di Alberto Prunetti
[Pubblico in tre parti su Carmilla alcuni brani estratti da una biografia operaia in corso d’opera] A.P.
1. Ma che freddo fa
Questa è la storia di uno che si chiamava come me ed era nato nel giorno in cui io sono nato, eppure non sono io. È una storia che comincia con una canzone di Nada. È il 1969, siamo alla fine dei favolosi anni Sessanta e al Cardellino di Castiglioncello Nada Malanina, reduce dal festival di Sanremo, ha appena cantato “Ma che freddo fa”. La fotografano circondata da ammiratori e camerieri. Accanto a lei c’è un ragazzo. È il cameriere più alto, uno magro che somiglia vagamente a Jean Paul Belmondo. Nada ha 16 anni, lui ventiquattro. Lui è Renato, il protagonista di questa storia che comincia con la colonna sonora degli anni Sessanta e finisce con una vittima uccisa lentamente. Se fosse un noir, sarebbe uno di quelli in cui si capisce subito il nome dell’assassino. Una storia di morti bianche, con un colpevole circondato da indizi e tanti complici che negano le sue responsabilità. Senza lieto fine: la minaccia è ancora attorno a noi, libera, pronta a colpire, un killer silenzioso protetto da una legione di medici, ingegneri, consulenti della previdenza, industriali.
Ma procediamo con calma, dai giorni felici. Renato è giovane ma di cartellini ne ha già timbrati tanti: ha smesso di studiare a quattordici anni, prima ha fatto il bagnino, poi il cameriere. Adesso, 1969, fa il doppio lavoro: tuta blu in fabbrica di giorno, alla Solvay, e papillon con giacca la sera, cameriere al Cardellino. Come Nada, Renato è cresciuto tra Rosignano Solvay, il Gabbro, Castiglioncello e la strada tortuosa del Romito, quella che da Quercianella porta a Livorno lungo la scogliera, quella resa famosa da “Il Sorpasso”, dove Gassman esce di strada nel film di Risi. Lavorare ai tavoli dopo la fabbrica forse è un diversivo per provare a ingannare il destino. È assunto in un locale alla moda e si diverte. Passano di lì, dal Cardellino, i nomi della musica leggera italiana, quella che sta rivoluzionando il costume, con le minigonne e i remake del pop-rock anglosassone. La fabbrica è lontana, per una sera, e Nada è vicina. Renato sorride, sa che con quella foto farà morire d’invidia i suoi amici.
Finisce l’estate e l’autunno del ’69 si fa caldo. Renato si toglie la giacca e il papillon per indossare esclusivamente la tuta blu o verde dei metalmeccanici.
La fabbrica è il suo destino. In fondo, la Solvay è il destino della sua famiglia. Suo padre è un muratore e la città-fabbrica lo ha sradicato dalle Colline Metallifere, in quel lembo di terra, boschi di leccio sopra e pirite sotto il suolo, dove le provincie di Grosseto, Livorno e Pisa si toccano. Lavora come muratore, Santi, quando il lavoro lo strappa da Casale Marittimo. In realtà le sue origini si perdono tra i colli di forteto che circondano Pomarance (PI). Ancora miniere e geotermia, terra che ospita gli insediamenti industriali della Montecatini, la regina madre dell’industria chimica di quegli anni. Soffioni boraciferi, pirite. Estrazioni che accumulano manodopera, minatori da infilare in casermoni dove le famiglie si stringono nei letti. Per costruire nuove case, da Pomarance Santi sposta la famiglia prima a Casale Marittimo e poi a Rosignano Solvay, la città che si è sviluppata attorno allo stabilimento industriale del magnate belga Ernest Solvay. Un uomo che sogna una città attorno alla sua fabbrica, una città di dipendenti, un villaggio operaio all’inglese con case in mattoncini marroni tutte uguali, con attività ricreative, giardini, dove il legame di dipendenza tra la grande madre fabbrica e i piccoli nuclei familiari dei lavoratori siano espressi anche dall’architettura. Ormai la spinta a costruire sul modello edilizio di Manchester è finita, ma c’è ancora bisogno di mani che trasformino il salgemma in bicarbonato, e servono tetti per quelle mani. Per costruire le case degli operai, ogni giorno in bicicletta Santi macina chilometri. Fino a quando non si stanca e decide di andare a vivere anche lui sul mare, in un appartamento in un casermone popolare, via Lungomare, perennemente flagellato dalle libecciate. Questi sono ancora gli anni Cinquanta.
A Solvay Santi si porta dietro tutta la famiglia. Renato è il primo dei quattro fratelli e non ci mette troppo a finire le scuole e a cominciare il lavoro. L’abbiamo già detto: bagnino, cameriere, poi in fabbrica, “la Fabbrica”, quella che ha dato il nome alla città, stravolgendone il toponimo e il paesaggio.
Alla Solvay Renato non si accontenta di fare l’operaio non specializzato, quello che sta otto ore al giorno attaccato alla catena. Affina le sue capacità, se la cava bene come saldatore, sta sempre con gli occhiali con le lenti affumicate sulla fronte, anche quando non salda. Si muove, chiede, trova nuovi incarichi. Alla fine, passerà la sua vita girando gli stabilimenti chimici di quasi tutta Italia, come saldatore-tubista. Girerà tutto lo stivale, toccando mille città. Ma non conoscerà mai i centri storici. Lui, quelli come lui, si fermano nelle periferie, dormono negli alberghetti per operai che sorgono appena fuori dai cantieri, a Novara, a Torino, a Genova, a La Spezia, a Mestre, a Terni, a Taranto. Ovunque, sempre alla periferia. Respirerà benzene, il piombo gli entrerà nella ossa, il titanio gli intaserà i pori, una scaglia d’amianto si infilerà nei suoi polmoni. Ma questo molti anni dopo. Perché se fosse successo subito, Renato non avrebbe potuto incontrare Francesca in una discoteca di Follonica, non si sarebbe sposato, e queste pagine non le avrebbe scritte nessuno, perché le scrivo io, che di Renato sono il figlio.
2. Andare, camminare, lavorare
Invece Renato incontra Francesca, si fidanza, si sposa. La coppia mette su casa a Follonica, ma lui non si ferma a lavorare nel Grossetano. Sceglie il nomadismo industriale. Fa il trasfertista. Operaio specializzato, sempre in giro, da un cantiere a un altro. Installazione di nuovi impianti. Revisione di vecchi. Manutenzione di impianti a regime nei periodi di ferie. Lavori lunghi, a volte più brevi. Per un po’ si ferma vicino casa, stavolta a Piombino, un’altra città fabbrica, questa, ma città d’acciaio.
Ma la geografia industriale italiana lo porta in quel triangolo tra Genova, Milano e Torino, con epicentro Novara. A Novara c’è la Ditta di Ettore Gargano, istallazione impianti industriali, e lui comincia a lavorare per la Gargano come saldatore e tubista trasfertista.
Quando ero piccolo, e ti chiedono a scuola che lavoro fa tuo padre, io imparai presto a dire “tubista”, anche se non capivo cosa voleva dire, ma sapevo che aveva a che fare con qualcosa per cui si tornava a casa solo un fine settimana ogni due. Poi mi arrivò un’altra spiegazione. “Metalmeccanico”, e questo lo capivo meglio, perché sembrava simile a meccanico, ma un po’ più corazzato. Era un lavoro speciale, o almeno sembrava a me, perché si faceva lontano. Non mi sentivo affatto sminuito dall’essere un figlio di un operaio, perché a scuola, alle elementari e poi anche alle medie, eravamo tutti figli di operai (almeno nella mia sezione: c’erano tre sezioni a scuola: in una andavano i figli dei professionisti, nell’altra quelli degli operai, e nella terza i figli dei contadini e i bocciati della classe degli operai). Ma i babbi dei miei compagni di classe lavoravano a Piombino alle acciaierie o al Casone di Scarlino, alla Montecatini, e il lavoro lì era facile e noioso, diceva Renato. Lui le fabbriche le smontava e rimontava, invece di farle funzionare, quindi a me sembrava un privilegio. E forse lo era, ma anche in negativo, perché più usurante, e forse anche più bigottamente stalinista: aristocrazia operaia, lavoratori specializzati, soddisfatti degli stipendi più alti e meno ribelli degli operai-massa, che emergeranno tra gli anni Sessanta e i Settanta. Ma questi sono discorsi incasinati, e Renato su queste cose, con me, anni dopo, molti anni dopo, non era granché d’accordo.
Ma facciamo un passo indietro, perché sono partito da Renato e sono già arrivato a me. E invece questa storia è sua.
Siamo negli anni settanta. Anni felici, in cui il lavoro non manca. Il boom economico del dopoguerra si arresta nel 1973, proprio quando nasco io, ma Renato non se ne accorge subito, a parte quando fa il pieno. Di raffinerie ce n’è ancora bisogno, le chiuderanno solo più tardi, e anche i guai della produzione industriale per lui si fanno sentire in seguito, quando i padroni cominciano a ristrutturare. Ma per ristrutturare — cioè per tagliare posti, allungare gli orari e ridurre gli stipendi — serve una classe operaia debole, e quella italiana degli anni Settanta è molto, molto forte. Quel che serve è innanzitutto la repressione, che colpisce prima i movimenti e poi anche i sindacati, poi si potrà colpire anche l’aristocrazia operaia protetta da fastidiosi diritti sindacali. I problemi arriveranno negli anni Ottanta, quando gli operai sono politicamente indeboliti e i sindacati abbassano la testa. I problemi sono portati da quella parola che in casa è pronunciata con un misto di vergogna e di orrore: cassaintegrazone. Ma qui siamo già negli anni Ottanta, appunto. Nel decennio precedente, Renato lavora molto, è giovane, forte. Il lungagnone magro, poco più che adolescente, della foto di Nada è adesso un uomo ricoperto di muscoli, senza un filo di grasso, che viaggia molto e che riporta le tute sporche a casa ogni due settimane, quando si fa festa, si mangia coi parenti, si va a vedere il Rosignano giocare il derby contro il Cecina e poi ci si infila tutti in un cinema di Livorno per godersi una commedia sexy con Edwige Fenech, anche io e mio cugino, che diventiamo precocemente sensibili al genere. Poi, poncino alla livornese, ritorno in Maremma attaccati ai risultati del calcio di prima categoria, il Cascina che batte il Tuttocalzature, il Pomarance che va pari in casa del Larderello, e lunedì mattina alle quattro, ripartenza in treno sulla linea tirrenica verso Genova, o Sarzana, o Savona, dovunque ci siano tubi da saldare, manicotti da congiungere, coibentature da smantellare.
E purtroppo, amianto da respirare.