di Valerio Evangelisti
AA.VV., Seven, 21 storie di peccato e paura, a cura di Gian Franco Orsi, Piemme, 2010, pp. 410, € 19,00.
Esiste una solida narrativa italiana “di genere” che, senza essere in alcun modo egemonica nel mercato librario, come alcuni hanno preteso con allarme, si è conquistata una buona quota di lettori. Ha i propri festival, i propri luoghi d’incontro, le proprie riviste. Talora conosce trasposizioni cinematografiche e televisive. Per lo più, salvo importanti eccezioni (Camilleri, Carofiglio, in parte Lucarelli), conduce una vita del tutto separata da quella della letteratura generale. Quest’ultima guarda al “genere” con disprezzo e lo accusa in toto di essere paccottiglia. Peggio, di rappresentare un fenomeno pericoloso, perché toglierebbe spazio nelle librerie all’editoria di qualità, dalle piccole tirature, dalla scrittura raffinata e dai contenuti “alti”. La narrativa di genere, definita in toto di consumo, parteciperebbe quindi attivamente all’attuale trasformazione delle librerie in supermercati, destinati a ospitare prodotti di rapida e facile fruibilità, condannati a un veloce oblio.
Dal canto loro, gli scrittori di “genere” sono di norma indifferenti a simili giudizi, e al disprezzo e alle contumelie periodicamente riversati sul loro lavoro. La maggior parte di essi non appartiene alla categoria “bestseller”, né aspira a entrarvi. Nelle librerie figura su scaffali certo folti, ma ben delimitati, a cui si accosta solo chi manifesta un non generico interesse per la loro opera. Puntano, più che a un riconoscimento letterario complessivo (salvo alcuni, ma sono minoranza), alla fidelizzazione di un determinato pubblico. Non sono interessati a premi di prestigio, si chiamino Strega, Campiello o altro. I più consapevoli di loro considerano quel mondo in maniera beffarda: si sono formati su autori — Salgari, Lovecraft, Conan Doyle, Asimov ecc. — sopravvissuti intatti attraverso i decenni, mentre il vincitore di un premio di fama, al di là dei vantaggi immediati che la vittoria procura all’editore o all’autore, cinque o sei anni dopo è spesso totalmente dimenticato. Il loro è un mondo letterario parallelo, retto rispetto all’altro da diversi scopi, da diversi modi di essere, da diversi comportamenti.
E’ sempre stato così, da molto prima che la libreria si trasformasse in “megastore”. C’è voluto un secolo e mezzo perché Dumas fosse riconosciuto un autore importante, e la sua salma traslata al Panthéon. Salgari conviveva con Fogazzaro e D’Annunzio, ma in un universo separato. Ancora oggi moltissimi critici, persino statunitensi, sono restii ad accordare a Stephen King, o quanto meno a una parte della sua opera, un qualsiasi significato culturale. L’ambito della letteratura è stato compartimentato fin quasi dalla nascita della narrativa come oggi la concepiamo. E’ uno stato di cose di cui va preso atto perché, a parte contaminazioni “pulp” relativamente recenti, non si modificherà tanto presto.
E’ dunque opportuno che, ogni tanto, appaiano antologie capaci di presentare al pubblico lo “stato dell’arte” raggiunto da un determinato filone. Con il mainstream ciò avviene sempre più di rado, perché già gode di retrovie accademiche, di collane consolidate, di riviste importanti, di premi dedicati, di canali di accesso alla stampa quotidiana (un tempo unico canale legittimo per la consacrazione). Invece lo strumento antologico resta essenziale per l’ambito umbratile in cui vive la letteratura parallela, anche perché quello che è diventato un luogo comune dell’editoria — “la gente non legge racconti” — per lei non vale o ha meno peso.
In questa operazione di “vetrina”, dopo molte altre raccolte analoghe, si inserisce questo Seven — 21 storie di peccato e paura, volume curato da Gian Franco Orsi (direttore storico del Giallo Mondadori) per Piemme. Ventuno scrittori, a gruppi di tre, scrivono storie ispirate ai peccati capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia. Storie grosso modo estreme, dunque, collocate ai margini dell’esperienza esistenziale comune, con un più alto tasso di conflitto e di violenza. Criterio che poi rientra tra quelli, tutti ambigui e discutibili, comunemente usati per discriminare tra letteratura e paraletteratura — dove la seconda punterebbe sull’eccezionalità degli eventi e sul brivido o la suspense che ciò provocherebbe.
Ci attendono due sorprese. Nella sua interessante introduzione teologico-letteraria, Orsi si rivela molto incerto nel definire gli autori che ha antologizzato (Altieri, Barbàra, Bucciarelli, Colitto, Gori… non sto a enumerarli tutti). Ogni tanto li chiama “giallisti”, oppure “scrittori di noir”. Ciò sebbene alcuni nomi e alcuni testi si sottraggano a simili etichettature.
Inoltre — qui è la seconda sorpresa — nel leggere i racconti ci si accorge che sono completamente diversi l’uno dall’altro. Vi sono narratori che privilegiano stili sincopati, abolendo gli aggettivi, o mettono in primo piano l’evidenza delle immagini; mentre alcuni loro colleghi preferiscono la scrittura piana e persuasiva, il cesello delle psicologie e delle emozioni. Le tematiche, poi, differiscono radicalmente. Si va dallo sberleffo alla visione apocalittica, dalla satira politica aperta alla tragedia pura e semplice. Non c’è collante, a parte una visione del presente e del futuro normalmente pessimistica.
Non c’è neanche un “genere”, sia pure vago, definito una volta per tutte. Ciò significa che vanno dimenticate le considerazioni da cui sono partito. Anche la narrativa del “mondo a parte” è fatta essenzialmente di individualità niente affatto omogenee, e attende ancora una precisazione delle sue caratteristiche. Questa antologia aiuta, però non è decisiva per risolvere il problema. Aspettiamo la prossima.