di Danilo Arona
AA.VV., Ambigue utopie. 19 racconti di fantascienza, a cura di Gian Filippo Pizzo e Walter Catalano, Bietti, 2010, pp. 400, € 22,00
Qualche tempo fa ho inaugurato su un blog alessandrino una mia rubrica personale fatta di strali, elzeviri e altre sciocchezze. L’ho intitolata “Il superstite”…
La inizio così, questa recensione-segnalazione di Ambigue utopie, una bella — di più — antologia italiana di “fantaresistenza” (per dirla coi curatori), che viaggia sull’indimenticato asse politica e fantascienza. Edita impeccabilmente da Bietti e amorevolmente curata da Gian Filippo Pizzo e Walter Catalano, ospita quasi tutti gli italici irriducibili che ci devono essere: Asciuti, Nico Gallo, Catani, Curtoni, Evangelisti, Ricciardiello, Prosperi, Sturm, Verrengia… Più altri che citerò oltre per non far torti a nessuno, ma che a spanna, arrivano una generazione dopo questi “storici”. Il che, ça va sans dire, riveste un notevole significato. Qualcuno manca. E’ inevitabile. Chi poteva e non ha voluto. Chi voleva e non ha potuto. Qualcuno morto, qualcuno morto dentro. Già, più che un’antologia — da come la sto impostando – sembra una celebrazione (funebre). Ma no, tranquilli…
La verità è che la nostalgia è una brutta bestia che deforma i ricordi. A ogni minima citazione fantapolitica, la memoria corre a “Robot” di Armenia e alla usurata (dalle citazioni) querelle lanciata nell’arena da Remo Guerrini. Il quale peraltro si limitava a fare constatazioni note e ovvie: le due anime della Sf, la contrapposizione tra restaurazione e rivoluzione (tra destra e sinistra), l’anima rossa che ci piaceva di più perché in grado di cogliere — e non di abortire — il seme autentico e innovativo del genere. Dato il momento storico, le polemiche furono inevitabili.
Visto che c’ero, dico subito la mia, anche ad affettuoso discapito dell’interpretazione dei curatori: “Robot” non perse lettori per le presunte invettive di Curtoni (& compagni!) con il pubblico. Li perse perché la formula aveva stancato. La famosa, personalmente graditissima, formula fatta di molte rubriche, critica e narrativa — rischiosissima ancora oggi, 2010 — accontentava ormai solo (molto) pochi e quel matrimonio quasi impossibile, tenuto per anni sul filo dell’equilibrio dal mai troppo lodato Vic – quel matrimonio che saldava insieme i cultori esclusivi di narrativa e gli affamati della sola saggistica — andava a saltare. Rischiando di scantonare per qualche riga, questo è il problema di sempre e di qualsiasi testata: la corsa (contro il tempo, anche) per identificare una formula in grado di autorinnovarsi e per identificare soprattutto il “lettore fantasma”. Quest’ultimo, la vera bestia dell’editoria.
Nostalgia canaglia… Li avete disposti per ordine alfabetico, ma nessun racconto, tra i 19 ospitati, poteva meglio aprire questo lavoro: Claudio (Asciuti) e “Zone rosse, trame nere”. Un capolavoro, anche di perfidia mnemonica. Il leggerlo, il perdermi tra le sue righe, mi ha fatto rivivere le sensazioni di certe “rimpatriate” con coetanei, amici e compagni di strada della serie “fantastici quegli anni (ma guarda te in che condizioni siamo ridotti…)”: non so a quanti di voi capiti, ma in provincia succede. Molti non se ne sono andati, tanti si mantengono con un borghesissimo mestiere, ci si vede per strada e ogni tanto si organizzano storie per incontrarsi tutti assieme appassionatamente. Di solito domeniche pomeriggio con pane, salame e vino portato da casa in qualche terribile bottiglione o, peggio, la damigianetta. “E tu, Danilo, mi raccomando, porta la chitarra”: un incubo che mi accompagna sin dalla più tenera età.
A queste riunioni, intorno alle sei del pomeriggio, quando salame e vino pessimo hanno ormai formato blobbose miscele un po’ prima del colon, la compagna architetta o il compagno psichiatra cominciano a lanciarmi le più inverosimili proposte con un dito accusatore alla Zio Sam: “Ma come, non ti ricordi quel pezzo della Lega del Vento Rosso?”, “Ma dai, Pino Masi! Danilo, possibile?”, “Adesso dimmi che ti sei dimenticato degli Actuala!”… Cazzo, ma che è? Una congiura. Ma poi è vero: mi sono dimenticato. C’è stato un reset. E qui, dalle parti dei sessanta (miei) anni, ci sono rimasti solo i Rolling Stones e De André.
Ecco, il racconto di Claudio — che è una surreale e straordinaria rievocazione quanto mai sui generis del G8 genovese (ma vera più del vero) — è pure una cavalcata minuziosa e chirurgica in tutte le trincee della memoria che hanno a che fare (oggi) con il mito e la pratica della rivoluzione. Come il tutto stia meravigliosamente assieme (la cronaca e l’utopia, il sogno e la metafora), è frutto esclusivo dell’abilità scrittoria di Claudio, un personaggio che amo da tempi non sospetti (scrivo “Il canto delle stelle” e lui capisce…) e che questa distratta nazione non ha ancora scoperto e valorizzato al suo meglio. Ma Claudio sta per colpirci al cuore e stupirci ancora alla grande. Vai così, uomo…
La nostalgia, che è canaglia e pure carogna, non può non abitare da queste parti. Soprattutto se il volume in questione s’intitola Ambigue utopie. E non può non fuggevolmente citare quel che accadde in Milano il 15, 16 e 17 settembre del 1978. Sì, lo so, c’è da storcere il naso e qualcos’altro… Stiamo parlando di trentadue anni fa. Già, cari Pizzo & Catalano, se il vostro volume smuove certe correnti che si pensavano sedimentate sulle spiagge del tempo, occorre una condivisione di responsabilità. A Milano in quei giorni ci fu l’invasione dei “Marx/Z/iani”, ovvero il convegno del Collettivo “Un’Ambigua Utopia”. Che, al di là di qualche innocua e pacifica provocazione formale (il corteo con gente travestita da alieni che suonavano), era una cosa serissima con interventi di peso e con un loro perché. Soprattutto quelli di Vic e Giuseppone Lippi che svelavano qualche trucchetto nei rapporti tra editori e agenzie (già allora…) e ancora quello, in chiave body art, ancora di Claudio (Asciuti) che si spogliò nudo sul palco e si dipinse. O tempora… D’accordo, parliamo del libro.
Che è un gran bel libro. Dove la politica impregnante le storie non è solo militante. Perché ci troviamo nel 2010. E nel frattempo c’è stata l’osannante ri-scoperta di Dick, il cyberpunk, il matrix-cinema e il pianeta che si sta allegramente fottendo, come possiamo constatare proprio in queste ore al largo della Louisiana. Perciò ci entra pure la politica in senso lato. Come ne “Il paradosso Glenn Gould” di Giovanni Burgio o nel quasi horror “Nekropol” di Walter Catalano. E nel frattempo del frattempo in Italia si sono avvicendati Berlusconi, Prodi, ancora Berlusconi e i flussi migratori dei disperati di mezzo mondo. Input che entrano a gamba tesa ne “La figurina di Bulgarelli” di Piero Cavallotti, in “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori” di Milena De Benedetti, ne “Il potere logora” di Pizzo e in “Una domenica diversa” di Pierfrancesco Prosperi. Parecchi racconti non sembrano fantascienza, ma sembrano raccontare l’oggi, il che la dice lunga sulle contemporanee derive della realtà e del genere, spesso interfacciato con il quotidiano meglio di uno specchio.
Scelte significative e singolari da parte di alcuni dei “grandi” ospitati. Vic Curtoni — che ho rivisto dopo aaaaanni a Piacenza con immenso piacere — ripropone un suo racconto apparso nel ’72 nella storica antologia Fant’Italia. “La vita considerata come un’interferenza tra nascita e morte”, se da un lato conferma la nota visione del pessimismo cosmico dell’autore, dall’altro sottolinea qualora occorresse la capacità divinatoria di certa Sf: su uno spunto narrativo che potrebbe apparire ridicolo, per dirla con lo stesso Vic (l’invasione dell’Italia da parte degli Stati Uniti), ecco farsi largo lo squarcio profetico di Guantanamo, delle carceri speciali, il terrorismo di guerra contro il terrorismo resistente. Farsa che strappa il sorriso, un po’ amarognolo e un po’ apocalittico, l’incursione di Valerio Evangelisti (“Marte distruggerà la Terra”) e guerra (di classe) nel fanta-bellico “Il riflesso nero dei vinile” di Nico Gallo, tagliente ed esplosivo. E la gustosa visione ucronica di Danilo Santoni (“Tradimenti”) dove Renato Curcio è riuscito a divenire Primo Ministro.
Non mi piace raccontare né anticipare gli ingredienti delle storie. Perché mi adombro quando leggo segnalazioni che mi descrivono tutto, dalla A alla S, lasciando un minuto spazio per le ultime lettere. C’è però questa storia di Verrengia che ha un avvio straordinario e che sento mio per comprensibili motivi, e poi perché anni fa mi venne un’idea del tutto identica che non seppi o non volli sviluppare. S’intitola “La sindrome Casablanca” e, oltre a dispiegarsi come un capolavoro umoristico (uno humour che nelle ultime righe diventa ben più che nero…), possiede questa trovata geniale che ti “butta dentro” in due secondi: il protagonista che si accorge gradualmente che gli attori impersonanti celebri ruoli in altrettanti film, da “Casablanca” a “Via col vento”, stanno cambiando. Non più Bogart e la Bergman in “Casablanca”, ma George Raft e Ida Lupino. Poi una sera in TV l’uomo scopre un “Via col vento” con Errol Flynn e Bette Davis. Irresistibile… Ma il finale è quasi da applauso.
Sì, ne mancano all’appello. Ma mi perdonerete se non mi dilungo per ognuno alla stessa maniera. Chi scrive ha le sue preferenze, le sue amicizie. Sarebbe pure illogico non sbilanciarsi. Ricordo solo l’immarcescibile Catani che colpisce al cuore senza dilungarsi (“L’Area 52”) e lo struggente Daniele Ganapini con “Un’estate perfetta”. E ancora: Francesco Grasso (“Un mondo migliore”), Franco Ricciardiello (“Storia di un commissario”), Umberto Rossi (“Terra avvelenata”), Roberto Sturm (“Notte di ghiaccio”) e Alessandro Vietti (“Il volo del Garbot”). Tutti grandi professionisti che lasciano il segno. Chiude con un saggio — ma come poteva essere diversamente? — l’Ambiguo Utopico per eccellenza Antonio Caronia, colui che guidava nell’autunno del ’78 l’invasione dei Marx-Z-iani a Milano. L’Antonio che, alla fine del mio intervento a “Marx-Z-iana”, mi guardò sorridendo e chiese: “Ma non ho capito che vuoi fare? Le barricate coi libri?”. Eh, già…
Al che, onde rispettare la simmetria, torno all’assunto. E a una domanda per la quale ognuno può trovare la propria risposta: siamo dei superstiti? O, meglio, che tipo di superstiti siamo? Già, se un libro del genere mi fa porre certe domande, non solo il libro ha centrato il bersaglio, ma diventa pure merce pericolosa. Siamo qui, nello spazio virtuale, a contarci e a cantarci, tentando invano di ricordarle, le canzoni di Pino Masi, intervallando con salame e vino spillato? O siamo qui per dichiarare — anche se un po’ acciaccati e con altri Nemici da sconfiggere — da che parte stare? Pensatela un po’ come volete. Però io prendo esempio, tentando vanamente d’imitarlo, dall’altro grande Vittorio, il Catani, la cui anagrafe ricorda al mondo che a lui spetta (spetterebbe) la palma dell’anzianità. Ebbene, questo ragazzino settantenne, questo geniale comandante in campo e produttore da tempo immemore di indiscutibili capolavori, ci ha da par suo recentemente regalato Il Quinto Principio, una delle più apocalittiche e sconvolgenti visioni — quanto mai “politica” – del futuro prossimo venturo, uscita per “Urania” a dicembre del 2009. Se Vittorio Catani è un superstite (o il Superstite…), allora il mondo non sarà mai salvato dai ragazzini.