bologna e protagonista d’una fortunata trilogia firmata da Carlo Lucarelli. C’è sempre qualcosa di “alieno” nel rendez-vous dei personaggi della letteratura popolare, qualcosa che evoca un periglioso transitare dagli universi cartacei di “competenza” verso mondi inesplorati.
Accade proprio questo nell’intreccio di Acqua in bocca: che la Negro coinvolga Montalbano in un’indagine non autorizzata. Il risultato è un’inchiesta condotta da due dei più noti indagatori del giallo italiano e redatta a quattro mani dalla coppia più titolata del polar di casa nostra: Camilleri&Lucarelli, per l’appunto. Ma visto che, a dispetto dei modi bruschi e delle maniere ruvide, Grazia ha il suo fascino, a non aver letto il libro e a voler malignare, si potrebbe pure mettere in conto un flirt. E allora diciamolo subito per tranquillizzare le lettrici che tengono a Livia, l’insopportabile fidanzata “spacca-cabasisi” del commissario: le danger de la liaison non riguarda un’improvvida, travolgente passione.
No, no, qui il pericolo è di gran lunga più casto, ma assai più insidioso, e cova nelle pieghe d’un mistero legato all’omicidio di tal Arturo Magnifico, residente a Bologna e originario di Vigàta. Considerato che il Magnifico è deceduto per soffocamento, e che l’hanno ritrovato senza una scarpa e con tre pesciolini rossi accanto, l’ammazzatina presenta aspetti davvero insoliti. Ed ecco perché Grazia decide di chiedere l’aiuto di Salvo, introducendo la famosa rottura dell’«equilibrio iniziale» e avviando — in ossequio alle antiche regole — il procedimento della detection. Da qui in poi, la narrazione mischia i cliché del poliziesco con gli stilemi del romanzo epistolare. Il racconto, infatti, procede come giustapposizione di lettere, dispacci, rapporti, articoli di giornali che i due personaggi s’inviano nei modi più ingegnosi per eludere il controllo di oscure centrali interessate a insabbiare l’inchiesta.
Come ha giustamente notato Maurizio Bono sulle pagine de «il Venerdì», Acqua in bocca è un tipico esempio di crossover, particolare format narrativo che incrocia — in un medesimo plot — personaggi provenienti da fiction diverse. Siamo nei settori commercialmente più avanzati dell’industria della cultura di massa, laddove cartoon e serie tv sono soliti proporre incredibili meeting di eroi più o meno super. E come dimenticare il grande schermo che non ha esitato ad affiancare le Maestà di Alien e Predator esibendo perfino lo strabiliante parterre di The League of Extraordinary Gentlemen. Il cosiddetto fictional crossover altro non è che il crisma accordato dal pop alle proprie icone. La crime story non fa eccezione, benché costituisca uno dei campi narrativi in cui il gioco in questione ha prodotto risultati annoverabili — il più delle volte — nell’intrattenimento buffo.
Per carità, i cultori della materia non dimenticano la spregiudicata manovra con cui Maurice Leblanc fece scontrare, nei romanzi di Arsène Lupin, il ladro gentiluomo con il suo naturale antagonista: quel detective residente al 221B di Baker Street e registrato all’anagrafe del poliziesco col nome di Sherlock Holmes. Intralciato da copyright e diritti d’autore, Leblanc ricorse a una furbata poco nobile, presentando il detective sotto l’identità posticcia di Herlock Sholmes e il fedele Watson nei panni d’un certo Wilson. È il potere delle parole: basta lo spostamento d’una consonante o il cambiamento di un nome per mandare a carte quarantotto le leggi sulla proprietà intellettuale.
In ogni caso, per tornare al vil denaro, Camilleri e Lucarelli hanno risolto il problema della “stecca” devolvendo i proventi delle vendite a due associazioni onlus. I tempi cambiano e l’intesa sembra confermare lo spirito sbarazzino con cui la coppia s’è generosamente cimentata nell’impresa. Una fatica che ha l’evidente sapore d’un divertissement cominciato per caso in un pomeriggio di primavera del 2005.
Durante le riprese per un documentario dedicato ai due giallisti, Daniele di Gennaro, responsabile di minimum fax media e cofondatore dell’omonimo marchio editoriale, rivolse agli scrittori una domanda carica d’implicazioni future: «Come si comporterebbero i vostri personaggi, Salvo Montalbano e Grazia Negro, con un cadavere in mezzo ai piedi? Come interagirebbero in un’inchiesta? Me lo raccontate?». L’improvvisazione funzionò così bene — a detta dell’editore — che il passaggio al cartaceo diventò una conseguenza necessaria. E altrettanto obbligata fu la scelta del mezzo espressivo: quel romanzo epistolare, condito da documenti e inserti vari, che ha permesso agli autori di passarsi la staffetta, sfidandosi capitolo dopo capitolo e lavorando a distanza.
Dunque è del gioco, della ludica tenzone, della sfida di sagacia, che stiamo ragionando. E così, nella postfazione che correda il volume, di Gennaro finisce per tirare in ballo due metafore ingombranti: quella jazzistica della jam session, simbolo d’un «irripetibile» intrecciarsi di suoni, e quella scacchistica che evoca visione strategica, furbizia tattica e l’incalzante alternarsi di botte e risposte. Di certo i paragoni ci possono stare, ma — com’è noto — il gioco è una cosa serissima che si basa su regole ferree. Perfino il piacere che ne deriva scaturisce dalla fatica, da una buona dose di sofferenza, dallo sforzo dell’intelletto e — nel caso migliore — dalla combinazione di questi elementi. Come in ogni passatempo enigmistico e come in ogni confronto basato sulla strategia, il giallo presenta alcune leggi che fungono anche da parametri di valutazione. E allora, se lo riferiamo alla grammatica del suo genere, Acqua in bocca — purtroppo — è un’occasione mancata, una buona idea cui non corrisponde un risultato apprezzabile, un’impalcatura narrativa esile come esile è, prima d’ogni altra cosa, lo sviluppo di quella procedura che governa — senza eccezioni — il poliziesco: la detection. Il punto è che, nell’arco di cento pagine, Grazia e Salvo semplicemente non indagano, anche perché movente e assassino saltano fuori prima della metà del romanzo. Con un’attività inquirente appena abbozzata, un killer individuato e un movente più o meno chiaro, non c’è mistero e — di conseguenza — non c’è più il poliziesco. Dopo un timido avvio investigativo, legato a lampanti incongruenze presenti sulla scena del delitto, l’indagine sparisce del tutto, risolvendosi in una combinazione di conoscenze che i due detective non intuiscono né deducono, bensì si limitano ad apprendere ciascuno per proprio conto (quasi fossero giornalisti) per poi socializzarle nei modi più strambi. Arriveranno perfino a introdurre pizzini nei cannoli alla siciliana o nei tortellini doc “made in Bologna”.
Nemmeno il trapasso del racconto nella cornice dell’action migliora le cose. Se la struttura epistolare poteva prestarsi ai mille rovesci della schermaglia deduttiva e all’insidioso slittamento delle interpretazioni, nel caso dell’azione dal vivo il format manifesta limiti evidenti che solo una grande ambizione narrativa avrebbe consentito di ribaltare in punti di forza. Tutto ciò che accade, infatti, non può mai essere mostrato in presa diretta, ma deve passare — sempre e comunque — attraverso il filtro d’un qualche resoconto. Che sia la versione di un testimone o la ricostruzione di Montalbano poco importa. Ma l’alternarsi dei punti di vista tende a dimostrare un principio scontato: le cose non sono mai come sembrano. Così, la prima versione è sempre quella parziale, mentre la seconda, sempre buona, collega i particolari e li inscrive nell’ovvia ricomposizione dell’ordine infranto.
Lo vogliamo dire sinceramente? Ci sembra un po’ poco per gli autori de La vampa d’agosto e di Via delle Oche.
Sospeso tra un poliziesco mancato e un hard-boiled buffo appena imbastito, Acqua in bocca indulge alla celebrazione di universi letterari di successo, offrendone l’elenco completo di tic, cliché e comprimari. Dall’ottusità di Catarella all’ossessione anagrafica di Fazio, passando per l’affascinante Ingrid e l’indimenticabile Simone di Almost Blue, non manca niente e ci sono davvero tutti. A fronte di quest’esagerata esibizione dei gioielli di famiglia, colpisce l’assenza di quei contesti e di quelle ambientazioni che tanta parte hanno giocato nelle fortune di Grazia e Salvo. Ci riferiamo alla cancellazione della città turrita e dell’isola triangolare, di Bologna e della Sicilia, dagli accordi della sonata a quattro mani. O meglio: più che di cancellazione sarebbe opportuno parlare di riduzione della complessità geografica — dunque sociale e perfino psicologica — agli stereotipi folk d’una cartolina illustrata. E Bologna finisce per diventare la città dell’Antica Salsamenteria Tamburini. Un’indicazione gastronomica di tutto rispetto, ci mancherebbe. Ma insomma…
Si dice che non esisterebbe letteratura popolare senza un’intrinseca tendenza inflattiva. Probabilmente è vero. Ed è perfino possibile che Acqua in bocca inauguri una vera e propria serie d’incontri letterari sotto il segno dei crossover polizieschi dall’umorismo lieve, scanzonato, e dal taglio teatrale e metanarrativo. Tuttavia, poiché sono stati menzionati il jazz e gli scacchi, chi scrive continua a manifestare la propria preferenza per la tromba di Chet Baker sul malinconico attacco di Almost Blue, ricordando i tempi in cui Grazia Negro esplorava i mille rivoli di quella metropoli reticolare, spalmata lungo la via Emilia, che si chiamava Bologna. E a proposito di allusioni vale la pena ricordare, parafrasando il titolo d’un capolavoro di Andrea Camilleri, l’anomalo movimento di un determinato pezzo sulla scacchiera. «La mossa del cavallo», infatti, è una buona metafora del modo con cui è possibile forzare le regole dei generi rispettandone le rigorose geometrie.
Scrive Anatolij Karpov: «Un cavallo che muove da una casella nera arriva sempre in una casella bianca. Al contrario, un cavallo che muove da una casella bianca arriva sempre in una casella nera. Un cavallo può scavalcare qualunque pezzo».