di Filippo Casaccia
Carlito’s Way (il periodo “Pigiama”)
“Damn the rules, it’s the feeling that counts”
John Coltrane
Archiviati i tremendi anni ’80, con i ’90 comincia per Carlos Santana un incredibile Pigiama Party che porterà a un’insperata resurrezione a fine decennio. Carlos, come a testimoniare un nuovo clima, cambia look adottando dei completini multicolore e, siccome la calvizie incombe, tagliandosi la chioma. Anche lui colpito dalla Sindrome di The Edge (MAI a capo scoperto in pubblico), esibisce dei berrettini che sembrano quelli di Gullit che vendevano allo stadio, con i capelli finti attaccati sulla nuca. Ma queste son pinzillacchere perché Carlo il Calvo, fuso definitivamente coi Santana, è in una nuova fase musicale e spirituale. Non insegue più il successo a tutti i costi e fa la sua cosa. La band è stringata e tosta e il nuovo Spirits Dancing In The Flash del giugno 1990 è un buon disco, dedicato al boxeur Julio Cesar Chavez, il campione dei campioni. E io credo nella preveggenza, perché il riferimento è chiaramente un messaggio subliminale per esaltare il Chavez venezolano di là da venire.
La copertina mescola i soliti temi, col faccione di Carlito, angeli annunciatori e costellazioni. E su vinile, assicuro, è una cover persino elegante. Come molta della musica presentata, specialmente le partenze dei due lati dell’album, che rimarranno a lungo nelle scalette dal vivo. Tra gli amici che collaborano: Vernon Reid dei fantastici Living Colour (gran gruppo da recuperare) alla chitarra, Bobby Womack alla voce e Wayne Shorter (per Soweto) al sax. Certo, ci sono anche una It’s A Jungle Out There sul dramma delle lotte tra gang che non ci risparmia i consueti versi animaleschi o le sirene della polizia. Così come, a tratti, si sentono dei synth tremendi o un basso un po’ gommoso, ma del resto era il sound imperante in quegli anni lì. È evidente, rispetto al passato, il ruolo spirituale che Carlos si attribuisce e tra le liner notes si notano diversi sermoncini che richiamano alla pace, tra cui spicca questo: “Oggi tutti dipendono troppo da soldi, cibo e benzina. Questa musica è il ponte per ricordarvi quell’energia interiore, lo spirito, che vi porterà alla destinazione finale”. E tutti a toccarsi le palle. L’album vende così cosà, ma è una buona ripartenza.
La vita continua tra concertoni (Rock in Rio, o in Cile, con dedica alle madri dei desaparecidos) e anche un inaspettato arresto: nel 1991 il terrorista Carlos viene fermato all’aeroporto di Houston per possesso di marijuana, vizietto multato che rende l’abuelo simpatico alle nuove generazioni. L’album del 1992, Milagro, è programmatico: si vuol liberare la gente con la musica. Non vende niente (ma proprio niente, tanto da non entrare in classifica per la prima volta) anche se è bello forte, vitale, sincero, accorato. Carlos abbraccia Marley e la consapevolezza terzomondista. Omaggia Miles Davis e Bill Graham (appena mancati), cita Martin Luther King e Nelson Mandela e invita alla preghiera e alla consapevolezza. E grazie anche all’esuberanza strumentale, glassata dalla chitarra liquida che conosciamo, si balla, si canta e si gode come non avveniva da anni.
Viene anche il momento del ritorno a casa e, dopo dichiarazioni di fuoco sulla situazione in Chapas e una profezia che ancora non s’è avverata (“Cadrà anche il muro tra Messico e USA”), Re Carlo torna dalla guerra e “lo accoglie la sua terra, cingendolo d’allor” in alcuni splendidi concerti a Mexico City che verranno poi riproposti su disco e vhs l’anno venturo (l’ottimo Sacred Fire, novembre 1993). La dedica stavolta è a Caesar Chavez, sindacalista socialista messicano molto attivo in USA. E ditemi se anche qui è un caso.
Il 1994 è anno di tremende celebrazioni e Santana non può sfuggire all’ennesima Woodstock. Stavolta però trattasi di un festival mediocre, organizzato per una “Generazione X” mediocre e da cui verrà tratto un film mediocre, che illustra semplicemente una sorta di Spring Breakdown con musica, dove si fugge dalla famiglia per un week end, ci si sconvolge in santa pace nel fango e si tromba come ricci, per poterlo poi raccontare ai compagni di college rimasti a casa. Che invidia, maledetti!
La vera Woodstock di quegli anni è itinerante e si chiama Lollapalooza. Per dire: nella Woodstock di cartapesta del 1994, gli unici neri che si vedono sul palco sono nella band di Carlos, negli Allman Brothers o nei Rage Against The Machine. A fine anno esce un album dedicato alla famiglia, Brothers, dove la chitarra ruggente di Carlos si confronta con quella del fratello Jorge e di un nipotastro metallaro. Album perlopiù strumentale, ben riuscito e che finisce subito malinconicamente in nice price.
Dalla metà degli anni ’90 in poi è un continuo girare per il mondo, portando alle masse e alle massaie una musica che è “un matrimonio perfetto: la donna è melodia, l’uomo è ritmo. Il letto non è importante: jazz, rock, reggae…”. E il vostro umile scribacchino ha il battesimo del fuoco in un Palatrussardi milanese gremitissimo. Avrò male ai polpacci per i due giorni seguenti, perché quel ritmo insistente, traditore come un vinello giovane, leggero e ubriacante, ti porta a muovere il bacino e spostare i piedi a tempo, avanti e indietro come un automa. Sempre perso per pregressa ignoranza, pigrizia, indigenza o lontananza (cazzo, ha suonato a Lamezia e a Genova mai!), quando lo vedo è soprattutto un’epifania che mi consegna a una confusione mentale che, come questi scritti evidenziano, perdura tuttora.
L’anno dopo Carlos fa anche una data singola in Perù, pigliandosi una rivincita in quella Lima dove i militari, 24 anni prima, gli avevano impedito di suonare. Ma forse l’esperimento più godurioso per noi italioti è la jam bolognese dell’ottobre ’98, con gli Elio e le Storie Tese.
Chi vuol essere milionario?
Il profilo pubblico di Santana è ormai quello di un padrino musicale, magari un po’ strambo, ma degno del massimo rispetto. Collabora con tanti giovani talenti, sapendo che la fatica sarà ripagata. L’accasamento nella major Arista, porta il chitarrista alla corte di un vecchio amico, il produttore Clive Davis dal fiuto straordinario. E che costruisce pazientemente in 5 anni un album che possa vendere, e tanto. Carlos dichiara che lavora “per espandere la coscienza. È l’unica cosa importante. Tutto il resto è show business”.
Uno show business da 25 milioni di copie, come si vedrà.
Come titolava uno spaghetti-western stracult (Lo irritarono e Santana fece piazza pulita), Carlos si piglia la sua rivincita su critica e pubblico facendo il botto fortissimo con Supernatural (1999).
In un momento in cui la musica latina torna ad essere popolare, al punto che vendon dischi persino una smutandata come Jennifer Lopez o un manichino come Ricky Martin, Santana intercetta ancora una volta il pubblico danzereccio e quello rock, unendo culture, ceti sociali, età e richieste diverse. L’album è perfetto, divertente, prodotto benissimo e ricco di comparsate significative: ci sono Eagle Eye Cherry, Everlast, Rob Thomas, Lauryn Hill, Wycleaf Jean, Ozomatli, Dave Matthews, Manà ed Eric Clapton (che emenda i suoi peccati pop con questa partnership). Carlos dichiara che attraverso la meditazione e i sogni gli è arrivata questa indicazione: “Devi raggiungere le high school e le università, devi andare sulla radio…”. Seee.
Fatto sta, però, che per tutto il 2000 saremo ossessionati dal frizzante cha cha di Corazon Espinado o dalla cafonissima Maria Maria, una West Side Story da nuovo millennio, con pacchiani richiami autopromozionali e l’elegante invito ad alzare il sound system.
“Pensano che dietro ci sia una formula, un trick, ma non è vero perché se dai lo stesso amplificatore e le stesse canzoni a qualcun altro, non funzionerà. Perché non hanno le mie intenzioni, motivi e scopi”. Dàgli torto.
L’album vince 9 Grammy Awards e a Carlos non danno solo quello per il miglior copricapo. Il momento è tale che esce anche un disco-intervista (Santana In Conversation, immagino i discorsi). E vende! A questo punto è la ricetta di Supernatural a venire ripetuta, solo che è difficile superarla. Nel 2002 viene pubblicato Shaman e le canzoni sono essenzialmente pop, con ospiti di riguardo e una produzione democristiana attenta a cogliere il sound del momento e a coprire tutti i generi musicali, da Placido Domingo al turbo-merengue da villaggio Francorosso, guarnendo poi con percussioni e chitarra satura. Il titolo dell’album è ancora una volta emblematico: “C’è della bontà in ognuno di noi e questo ci rende sciamani. Guaritori spirituali. Lo facciamo con la musica… Mia moglie mi ha detto: penseranno che ti sei fatto un trip quando dirai che sei uno sciamano”. Ma no, che vai pensando! Nelle interviste salta fuori prepotentemente anche la storia dell’angelo custode Metatron e la mia ipotesi è, come dimostra il disco prodotto, che l’angelo ormai lo possieda. E non sono il solo: in Rete ci sono gruppi di fondamentalisti convinti che Metatron sia un angelo caduto tipo Lucifero.
Come sempre, è la dimensione live che ci restituisce il Santana migliore e vi consiglio spassionatamente un Dvd raro ma imprescindibile: Trey Anastasio Live at the Warfield. Anastasio, già leader dei Phish, suona a San Francisco, e vuoi che non faccia una capatina l’idolo locale? Ne risulta un orgasmo raggiungibile senza neanche sfiorarsi: 84 minuti di clamorosa improvvisazione, scambi chitarristici telepatici e fughe solistiche di tutti i musicisti. Qualcosa di incredibile, con la notevole botta di culo della troupe pronta a riprendere. Il Dvd si compra solo via Internet e lo consiglio a chiunque ami la musica: è eccezionale.
“Invecchiando puoi diventare senile o gracious: senile se pensi che stiano tutti pronti a fotterti, gracious se capisci che hai qualcosa da regalare al mondo”. Carlos è decisamente gracious e i primi dieci anni del secondo millennio passano tra tour continui, dischi che valgono poco e tante significative apparizioni e uscite pubbliche. C’è la rabbia per la morte del batterista di Coltrane, Elvin Jones, che nessuno ricorda (“Provo imbarazzo per questa nazione, per MTV, VH1 e Rolling Stone, perché è da razzisti non dare il credito che merita un musicista come Elvin Jones. L’America è un posto talmente ignorante”). Ci sono i concerti a Montreux del 2004 in cui Carlos, assieme a tanti jazzisti (Shorter, Hancock, Corea, McLaughlin), omaggia i messaggeri di pace Lennon e Marley, oppure la serata in cui celebra il blues con gli ultimi eredi viventi della tradizione (Clarence Gatemouth Brown, Buddy Guy e Bobby Parker). Le uscite discografiche proseguono a getto continuo: il momento è buono e si batte il ferro sinché è caldo. All’insignificante Ceremony — Remixes & Rarities del 2003 segue, nel 2007, l’opaco All That I Am. La strategia commerciale è chiara, per Carlos il villaggio globale è un villaggio vacanze e dopo anni di duetti con artisti jazz o comunque laterali rispetto al business (Salif Keita, Olatunji, Vernon Reid, l’italiano Paolo Rustichelli, i bluesmen come John Lee Hooker e Buddy Guy), adesso ci si concede ai pop idols (e pure a quelli rock, come Kirk Hammett dei Metallica) e si arriverà anche alla collaborazione sacrilega con Eros Ramazzotti e Shakira.
Il ruolo di nuova superstar dà evidenza anche a tante dichiarazioni pepate. Dopo anni di proverbiale mitezza, Carlos adesso non la manda a dire, su Bush (cantando “You Gotta Change Your Evil Ways, George W.”), sul nazionalismo (“C’è gente che si fascia con la bandiera americana come un burrito. Posso dire che non m’importa niente la faccenda della nazionalità, messicano o americano. È solo business. Io sono alleato solo al cuore dell’umanità, basta”) e sulla droga, propugnando la legalizzazione della marijuana e l’investimento dei ricavi in progetti educativi. E a chi lo accusa di candore imbarazzante, risponde così: “Mi danno dell’infantile… sono solo innocente come un bambino. Dylan lo chiama essere Forever Young”.
Siccome non c’è solo la musica, Santana fa quattrini a palate anche con la sua fondazione Milagro, con la quale dona 3 milioni di dollari. Vanno alla grande anche le calzature griffate “Carlos” (sandaloni burini con zeppacce, cinghie e cinturini, ovviamente vendutissimi: 100 milioni di dollari di utili) o lo spumante invecchiato 3 anni e mezzo “Santana Reserve Brut”, a base di pinot nero e chardonnay: frizzante, costosissimo e consigliato per ostriche, sushi o — giuro — patatine fritte. L’ultima avventura commerciale è la partecipazione alla catena di ristoranti di cucina messicana “Maria Maria”, ennesimo successo nonostante il nome sembri l’invocazione dell’avventore avvelenato.
Poi, a fine 2007, come in un classico cluster statistico, succede di tutto nel giro di dieci giorni: l’11 muore il vecchio guru mai rimpianto Sri Chinmoy, il 16 viene licenziata la raccolta definitiva Ultimate Santana e il 19 Deborah annuncia il divorzio per “differenze inconciliabili”. Dopo 34 anni di vita in comune (Deborah non deve avere i riflessi prontissimi) la fiaba del rock si infrange. Ma non è finita. Nel 2008, un’intervista di Rolling Stone sconcerta tutti: Carlos rivendica le sue capacità amatorie post-divorzio senza aiuto di Viagra e annuncia che a 67 anni smetterà di suonare per dedicarsi esclusivamente alla predicazione. Come Little Richard, chiarisce. E hai detto niente: una pazza!
Vabbeh, nella scala Giovanardi/Richards (scala che misura il coefficiente di vaccate espresse aprendo bocca, dal massimo al minimo), Carlos non si piazza male e gli si possono perdonare queste uscite incongrue, attribuendole al suo corazon espinado causa separazione dalla moglie.
E in fondo, anche se la conversione di Little Richards del 1957, all’apice del successo, fu decisamente più spettacolare (gettando i gioielli dall’aereo su cui stava volando), la mattana durò poco e la Pesca della Georgia tornò presto a gorgheggiare e schiantare di colpi il suo pianoforte.
Io son sicuro che anche tra dieci anni Carlos sarà ancora tra noi. Voi, per non sbagliare, tornando a casa, sparate Abraxas in cuffia ai vostri figli e ditegli: questa è una carezza di Santana.
Un’ultimissima quisquilia. Nella sua autobiografia, Miles Davis ha dichiarato: “Per tutta l’estate del 1970 andai in giro a suonare nelle arene rock con Carlos Santana, il chitarrista chicano che suona latin rock. Cazzo, quello sa veramente suonare da dio. Mi piaceva da morire come suonava, ed è una persona molto gradevole”.
Ecco, con questo ho detto tutto.
Ciao, bella gioia!
(5 — Fine?)
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