di Marilù Oliva
Licia Giaquinto, nata e cresciuta in Irpinia, ha scritto il suo quarto romanzo, “La ianara” (Adelphi, 2010, euro 16.50), proprio pensando alla sua terra e alle leggende antiche che ne hanno scandito i secoli. Leggende che hanno incentivato una rilettura misteriosa e affascinante dell’agire umano e degli eventi sia del singolo sia della comunità sia della natura: «Uomini, donne, fiori, animali, piante: ogni cosa conserva la traccia della propria esistenza anche quando non esiste più» (p. 23). Adelina è “La ianara”, la strega detentrice di saperi sconosciuti e arti curative, reietta dal paese, cercata al bisogno, selvatica nello spirito e nel corpo, che tenta di sfuggire al suo destino e si va a ficcare, senza saperlo, nel più invincibile e terribile tra gli incantesimi: l’amore. In questo caso, l’amore pazzo per il signore del grande palazzo. E vi si abbandona con la forza selvaggia che è, per ogni ianara, energia essenziale e spirito sacro.
Sei molto legata alle tue origini irpine e all’universo leggendario che queste terre conservano. Partiamo dal mito e dal territorio. Cosa ne resta, oggi?
Fino a un certo punto della mia vita ho pensato di poter essere nomade, e di riuscire a vivere “oggi qua domani là”, poi a mano a mano che passavano gli anni ho cominciato a sentire sempre più forte quel dolore dolce di nome nostalgia, che provano tutti coloro che hanno lasciato la loro terra d’origine, non importa se benigna o matrigna, e che spinge anche gli eroi più avventurosi, vedi Ulisse, a cercare la via del ritorno. Ritorno che sarà sempre deludente, perché il luogo da cui si è partiti e che ci abita coi suoi odori, sapori, suoni, immagini, e soprattutto la sua lingua, è un desiderio, e non troverà mai rispondenza in un luogo “reale”.
L’Irpinia, come molte realtà arcaiche, è rimasta quasi invariata per millenni, poi improvvisamente con la costruzione di strade e la diffusione capillare della televisione si è trovata esposta ai venti della modernità che in poco tempo hanno spazzato via saperi sedimentati nei secoli.
Anche il territorio , bellissimo, è stato in parte devastato. Pale eoliche, discariche, case abusive disseminate ovunque , sono pustole di una peste che non si riesce ad arrestare.
Perché il mito è così presente nella tua produzione (penso a “Fa così anche il lupo”, Feltrinelli, 1993)? È stata un’assimilazione che prevede una fuoriuscita spontanea o c’è un tentativo di salvazione dello stesso? Qual è la sua forza attrattiva?
Quando si scrive si pesca nel proprio vissuto. E il mio vissuto più profondo viene dagli anni trascorsi in Irpinia, la cui cultura non prevedeva una scissione tra il mondo reale e quello fantastico. Nella lingua che mi ha forgiato parole come ianara, scazzamurriello(gnomo), e tante altre, designavano oggetti reali, allo stesso modo di casa o albero. Ad essi venivano attribuite qualità e azioni.
La forza attrattiva del mito penso dipenda dal fatto che, seppure cancellato nelle sue forme esteriori, alberga dentro di noi sotto forma di archetipi che continuano a improntare le nostre azioni più profonde. Noi ne riconosciamo la forza pur non conoscendone più il nome.
Hai mai conosciuto una ianara? Se ne parlava, quando eri bambina o non la si nominava? Quali sensazioni ti ha trasmesso e cosa ti è rimasto?
In un paese come quello in cui sono vissuta, le ianare non erano figure fantastiche, ma reali. Io ne ho conosciute. Mi hanno sempre affascinata. Vivevano ai margini, non rispettavano nessuna regola, si accoppiavano con chi volevano, erano sfrontate, non andavano in chiesa, sapevano guarire, facevano aborti. Si diceva che di notte si accoppiassero con il diavolo. E anche questo per me era affascinante.
Adelina, la protagonista, ha un destino segnato. Diventerà ianara come sua madre , come sua nonna. E sarà dannata. È per sfuggire a questa sorte che lascerà ogni cosa e vagherà per campi e paesi finchè arriverà al palazzo del conte. Lì diventerà l’ultima delle sguattere: «Fa tutto quello che le chiedono di fare senza mai pretendere niente da nessuno, fosse anche la più umile delle serve». Il personaggio colpisce per questa sua capacità di celare la sua eccezionalità sia di vissuto che di sensibilità, adattandosi alla quotidianità di serva.
Adelina è un essere straordinario. Tutto ciò che interessa gli altri non la tocca. Può essere serva o padrona, indifferentemente. Lei è protesa verso un unico scopo, il compimento del suo nuovo destino, che la porterà per quarant’anni ad essere la folle custode della follia del conte, in un palazzo abbandonato da tutti, dopo che un susseguirsi di morti tragiche hanno gettato su di esso l’ombra nera del maleficio.
Lo stile. So che procedi “a cascata”: scrivi, scrivi, scrivi, poi ritorni, tagli, correggi, rileggi in una estenuante lotta col testo. Quando capisci che è arrivata la compiutezza formale e non occorrono più ulteriori interventi?
Quando ritengo, e in questo posso naturalmente sbagliarmi, che ogni parola è strettamente necessaria e che tutta la costruzione è solida e senza sbavature. Questa consapevolezza, a volte, avviene all’improvviso. E mi sembra un miracolo che quella specie di foresta intricata in cui mi sono inoltrata durante la scrittura di un romanzo alla fine diventi un bosco ordinato con alberi , fiori, sassi, tutti ben visibili e delineati. Infatti quando scrivo vengo assalita non dall’angoscia di che cosa dire, ma di cosa togliere dalle possibilità infinite che la pagina bianca offre.
L’amore è vissuto come passione devastante o come dannazione: il conte e il suo tormento per una bambina selvatica, poi Adelina e l’ossessione per il conte.
In effetti credo che uno dei temi fondamentali del romanzo sia l’amore. Un amore devastante, appunto, che sconvolgerà le vite di coloro che saranno toccati da questo sentimento e li porterà alla follia.
Ci riporti una citazione che dia un’idea di questa devastazione?
La notte ha voci che, di giorno, la luce rende mute.
Adesso che più nessuno parla, sono le sole voci che Adelina ascolta.
Quando fa buio si stende sul giaciglio che ha sistemato accanto all’enorme camino, in quella che un tempo era l’affollata e rumorosa cucina, e aspetta.
Sa che arriveranno. Che tenteranno di sfuggire al vento che le incalza senza sosta, cercando rifugio nei corridoi e nelle numerose stanze vuote del palazzo.
Adelina non sa dove vanno. Se avrà una fine il loro andare. E non sa da dove vengono. Sa solo che appartengono ai morti.