di Alberto Prunetti
[Pubblico in un solo post le parti conclusive della versione sintetica di Amianto. L’opera integrale sarà presto fatta circolare come e-book. La prima parte è apparsa su Carmilla qui] A.P.
Un uomo forte. Ma gli anni Settanta cominciano a minare il suo corpo. Saldatore, espone gli occhi a una luce intensa, per quanto schermata dalla maschera (quella maschera con cui un giorno mi fece vedere un’eclissi di sole). Carpentiere in ferro, ogni colpo di mazzuolo gli risuona nel timpano. L’udito è rovinato, non ci sente più, dovrà installare un apparecchio acustico. Gli occhi, feriti dalle fiamme dell’elettrodo, chiedono lenti sempre più potenti. E i denti cadono, uno dopo l’altro, provati dai metalli pesanti a cui è costantemente esposto. 1985: Renato ha quarantanni, poco più di quanti ne ho io adesso. È ancora magro e muscoloso, apparentemente in ottima forma. Ma già ha bisogno di una serie di protesi per connettersi al mondo: occhiali, dentiera, apparecchio acustico.
In questi anni comincia a riscuotere una pensioncina INAIL per la sordità a un orecchio, riconosciuta come malattia professionale. Viene infatti dichiarato invalido di lavoro con una parziale riduzione della capacità lavorativa.
Aumentano gli acciacchi, continua il vagabondaggio industriale. Per la Gargano Renato va a lavorare in uno dei luoghi più infausti d’Italia, Casale Monferrato. Oggi sappiamo che l’Eternit, proprietà di una famigerata multinazionale svizzera, ha avvelenato la vita di migliaia di persone. I casi di morti per mesotelioma, provocato dalle fibre sottili dell’amianto che si infilano nei polmoni e che esplodono come mine a distanza di anche venti anni, sono ormai più di 600. Sono morti gli operai che manovravano amianto, ma anche le mogli che lavavano le loro tute, o gente che andava a prendersi gratis gli avanzi di lamierine ondulate da mettere nell’orto. Renato lavora in una raffineria, la Maura di Coniolo, a 5 minuti da Casale Monferrato.
Nel suo lavoro Renato, “tubista provetto” (com’è scritto nella qualifica del libretto di lavoro) prendeva i tubi e li liberava del rivestimento di amianto. L’amianto è sostanzialmente meno pericoloso fino a quando è ricoperto di qualche materiale, o è legato al cemento, ma diventa letale quando si sbriciola: in quell’istante le fibre si disperdono nell’aria e, minjuscole come sono, non vengono trattenute dalle sottili ciglia delle narici e possono penetrare nei polmoni, provocando l’asbestosi (una malattia respiratoria provocata dalle cicatrici delle fibre d’amianto) e carcinomi. E Renato respirava quell’aria ogni giorno, sostituendo coibentature o smantellando tubi d’amianto (la memoria mi riporta alla mente delle strane forbici verdi che Renato mi prestò per tagliare una lamiera in metallo per costruire la cuccia del mio cane: “sono forbici da lattoniere, ci taglio gli ondulini”. Ondulino nel gergo toscano indica una qualsiasi lastra ondulata. Le lastre che maneggiava lui erano d’amianto: impermeabili, resistenti alle alte temperature. Ottime, se non fossero letali).
Anno dopo anno, Renato continua a passare di cantiere in cantiere, sempre in quei luoghi dove adesso sappiamo che l’incidenza di morti per amianto è superiore al resto d’Italia: Liguria, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Lombardia. Oltre a coibentare e saldare, deve raschiare, smerigliare, e tagliare (pezzi di amianto). A volte è costretto, lavorando in ambienti fortemente infiammabili, come le raffinerie, a saldare coprendosi completamente con un telone d’amianto, materiale a prova di incendio. Ma se il telo protegge l’impianto da un incendio, non protegge Renato dall’esalazione dei fumi della saldatura in un ambiente non ventilato: i gas di saldatura, assieme alle emanazioni provenienti dal riscaldamento di acciai verniciati, mettono il saldatore a contatto con piombo, rame, zinco, cadmio. E c’è anche a chi va peggio. Una sera torna con una faccia seria a casa: un suo collega è stato investito dallo scoppio di un tubo che gli ha lanciato contro una pressione di vapore micidiale. È morto. Altre volte i racconti sono di mani schiacciate, di gente intrappolata nelle grinfie delle macchine. E lui torna sempre con le bruciature addosso e i polpacci rovinati dalle ustioni delle scintille degli elettrodi con cui salda.
Ma riuniamo il filo del racconto, che tende a perdersi in tanti rivoli. Renato torna per un periodo a lavorare in Toscana. Un periodo in cui ho molti ricordi diretti anch’io.
È il 1982. Alcune imprese lanciano un nuovo progetto: costruire serre per floricoltura utilizzando il calore naturale della geotermia nel territorio altamente boracifero di Santafiora, sulla montagna amiatina, al confine tra le provincie di Grosseto e Siena. Ci sono nomi grossi del panorama industriale italiano nel cantiere. L’appalto per la costruzione del sistema linfatico di tubi viene vinto dalla ditta Gargano, e ci mandano come montatore tubista anche Renato, che parteciperà alla costruzione delle serre geotermiche più grandi d’Europa. Una volta tanto, poi, lavorerà vicino casa. Renato propone a mia madre di venire a passare l’estate con lui sull’Amiata, non appena io e mia sorella finiremo le scuole. A metà giugno affitta un appartamento a Piancastagnaio, a pochi chilometri dal cantiere. Per me, tempo per giocare a pallone, un paese coi muri di sasso e i ragazzetti del posto divisi in bande rivali. Mi accettano subito in un gruppo perché me la cavo a dar calci al pallone. Ricordo i casini che Renato pianta di notte coi colleghi, con Angelo e Mauro. Il venerdì sera tornavano a casa ubriachi cantando e Francesca li prende a secchiate d’acqua dalla finestre. Cene continue, a casa, al ristorante, e poi serate sotto i castagni all’aperto, con io che a 9 anni sono un patito di Alberto Camerini, del suo Arlecchino-robot che ascolto continuamente infilando le 100 lire nel juke-boxe. E poi finalmente il grande evento: i mondiali di Spagna. Tutto il cantiere si infila nel ristorante, per guardare le partite uno addosso all’altro. Renato torna di corsa dal cantiere, cammino con lui nelle vie vuote e silenziose, dove echeggia solo il rumore della radiocronaca. Per strada mi racconta delle rivolte popolari nel dopoguerra a Livorno, quando la gente considerava i soldati delle basi americane come degli occupanti, e i livornesi li menavano mentre le donne lanciavano dai balconi materassi incendiati sulle teste degli “ienchi”. Mi parlava allora di posti esotici, come Corea e Shangai, e ci ho messo un po’ a capire che non dovevo cercarli dall’altro lato del mappamondo, ma dentro Livorno, nei quartieri proletari, in quella Shangai da dove, come dice la canzone, “tra le case di operai / si vedevano le Hawaii”. Un racconto rotto da un boato. Paolo Rossi ha segnato, l’Italia è in vantaggio e noi siamo ancora per strada a parlare di Shangai e Corea. Bestemmioni terribili. Anche durante le partite. Contro l’Argentina, contro il Brasile, la Polonia. Rossi continua a segnare, la grappa e il vino ammantano le feste serali degli operai del cantiere. Per festeggiare la vittoria Renato salda dei pezzi di lamiera e costruisce un forno artigianale. Degli operai sardi si metteranno a arrostire il maiale procurato da un altro maremmano. I veneti e i lombardi portano le grappe. Sarà una festa tremenda, ma quando arriva il temporale estivo bisogna scappare e io rimango a piangere sotto la pioggia perché non mi è toccato il dolce, portato poi via di peso da mia madre.
Finiscono i mondiali e Renato continua a parlare di calcio tra una saldatura e l’altra, ancora sul Monte Amiata. Ma anche questo progetto, apparentemente ecologico — fiori, geotermia e sole — in realtà è segnato dalla “maledizione della montecatini”. Adesso, lo sappiamo solo adesso, ma il livello di mercurio, un altro minerale letale, nelle zone attorno alle serre costruite anche da Renato è sensibilmente più alto del passato. Le esplorazioni minerarie e i nuovi soffioni boraciferi aperti in zona hanno portato alla luce non solo il calore della terra, ma anche mercurio, radio, arsenico. Ancora nocività, ancora malattie e tumori, emissioni che colpiscono i polmoni e l’atmosfera, aggravando l’effetto serra.
Ma questo Renato non può saperlo. Lui torna a lavorare nel nord e adesso la crisi si fa sentire. O se non è la crisi, è la ristrutturazione del capitale. La Gargano comincia a mettere sempre più dipendenti in cassaintegrazione. Succede anche a lui, prima per brevi periodi, poi per periodi più lunghi. In casa c’è un clima pesante. Renato legge i giornali per capire che diavolo sta succedendo. Coi pochi spiccioli della cassaintegrazione è difficile campare, arrivare a fine mese. A natale non trovo neanche il regalo dei miei sotto l’albero. Renato accetta un’ipotesi di lavoro che diventerà poi un modello negli anni a venire. Mettersi in proprio, aprire partita iva per continuare di fatto a fare lo stesso lavoro, negli stessi cantieri. Lo fa per un periodo di qualche anno, dal 1985 al 1990. Nominalmente, al lordo, guadagna di più, ma tutte le spese di tasse e previdenza si mangiano le entrare. Chi ci ha guadagnato, è alla fine solo il padrone. Padrone che tra l’altro, vista la mala parata, dichiara fallimento, cambia ragione sociale, e se ne va per i fatti suoi.
Passano gli anni. Per chi deve rimanere a lavorare nel cantiere, la partita iva non è un grand’affare, nonostante il titolo gratificante di “artigiano”. Renato decide allora di trovarsi di nuovo un impiego come dipendente e viene assunto dalla Crosa. La Crosa è una ditta con sede a Cairo Montenotte (SV): si occupa di montaggio, manutenzione e costruzione di impianti industriali. Negli anni Novanta la Crosa ha un appalto all’interno della Raffineria IPLOM di Busalla, ed è proprio in questo stabilimento che Renato, per conto della Crosa, viene assunto con la qualifica di “Addetto alla saldatura, montaggio e manutenzione di Impianti Industriali”. Lavorerà qui dal 02.07.1990 al 30.09.1997.
Busalla è un piccolo paese in una vallata dell’Appennino ligure. Una corona di casette circondate dal verde dei boschi, tagliati dall’autostrada che da Genova sale fino a Milano. E gli abitanti tutti assunti dalla ditta, che dà il ricatto del pane e pretende il diritto di inquinare. Quasi un gioiello, se non contenesse un drago pronto a sputare fiamme al suo interno. Quel drago si chiama IPLOM ed è una raffineria di petrolio. L’impianto di raffinazione IPLOM è classificato “a rischio d’incidente rilevante” dal D.P.R. 175/88; “trasforma e lavora, tra le altre, sostanze chimiche contrassegnate dal marchio R45, che indica un elevato potere cancerogeno nell’uomo.”
Uno stabilimento nel centro stesso del nucleo abitato, con le case a duecento metri dai muri che perimetrano i serbatoi pieni di greggio. Un impianto che ogni tanto rilascia una nube nera o versa idrocarburi nelle acque circostanti. E soprattutto una bomba a orologeria pronta a esplodere. E che ogni tanto è esplosa. È successo nel 2008. E prima ancora nel 2005. E ancora nel 1991. E quella sera di fine agosto del 1991, quando dopo una vampata le fiamme si alzarono fino a 20 metri, nel cuore del drago c’era anche Renato. Terrore, calore, paura che le fiamme attacchino il petrolio. Che tutto salti in aria. Le sirene che suonano, i feriti. La gente impazzita fuori dallo stabilimento che si ripara nei boschi. Gli operai in fuga, travolti e investiti dai soccorritori, come successe a un suo collega, come stava per succedere anche a lui. Voltarsi, schivare il furgone impazzito. Ambulanze. Vigili del fuoco. Carabinieri. Il sindaco minaccia. La proprietà promette indagini. Lavare l’immagine dell’azienda (mettere un paio di borse di studio per i figli degli operai?). E i sindacalisti? Ricordiamo ai compagni che criticare la fabbrica è come sputare sul piatto in cui si mangia… (“E che cos’è questo fuoco? Pompieri, pompieri…” cantava Piero litaliano).
E si ricomincia, mentre a Busalla la media dei tumori è più alta che nel resto d’Italia.
Capitolo 3. Cuore stanco
Finalmente la pensione è vicina. Non senza l’ennesima fregatura: Renato dovrà sborsare una caterva di soldi all’INPS, 36 milioni delle vecchie lire, per effettuare la ricongiunzione dei contributi versati tra il periodo in cui si è messo in proprio e gli anni come dipendente. Una “saldatura” costosa.
Ormai è un pensionato. E già un po’ che cerca di rallentare i ritmi, comincia a dedicarsi alla campagna, sta dietro al mio cane (io sono andato a vivere per un anno e mezzo in Inghilterra), cura l’oliveta di mio nonno, va a fare i funghi con Francesca. Deve costruire un cancello in ferro per un contadino. Conosce un fabbro che lavora ancora il ferro forgiandolo sul carbone e pensa di imparare gli antichi segreti di quella pratica che lui ha esercitato su scala industriale. Ripara qualche rubinetto a casa di conoscenti. Si immagina come godersi in una dimensione più intima le sue conoscenze professionali.
Ma sta anche invecchiando molto velocemente. Troppo velocemente. Respira con affanno, è un po troppo lento, anche nei riflessi, quando guida o quando fa l’orto.
Un giorno, estate 2002, cade da un albicocco mentre cerca di raccoglierne i frutti. I suoi riflessi sono appannati. Primo novembre 2002: come sempre, ogni anno è in questo giorno che a casa si comincia a fare la raccolta delle olive, nell’oliveta di Scarlino che era di mio nonno. Lui non ha voglia. Se ne sta attaccato al camino, al chiuso. Un comportamento inspiegabile. Il suo umore è strano, di giorno non mangia, la notte non dorme. Sta sempre peggio. Francesca lo fa visitare, accusa un dolore alla gamba, solo una sciatalgia per la dottoressa. Gennaio 2003. Ormai sta troppo male. Lui rifiuta di curarsi. Francesca lo convince. Prendo le chiavi della macchina e lo porto in ospedale. Di corsa, perché mi aspettano a lavoro (in quel periodo lavoravo a Punta Ala come stalliere e manovale in un centro ippico). Prima a Massa marittima, poi a Grosseto. Poi a Siena.
La TAC è un cazzotto in faccia: lesioni cerebrali. Un macchia su una lastra trasparente.
Renato viene ricoverato presso l’ospedale Le Scotte di Siena il 25 gennaio 2003, alle 18.50, nel reparto di neurochirurgia, all’ottavo piano. Nella confusione mentale in cui si trova, dovuta a una quantità spaventosa di liquido, prodotto dalle cellule tumorali, che gli schiaccia il cervello, la sua hyubris livornese non viene meno. Bestemmia e dice: “m’è toccato finire all’ottavo”. L’ottavo, o meglio l’ottavo padiglione, come sa ogni labronico, è quello dei matti, a Livorno, e certo a neurochirurgia l’ambiente è quello.
Da tempo la sintomatologia insorta era caratterizzata da facile stancabilità, alterazioni del tono dell’umore, talvolta disorientamento spazio-temporale, disturbi della memoria. Durante la degenza in ospedale il quadro si aggrava: disturbi dell’equilibrio, stazione eretta incerta. Si procede allora a un intervento chirurgico di biopsia intracerebrale, con aspirazione della componente liquida. L’esame istologico della biopsia evidenzia la metastasi di un carcinoma, ovvero di un carcinoma anaplastico a piccole cellule. Più precisamente, la diagnosi è questa: metastasi intracerebrali multiple in paziente con neoformazione a piccole cellule a livello della regione mediastinica.
Queste le parole del gergo tecnico della medicina. Ma le parole con cui Renato descrive la sua malattia sono molto più bizzarre. Perché la degenza di Renato è veramente folle, ma alla livornese: diventa il peggior paziente della storia del reparto, uno che ha “picchiato la testa”, che deve spendere tutta la scorta di indisciplina che gli rimane. Fuma tranquillamente in corsia. Chiama “badessa” la caposale e manda a fanculo un prete. Dalla sedia a rotelle, guardando il Milan in coppa, si alza per spiegare come battere un rigore. Se riesce a camminare, porta le mogli dei degenti a prendere il caffé al bar o prova a convincerle a andare a fumare con lui al bagno. È conquistato dalla bella moglie di un altro paziente, appena operato per tumore, e che lui ha ribattezzato “mucco” perché assomiglia a un toro. Un giorno decide di trasformarsi in “mucco”, che intanto è andato a fare un po’ di riabilitazione. Renato apre l’armadietto di “mucco”, indossa i suoi abiti, si mette le sue scarpe. Quando arriva la moglie di “mucco”, che lo guarda allibita, gli dice: “’gnamo, bella, si va a casa”.
Quando vede che medici e infermieri si sono abituati a certe burle, decide che è il momento di aumentare il livello di scontro e passa allo scatologico. Una notte si alza e piscia su un muro della camera ospedaliera. Un altro giorno prende uno cioccolatino sciolto per il calore di un termosifone, se lo passa sulla testa rapata e preme il pulsante per chiamare gli infermieri. Quando arrivano, temono che sia merda.
Renato torna a casa dopo 3 mesi d’ospedale, con sollievo di infermieri e medici. All’inizio migliora, recupera peso, riesce anche a andare qualche volta a camminare sul corso camminando da solo, a fumarsi una sigaretta sul lungomare. (Sì, proprio una sigaretta: più facile per il sistema sanitario indicare come cancerogena una sigaretta scelta individualmente che un processo produttivo imposto e subito). Poi rapidamente le sue condizioni si aggravano. Radioterapia, chemioterapia a più cicli, anticoagulanti, antidepressivi, cortisonici. Farmaci e terapie gli avvelenano il corpo quanto il tumore, quanto l’amianto. Tira avanti così per un anno e mezzo. Poi la morfina pompa incoscienza in quello che Nada cantava come un cuore stanco. Muore per arresto cardiaco nel luglio 2004, lasciandomi un’audi 80 del 1991 (euro 0), i tre volumi della Storia del Partito Comunista dello Spriano, 4 dischi di Fausto Papetti, un corso Hoepli di Disegno Tecnico, il Manuale del Tracciatore-Tubista, qualche Tex Willer, trapano, flessibile, saldatrice e una pipa.
Questa è la sua storia, la storia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti alla fine del secolo, ammalati subito dopo avere smesso di lavorare, uccisi da un serial killer micidiale che agiva a Casale Monferrato, a Siracusa, a Monfalcone e in decine d’altri posti. Uno che ha iniziato a guadagnarsi il pane a 14 anni, che è entrato in fabbrica senza mai uscirne, che si è iniettato in corpo titanio, piombo, benzene. Uno che ha visto le condizioni di sicurezza nei cantieri precipitare ogni giorno di più, alla faccia del progresso e delle norme sugli impianti. Uno che si infilava guanti d’amianto, e tute d’amianto, e si metteva lui stesso sotto un telone d’amianto, perché scioglieva elettrodi che rilasciavano scintille di fuoco a pochi passi da gigantesche cisterne piene di petrolio e che sotto quel telone respirava zinco e piombo, fino a tatuarsi un bel pezzo della tavola degli elementi di Mendeleev nei polmoni. Fino a quando una fibra d’amianto, che lo circondava come una gabbia, ha trovato la strada verso il suo torace ed è rimasta lì per anni. E poi, chiuso il suo libretto di lavoro, quella fibra ha cominciato a colorare di nero le sue cellule, corrodendo materia neurale dalla spina dorsale fino al cervello. Una ruggine che non poteva smerigliare. Lesioni cerebrali che non poteva saldare. Guarnizioni che hanno iniziato a perdere, nel tono dell’umore, nella memoria, nella deambulazione, nell’orientamento.
Ricordi. Prima di morire, quando camminava ancora un poco, lo portai a fare alcuni giri. Le spiagge bianche di Rosignano, quelle con le ciminiere della Solvay alle spalle, residui di bicarbonato industriale che simulano un tropico sterile alla livornese. Il poncino dal Civili vicino alla stazione di Livorno. Una cacciuccata vicino ai quattro mori, al porto. La nave Venus incagliata a Caletta, a Castiglioncello, vicino al Cardellino, il locale in cui aveva lavorato tanti anni prima come cameriere e dove aveva ascoltato Nada cantare, quando poi si fecero la fotografia. Il cimitero di Rosignano marittimo, dove sono sepolti mio nonno Santi e l’anarchico Pietro Gori, col suo monumento che l’apuania operaia dedicò, incluso giro per vedere le tombe dei vecchi livornesi che al posto della croce hanno la falce e il martello.
Una corsa in automobile fino a Livorno Calambrone, a vedere i silos, e le cisterne, e sullo sfondo le gru del porto. Macchine, impianti, turbine, circuiti di raffreddamento: la fabbrica era il suo mondo, e non poteva fare a meno di rispondere al canto di quelle sirene cancerogene che gli avevano mangiato i polmoni. Un ultimo ponce dal Civili, poi a Rosignano, al dopolavoro della Solvay a vedere i risultati delle partite. Lo faccio rientrare nella vecchia audi, ripartiamo verso casa.
L’Aurelia è vuota, all’altezza di La California. Di qua il mare e i pini, di là la macchia mediterranea. Fumo di sigaretta in auto. Silenzio. Una canzone di Piero Ciampi, “Livorno”:
Triste triste
troppo triste è questa sera,
questa sera, lunga sera.
Ho trovato
una nave che salpava
ed ho chiesto dove andava.
Nel porto delle illusioni,
mi disse quel capitano.
Terra terra
forse cerco una chimera,
questa sera, eterna sera.