di Tommaso De Lorenzis
Stefania Nardini, Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese, Perdisapop, 2010, pp. 160 , € 14
Jean-Claude Izzo è morto il 26 gennaio del 2000, «abbattuto da due stecche di sigarette in pieno petto» come scriverà René Frégni nella dedica di Nero Marsiglia. A dieci anni dalla scomparsa dello scrittore, un libro della giornalista Stefania Nardini torna sui significati della letteratura nera e sulla figura d’uno dei suoi maggiori interpreti. Il volume s’intitola Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese e ha la forma d’una biografia. In realtà, come accade nelle migliori narrazioni di vita, la scrittura scivola tra le pieghe dei documenti per sollevare questioni cruciali.
L’autrice tocca le corde giuste, trovando quella delicata misura capace di tenere il racconto dei fatti privati a debita distanza dall’indiscrezione. Questa storia marsigliese è scritta in punta di penna, stando attenti a non fare rumore, con uno stile che — immaginiamo — sarebbe piaciuto al diretto interessato.
Acclamato dai connazionali dopo l’uscita di Casino totale, primo volume della Trilogia di Marsiglia, Izzo non tardò a diventare un autore di culto anche da questa parte delle Alpi. E sarà proprio l’Italia, paese da cui il padre Gennaro era immigrato nella primavera del 1929, a celebrarlo come maestro. A Izzo è riuscito un miracolo postumo: quello di diventare sia “scrittore per scrittori” sia autore venerato dal grande pubblico. Gli omaggi che gli tributeranno le penne italiane non si contano. Come non si contano le decine di ristampe dei suoi titoli e le migliaia di copie vendute anche a distanza di tempo dalla pubblicazione. Nell’estate del 2004 Pino Corrias restituì — sulle colonne della «Repubblica» — le proporzioni d’un trionfo reso amaro da una morte prematura: «I tre libri si chiamano: Casino totale, Chourmo, Solea. Si leggono d’un fiato. Li ha pubblicati Gallimard in Francia e le Edizioni e/o in Italia. Sono stati un successo travolgente, 500 mila copie in Francia, 100 mila in Europa, 10 mila ogni anno (da anni) in Italia. Il successo lo ha trasformato in un autore di culto. E lo ha incoronato caposcuola del nuovo polar francese, caldo, neo romantico, superiore (secondo i gusti) all’altro marsigliese Jean-Patrick Manchette, con i suoi nerissimi Nada e Posizione di tiro, vortici di fuoco e intrecci di traiettorie che gelano la superficie delle parole».
Leggendo della vita di Jean-Claude Izzo, si scopre come prima del romanzo nero ci furono altre due passioni: il giornalismo e la poesia. Una fu il mestiere che gli diede da vivere, portandolo dalla redazione del quotidiano comunista «La Marseillaise» alle pagine del magazine parigino «Viva». L’altra è all’origine dell’espressione letteraria, perché — in principio — Izzo fu un poeta. E tra le sue letture preferite figuravano Arthur Rimbaud e Louis Brauquier: il veggente fuggito oltremare e il poeta-navigatore, agente delle Messaggerie Marittime, che aveva percorso le rotte di mezzo mondo. Due nomi diversissimi che ritroviamo citati nelle pagine della Trilogia e che sono accomunati dal medesimo «male d’Europa». Ovvero da quell’inquietudine errante che, in Casino totale, caratterizza il personaggio di Ugo e che pone la città in equilibrio tra arrivi e partenze, fughe ed esili. Tra un “addio” smozzicato e un “bentornato” che sa di pastis. Oppure, al contrario: tra un “addio” che profuma di anice e un “bentornato” che ha il sapore del sangue e del piombo.
La geografia stessa di Marseille si modifica sotto il peso di questo sentimento che l’ha resa una El Paso marittima, spazio di transito per eccellenza. Un po’ rifugio del Proscritto, un po’ imbarco del Fuggitivo. Ora porta d’Europa, ora estrema propaggine d’Africa. «Si c’est pour t’embarquer, c’est une bonne ville, dit Gu. Mais si c’est pour rester…», scrive José Giovanni — altro grande esponente del noir transalpino — nelle pagine del crepuscolare Le deuxième souffle.
Ha fatto bene Stefania Nardini a insistere sulle passioni non-romanzesche d’Izzo spezzando il racconto con inserti poetici a firma dello scrittore e creando un continuo rimbalzo tra narrazione e versi. In definitiva, i noir izzoiani sono una perfetta fusione di denuncia e visione, d’indagine e metafore, di storie nascoste tra le pieghe della carta stampata e scorci inquadrati da un’immaginazione romantica. La professione di cronista gli consentì di conoscere la connection di Marsiglia e proprio dal suo leggendario archivio di notizie nasceranno gli intrecci della Trilogia. Alla palestra della migliore inchiesta giornalistica imparò a praticare la critica del potere e della sua quintessenza criminale. Tuttavia, scelse di non accontentarsi mai delle verità palesate dall’engagement del realismo. Così fu scopritore di segrete corrispondenze mediterranee e commosso indagatore di psicologie segnate da sconfitte e abbandoni, fallimento e inettitudine, intensa malinconia e costitutiva infelicità. La questione trascende la sua opera e ammicca alle più intime caratteristiche della letteratura nera che altro non è se non un’estrema forma di poesia. E non si tratta semplicemente delle caratteristiche di una prosa lirica o “d’autore”, quanto piuttosto di un tessuto simbolico capace di collegare realtà, natura e psiche in una vorticosa alternanza di contrasti e accostamenti. In questo fu un interprete d’eccezione della tradizione nera di Francia in cui si riflettono la tragedia greca, il sublime criminale, il canto agonizzante dell’Impiccato, lo spleen simbolista, le visioni rimbaudiane, il delirio onirico e la trasfigurazione della natura.
D’altronde, erano stati i versi del surrealismo a precipitare la scrittura di Léo Malet in un impasto di eros e thanatos. E cosa sono i fuorilegge di Simonin, Le Breton e Giovanni se non la versione antropomorfa dell’Albatro di Baudelaire, affetto da tisi e armato di baiaffa, che langue nelle luci d’un nuovo tramonto? Dietro ogni romanziere si nasconde il poeta. E la cosa vale anche per Jean-Patrick Manchette: ovviamente in termini negativi. Perché è proprio quella “segreta poesia” che l’altro grande marsigliese scelse di cancellare con la balistica neo-hammettiana della posizione di tiro.
Jean-Claude Izzo ha amato Marsiglia e il Mediterraneo d’una passione controversa, senza speranza, sporcata da cupe inquietudini e da un intenso senso di morte. È lo stesso sentimento che lo portò lontano dalle donne amate e che diventò, nel gioco dell’esasperazione letteraria, uno degli indimenticabili tratti dell’indole di Fabio Montale. L’impossibilità di trattenere l’oggetto del proprio desiderio, rovesciata simbolicamente nel nomadismo gitano ed esistenziale del personaggio di Lole, è all’origine della tristezza romantica dello scrittore, nel punto in cui la ricerca d’una felicità assoluta si traduce nel suo opposto e la risacca del Mare Nostrum non è mai soltanto l’abbraccio d’un ancestrale liquido amniotico. La complessità dei paesaggi izzoiani risiede proprio nel rifiuto di attribuire alla natura il potere incondizionato di placare le angosce. Anzi, a volte è proprio la struggente bellezza del cielo e del mare ad amplificare — per contrasto — l’orrore della realtà. E poi c’è la Storia, che non perdona. Tragica teoria d’illusioni e inganni che danna gli ultimi della Terra, incarnandosi nell’inferno metropolitano della grande ville, dove prolificano i traffici e si frantumano i sogni.
«Il Mediterraneo non è una cartolina»: così Stefania Nardini intitola il capitolo dedicato ai reportage del cronista Izzo dalla cittadina di Fos-sur-Mer, la «California provenzale» trasformata in sito d’un gigantesco polo siderurgico e in incontrollabile periferia popolata da un proletariato multietnico. Il fallimento del sogno industriale, la chiusura degli stabilimenti e la sconfitta delle lotte operaie costituiscono, insieme al declino del porto della Joliette, i miti negativi che fondano il Midi e la Marseille d’Izzo. Ed ecco perché, in Casino totale, la famiglia dell’arabo Mouloud Laarbi porta impresse le stigmate d’una tragedia consumata tra il licenziamento dello stesso Mouloud dalle industrie di Fos, il grigio sopravvivere dei suoi figli nella cité e l’orrenda morte della figlia Leila. Davanti allo stupro e all’omicidio della ragazza che amava i versi di Brauquier, Fabio Montale lancia una maledizione che non è rivolta agli uomini, bensì alla natura e alla sua mistica rassicurante: «Rialzandomi, vidi che il cielo era azzurro. Un azzurro assolutamente puro, che il verde scuro dei pini rendeva ancora più luminoso. Come sulle cartoline. Vaffanculo cielo. Vaffanculo cicale. Vaffanculo paese. E vaffanculo io. Mi allontanai barcollando. Ubriaco di dolore e di rabbia».
Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese è una biografia sentimentale redatta come tenue affresco d’un modo di sentire le cose. Se si volesse trovare un limite in questo racconto, bisognerebbe indicare il trasporto e la partecipazione che esaltano le suggestioni, comprimendo un po’ troppo le testimonianze in presa diretta e impedendo di tracciare un freddo bilancio dell’eredità dell’autore marsigliese. Soprattutto in rapporto all’Italia di questo tempo, che sembra aver rovesciato nuovamente le gerarchie delle proprie Lettere e sostituito i paesaggi mediterranei con i contesti e le ambientazioni dell’Europa scandinava.
Ma non è corretto criticare l’eccesso di cuore quando si parla di uno scrittore e d’una città che hanno parlato prima di tutto ai cuori. «“Penso al golfo di Marsiglia”, / Un’angoscia che si sveglia / Un frammento di cuore pieno d’esilio», cantava Brauquier.
Dunque, bentornati a Marsiglia. E attenzione a non prendere questo viaggio come una semplice escursione nelle vie della città o come un’intrusione nelle storie d’una vita. Izzo diceva che «Marsiglia non è una città per turisti». Forse era una maniera elegante per dire che Marseille non ama i turisti. Di certo detesta la gente indiscreta.