di Dziga Cacace
Al ristorante no, al cinema neanche un po’, uscir non si può
Se la mia pelle vuoi, Lucio Battisti
27 – Heavy Metal di Un Regredito, Canada 1981 e 10 minuti di Fritz il gatto di Ralph Bakshi
Avevo dodici anni, leggevo Pilote e Metal Hurlant e nessuno sarebbe mai venuto con me al cinema per vedere una cosa del genere. Sono passati diciotto anni e mi tolgo lo sfizio. Sbagliando, perché questo Heavy Metal commesso da Gerald Potterton è una cazzata immane: un’accozzaglia di “corti” tenuti assieme da un improbabile fil rouge, disegnati in maniera non memorabile, animati peggio e per lo più mai conclusi degnamente. Ma la cosa che più irrita è la totale stupidità delle storielline raccontate, infarcite di combattimenti con spadoni, uccellacci che stridono e le donne nude… Pure coi cartoni animati, ma per piacere! Peraltro donne orrende che potrebbero popolare i sogni erotici di un obeso che cerchi un’anima gemella con bislunghe prolunghe mammarie. Boh.
La colonna sonora è poi una compilation non molto meditata dove anche grandi gruppi cafoni passano solo per cafoni e basta (i Grand Funk Railroad, per esempio). Un film così, a chi si rivolge? Qualunque adulto sano di mente non può che rifiutarlo schifato. Per i bambini non se ne parla neppure. Praticamente la nicchia di pubblico cui si rivolge è la ristretta cerchia di adolescenti tra i 12 e i 14 anni, appassionati di fumetti, creduloni e sconvolti da tempeste ormonali tanto da trovare eccitanti anche due zinne pendule disegnate. Per cui, tornando alle premesse, se lo avessi visto nel 1982 mi sarebbe piaciuto (eccome!). Ora mi sconcerta. Unica parte che merita un po’ d’attenzione è quella finale, ispirata pesantemente all’immaginario di Moebius. Però rimane una bella stronzata di film. Non pago di tanto scempio, son rimasto in tema e ho affittato anche Fritz il gatto (USA, 1972) che volevo vedere da secoli. L’animazione statica e la traduzione mi hanno costretto a lasciar perdere dopo neanche dieci minuti. Avevo letto di un doppiaggio delirante, ma tutto mi aspettavo fuorché un doppiaggio d’invenzione, con Fritz gatto romano a New York, dove frequenta – è ovvio, stupido che non sono altro — gatti che parlano in vari dialetti italiani. Povero Crumb. Grottesco. (Vhs da Tele+; 2/11/00)
31 – The Hitcher di Robert Harmon, USA 1986
Questo l’ho visto addirittura negli anni Ottanta. E m’era piaciuto. Rivisto, per la prima mezz’ora è teso, ben costruito e ritmato, poi imbocca un binario più scontato. Nel sottofinale c’è una cattiveria inaspettata (Jennifer Jason Leigh squartata fuori scena) e nel finale una cattiveria (la vendetta del protagonista) che sembra invece meccanica e che mi lascia perplesso. La storia la sapete. Oppure no: attraversando le lande desolate del big country, il giovane C. Thomas Howell carica un autostoppista che si rivela un professionista del terrore, Rutger Hauer, capace di confezionare anche deliziosi hamburger a base di dita umane. Il ragazzo gli sfugge, ma l’ombra dell’assassino si allunga su di lui facendolo diventare il principale sospettato per la lunga catena di delitti che insanguinano la highway. Quindi, prima il protagonista deve guardarsi dall’autostoppista, poi deve fuggire dalla polizia che non vuole credergli. Infine viene scagionato e il cattivone è catturato. Ma il nostro non si fida: torna indietro e nell’ultimo duello lo fa secco, rispondendo al suo invito. Il lato oscuro e bla, bla, o forse una virile e un po’ ottusa vittoria sul cattivo, perfetta per il pubblico di bocca buona. Rimane il dubbio, però si tratta di un buon film che fa impallidire il Breakdown di due anni fa. Howell, dopo una stagione intensa, è diventato un illustre scomparso degno di Meteore. Splendida fotografia in Panavision diligentemente rispettata da Tele+, musica di Isham un po’ anni Ottanta, Cacace un po’ rincoglionito da troppo lavoro ma comunque intrattenuto piacevolmente, perché questo è un horror dove il male si vede in faccia. E la faccia è splendida, quella di Rutger Hauer. (Vhs da Tele+; 7/11/00)
32 – Venga a prendere il caffè… da noi di Alberto Lattuada, Italia 1970
Emerenziano Paronzini, uno spettacolare Ugo Tognazzi, è funzionario della Finanza a Luino, vicino al confine con la Svizzera. Apparentemente inflessibile servitore dello Stato, in realtà furbo calcolatore, amante del cibo e del vino e, secondo gli insegnamenti della Fisiologia del piacere del Paolo Mantegazza, risoluto a dare soddisfazione alle tre “C” che necessitano all’uomo maturo: Carezze, Caldo e Comodo. Individua tre zitelle, orfane ed eredi del ricco Mansueto Tettamanzi, aggiusta l’eredità, sposa la più anziana, Fortunata, e poi si dedica anche al sollazzo delle due sorelle minori, Camilla e Tarsilla. Riscoprono i piaceri del corpo e sono tutti felici, ma una sera Emerenziano esagera e quando decide di castigare anche la domestica, zac, ha un ictus. Rimane così su una sedia a rotelle, accudito dalle tre amorose e devote sorelle, ormai liberate. Godibilissimo film di Lattuada, scritto a partire da un romanzo di Chiara e sceneggiato assieme a Kezich, Venga a prendere il caffè… da noi è cattivissimo, attento a tic e vezzi, corrosivo nell’impietosa descrizione della vita di provincia dove tutti sanno di tutti. Si mescolano interesse e senso del dovere, convenienze e gioie della vita, ipocrisie e segreti, con il piacere che trionfa su tutto il resto. Inno a vino, cibo e sesso con svisate comiche anche pecorecce ma clamorose (Fortunata dopo la prima notte con Emerenziano cammina lentamente e a gambe larghe perché “infiammata”: il medico – Lattuada – raccomanda 15 giorni di riposo), Venga a prendere il caffè… da noi è diventato un mio cult: aveva ragione il babbo mio. (Vhs da RaiUno; 10/11/00)
37 – Hammett: indagine a Chinatown dell’uomo sbagliato, tanto per cambiare, Wim Wenders, USA 1983
Metti Wenders che vuo’ fa’ l’americano… Affascinato dai primi film di Wim, Francis Ford Coppola decise di affidargli la regia di un promettente soggetto, tratto da un romanzo di Joe Gores: ma quanto poteva essere distante la concezione di cinema di Coppola da quella di Wenders? Siderale. Hammett è il risultato e c’è da giurarci che alla fine non rimase contento nessuno dei due registi. Al botteghino il film non se lo cagò letteralmente anima viva e neanche i critici (europei e americani) si mostrarono benevoli. E vedendo il film si capisce perché. È mortale. E poi è evidente che la regia vuole ragionare sui meccanismi del genere poliziesco e del cinema hollywoodiano, e questo tanto divertente, diciamo, non è. La trama, poi, ben si presta al ritratto del compagno Hammett come uomo e scrittore, molto meno come protagonista di una vicenda gialla non particolarmente interessante se non per ciò che significa (Hammett vive l’avventura e la trascrive, raccontando per la prima volta di sé: passa definitivamente dall’investigazione – suo precedente mestiere – alla scrittura). È chiaro che Coppola, dopo il fenomeno del Padrino e la fortuna dei gangster movie ambientati negli anni Trenta e Quaranta, si aspettasse una pellicola da grandi incassi. Pensate che Wenders — senza alcuna ironia, anzi a suo merito – si sia mai posto questo problema? E dalla differenza di aspettative inizia il tira e molla produttivo: Wenders non può lavorare coi soliti collaboratori e produce un film che inorridisce Coppola (e non solo lui, francamente: anche Francis Ford Cacace ha rischiato di tirare le cuoia durante la visione). Poi la Zoetrope finisce nei guai, mentre Wenders torna in Europa e realizza con due lire Lo stato delle cose. Allora viene girato altro materiale (ben tre quarti della versione definitiva). C’è chi dice che sia stato lo stesso Coppola a mettersi dietro la cinepresa… boh: io riferisco, con precisione nulla, quanto ho letto in passato e ricordo. Alla fine, che film ho visto? Un film gelido nella messa in scena e nella fotografia. Girato tutto in studio e con colori pastellati: un omaggio postmoderno al genere hard boiled, una storia apocrifa della vita di Dashiell Hammett che produce storie a sua volta. La vicenda è anche un po’ incasinata e non molto coinvolgente. Alla fine ci rimane una riflessione sul poliziesco senza il ritmo del genere e un ritratto di Hammett senza che sia una biografia. Tutto a metà, insomma, perché il progetto non nasce bene e non è affidato – avendo certe attese – alla persona giusta. Si guarda, si commenta e alla fine ci si gratta il pancino da visionatore incallito sempre più bolso e adiposo. (Vhs da Tele+; 14/11/00)
39 – Mondo cane dei furbetti Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, Italia 1961
Questo è il prototipo dei tanti mondo movies che invasero il mercato cinematografico durante gli anni Sessanta e Settanta, film di montaggio che portavano nelle sale cose bizzarre, tremende e curiose raccolte per il mondo. Ricordo ancora – doveva essere il 1978 — la pubblicità di una schifezza che prometteva “esecuzioni da tutto il mondo”, pensa che gioia. Mondo cane si finge documentario, ma in realtà puzza di falso lontano un miglio: tutte le scene sembrano stimolate dalla cinepresa, se non evidentemente preparate prima. Cosa si vede? Posto che ogni occasione è buona per far vedere del nudo – anche le eccitanti tette pendule delle cannibali della Nuova Guinea – è tutta una parata di mostruosità che solo talvolta si apre a qualche momento più leggero. Il filo conduttore è il rapporto tra uomo e animale nelle diverse culture del mondo: ovviamente a parte noi italiani, l’uomo fa spesso la parte della bestia. Ecco spezzatini di cane a Taiwan, vitelli cinesi ubriacati di birra, oche ingozzate in Francia, la morte del maiale da qualche altra parte (sorry: appunti lacunosi), la caccia allo squalo, le “ferie” a farsi rincorrere dai tori e le corride. Di contorno pervertiti, barboni, drogati, travestiti, mutilati, militari eccitati e ancora il cimitero sottomarino nell’Oceano Pacifico o i “bacchianti” calabresi, evidentemente ritenuti una sottospecie di italiani. Tutto ciò che è diverso da noi, è bestiale. Se è occidentale, nord americano, allora è tutt’al più bizzarro, esagerato. Interessantissimo come documento storico, pessimo come vere intenzioni, fu un clamoroso successo. Il commento (scritto da Jacopetti, che di cotanto crimine diventa il principale colpevole) ha l’ironia di chi la sa lunga e ti mostra il pazzo, pazzo mondo che gira in tondo: la voce che accompagna le immagini è suadente, moralista, paternalistica e razzista in maniera palese. Ma soprattutto tranquillizzante: ci dice che noi siamo diversi, noi abbiamo ragione, da noi le cose vanno bene. Mica come tra i selvaggi o in quel paese di simpatici squinternati che è l’America. Retorico, morboso e lugubre, Mondo cane è la Real TV di quarant’anni fa. Fascistella e falsa uguale. (Vhs da Italia1; 17/11/00)
40 – Sayat Nova di Sergej Paradzanov, URSS 1969
Il colore della melograna è il titolo italiano di un film che ho assunto in armeno arcaico e che sembra (il titolo) la parodia del classico mattone da cineclub. E in effetti un po’ mattoncino lo è: è la storia, attraverso quadri allegorici, di Sayat Nova, un poeta armeno vissuto durante il secolo XVI. Dalla vita in campagna a quella di corte, al ritiro in monastero fino alla morte, tutto attraverso pantomime. Suona esiziale, eh? Beh, lo è! Un film di luci, colori, suoni e suggestioni grafiche: la religione, la musica, i costumi, le stoffe, le stampe, i tappeti, i dipinti, la massiccia architettura romanica armena, i gioielli, le armi e le armature, le pietre, i fregi, gli animali… un montaggio straniante di quadri viventi. Sayat Nova è un evidente colpo di clava chiodata nei coglioni che, per essere apprezzato (e, in certa maniera, sopportato), andrebbe visto assolutamente su grande schermo. Ma i tempi son quelli che sono e bisogna accontentarsi di ciò che passa il convento, cioè una vhs. E alla fine la clavata armena m’è passata liscia liscia, come non credevo potesse più accadere: anni di abbiocchi iraniani, mazzate scandinave, pedrade portoghesi e altro ancora m’hanno reso invincibile, ah! (Vhs da RaiTre; 17/11/00)
41 – La finestra sul cortile del porcello Alfred Hitchcock, USA 1954
Da quanto tempo non mi concedo un peccaminoso triple feature? Un giorno senza lavoro e Barbara che deve studiare alacremente consentono la tripletta da tempo agognata. Ma i primi due film, pomeridiani, mi hanno appagato relativamente. Uno è una porcata che ha solo valore come curiosità, il secondo è opera anche troppo alta per emozionare se non vista nel giusto contesto. E allora scelgo un film del quale so che posso fidarmi. L’ho visto pure recentemente (un commentino patetico ne Lo sguardo mutilo), ma ho voglia di goderne di nuovo, in pace, con calma. Allora m’era piaciuto, ma sono sicuro di non averlo apprezzato come avrebbe meritato, anche perché ero ancora nel periodo in cui diffidavo di Hitchcock, che conoscevo poco e male. E non c’è granché da dire: gran film, grandissimo, che intrattiene e riflette sul desiderio e sul potere della visione. (Ahia: attenzione al pippone pseudo-critico). Jeff è un fotoreporter immobilizzato da una frattura su una sedia a rotelle. Curiosando con un binocolo osserva la vita che si svolge nel cortile di casa, sotto la sua finestra. E crede di aver scoperto un omicidio. La fidanzata Lisa e la domestica Stella, prima non gli credono, poi lo aiutano a risolvere il caso. Film divertentissimo, percorso da una costante tensione erotica, prima sotterranea, poi sempre più esplicita e sottolineata da battute e situazioni anche grassocce. C’è il buon senso comune della ruvida Stella, l’intraprendenza della moderna Lisa (sempre elegante, ma pronta a buttarsi nella mischia), e poi c’è Jeffries, letteralmente bloccato da tutto questo turbine femminile e sollecitato da visioni ammiccanti (la ballerina procace, gli instancabili sposini…). Il matrimonio pare il centro delle riflessioni voyeuristiche del protagonista: osserva beffardo chi non si sposerà mai, chi sta cercando disperatamente un compagno, chi è concupita da troppi, chi è felicemente accoppiato, chi non ne può più, sino a quello (Burr) che la moglie la fa a pezzi. Tutto ciò mentre Lisa insiste per risolvere la loro questione sentimentale. La pellicola è ricca, girata con brio, piena di invenzioni e sostenuta da un dialogo dove ogni parola è spesa bene. E poi c’è un cast eccezionale, soprattutto la coppia degli attori principali. James Stewart è il maschio posatello, argentato, sornione e flaccidino che ha resistito finché ha potuto alla giovane Grace Kelly, perfetta nell’ambivalenza innocente/peccatrice, con quello sguardo che promette l’indicibile in pagine caste come queste. Una bellezza angelica abbacinante che dietro l’azzurro di quegli occhi ci fa intuire un inferno di passione. Sì, sono innamorato della Kelly… e poi si dice che in gioventù fosse un peperino mica male, tanto che il malinconico principe Ranieri sembra aver speso capitali per far sparire filmini e foto compromettenti. Vabbeh, fine intermezzo Le Ore/Novella 2000. Il finale, con Jeff ulteriormente ingessato e destinato a un futuro matrimonio ormai improcrastinabile, è aperto a diverse interpretazioni. Ovviamente pecorecce. (Vhs da RaiTre; 17/11/00)
42 – King Kong di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, USA 1933
Denham è il classico esempio di produttore hollywoodiano che non esita a mettersi dietro la cinepresa per sostituire operatori incapaci e ha individuato una misteriosa isola a sud di Sumatra dove ambientare uno dei film d’avventura per cui è famoso. Serve subito una diva pronta a lanciarsi nell’operazione; Denham non si fa scrupoli e imbarca Ann Darrow, una ragazza colta a rubare una mela. È bella e la prende per fame: via, verso i mari tropicali! Arrivano all’isola del Teschio che è sinistra a vedersi, ma a frequentarla risulta ben peggio. I selvaggi cannibali che la abitano (rappresentati con generoso razzismo) non sono nulla perché all’interno dell’isola il tempo è fermo al giurassico; ma non c’è tirannosauro che tenga: chi regna incontrastato è re Kong, un gorillone di dimensioni abnormi e dalle maniere violente, anche perché evidentemente non ha femmine con cui sfogarsi. I selvaggi rapiscono la ragazza e la offrono al primate da primato che la spoglia e poi la guata con desiderio. Infiacchito non so bene da cosa, il bestione innamorato viene catturato e portato a New York per una umiliante esibizione pubblica. S’incazza, rapisce la sua bella e infine viene impallinato mentre si trova sulla cima dell’Empire State Building. Volo plastico e, sgnak, il gorilla si spiaccica a terra. Come potesse poi King Kong espletare fisicamente il suo amore è problema critico e meccanico di non secondaria importanza ma lascio alla vostra fantasia capire cosa sarebbe potuto accadere tra Kong e Ann in una stanza d’albergo. Prevedo solo docce a ripetizione (…). Visto oggi King Kong ha l’ingenuo splendore dei suoi 70 anni. È narrativamente elementare, la regia asseconda il racconto, gli attori non fan danno. Ma il vero protagonista è lui, il pupazzone creato da Willis O’Brien, animato a passo uno con un lavoro che immagino da crisi di nervi. Classico che intrattiene ancor oggi, abile mix di esotismo, erotismo e avventura, King Kong non ha perso nulla del suo fascino di moderna fiaba sul modello “la bella e la bestia”. La versione messa in onda da Fuori Orario non ha la celebre scene in cui Kong sfoglia la sua preda velo a velo come una cipolla, sottolineando con sguardi da vecchio gorilla bavoso. Ghezzi ce l’ha regalata a inizio serata, prima di un delirante e divertentissimo intervento telefonico di presentazione. (Vhs da RaiTre; 18/11/00)
43 – Pink Floyd – Live at Pompeii di Adrian Maben, Belgio/Francia/RFT 1972
Non sto lavorando e faccio finta che non sia un problema, concedendomi tutto: passeggiate oziose per la metropoli e sfizi che uno in bolletta dovrebbe pensarci due volte. Ma si vive una volta sola. Anche troppo ultimamente: nel pomeriggio sono andato con Pier Paolo alla FNAC recentemente aperta a Milano. Vediamo libri, dischi e poi videocassette e all’improvviso trovo questa: indifesa, gettata in pasto al pubblico a modiche lire 19.900. Basta la visione della copertina rosa e io sono in quinta liceo, ho i jeans stretti e le Adidas Abdul Jabbar ai piedi, la maturità si avvicina e studio filosofia ascoltando Atom Heart Mother. Torno alla realtà e metto immediatamente mano al portafogli: la videocassetta è mia. Saluto Pier e mi fiondo a casa. Praticamente con la giacca ancora addosso inserisco il nastro nel videoregistratore. E sono felice. Molto. Tutto è cominciato 13 anni fa quando, parallelamente alla mattana per il rock classico e all’hard rock, mi appassionai ai Pink Floyd, i primi (o quasi). Mi piacevano quelli di Syd Barrett e quelli precedenti il grandissimo successo commerciale. Non disdegno gli ottimi The Wall, The Dark Side of the Moon o Wish You Were Here, ma adoro ancor più il periodo tra il 1970 e il 1972. Parere personale che quasi nessuno condivide. E vabbeh. Detto ciò, era l’età della crescita e ancora non capivo bene cosa fosse il blues né le sue derivazioni cosmiche e psichedeliche. Avevo ideali abnormi e i Pink Floyd erano la colonna sonora dell’ingenuo sedicenne. Per sudare, per ballare, per fare l’head banging da solo in camera mia, andavo col Boss o i Deep Purple, ma per gli esercizi di matematica, per fumare con gli amici e sognare, beh, c’erano solo loro, i Pink Floyd. All’epoca disegnavo molto e passavo ore e ore in jam interstellari con il pennino a china che scorreva sulla carta mentre il fluido rosa, evocativo e immaginifico, alimentava la mia sterile fantasia. Dei Pink esistevano scarse documentazioni audiovisive: oltre a The Wall e Zabriskie Point (mio personalissimo mito, tuttora) circolava anche questo documentario. Una fugace visione la ebbi grazie all’Orecchiocchio, sulla Rai. Però ricordo che era una versione interrotta da dei commenti. Qualcuno che aveva il videoregistratore trovò una copia integrale e fu una goduria delirante (con registrazione sonora; l’audiocassetta me l’ha fregata Paolo Franzi: se mi stai leggendo sappi che l’aspetto ancora. Ti tengo d’occhio). Troppo giovane per contestare l’ego ipertrofico di questi musicisti a un passo dall’affermazione mondiale definitiva (stavano lavorando a The Dark Side of the Moon), troppo inesperto per capire che forse i Pink Floyd il meglio l’avevano già dato (quanto a ricerca sonora e invenzione), Live at Pompeii mi parve splendido. Poi vidi il gruppo a Torino, vennero nuovi album in studio e dal vivo, comprai anche bootleg, libri e spartiti, ma nel bene e nel male, loro hanno continuato a essere quei quattro distinti inglesi vagamente hippy che gironzolavano per Pompei deserta o indugiavano davanti alle solfatare a favore delle cineprese. Live at Pompeii non documenta un concerto, ma una performance tenuta appositamente all’interno dell’arena della cittadina per uno speciale commissionato dalla tivù belga. Strani tipi i belgi. Comunque il luogo è azzeccato. Cornice musicale dell’esibizione è Echoes, suite di Meddle qui divisa in due parti. Sempre da Meddle vengono eseguite One of These Days e Mademoiselle Nobs (su album si chiama Seamus, come il cane di Gilmour – giuro – che canta. Il cane, eh? E neanche male). Da Saucerful of Secrets la canzone omonima e la minacciosa Set the Control for the Heart of the Sun. Infine Careful with that Axe, Eugene che non è altro che Number 51, Your Time is Up, colonna sonora dell’esplosione finale di Zabriskie Point. Versioni sanguigne, senza la freddezza dello studio e la ricchezza della sovraincisione. La regia indugia spesso su Nick Mason, il batterista, forse perché il più eccitante e cinematico, ma avvolge con carrelli e morbidi zoom anche gli altri membri del gruppo. Si gioca con split screen, montaggi sincopati e immagini di repertorio della città pietrificata. Ne avevo un ricordo vivo, a testimonianza di quanto l’avessi amato e dopo tutti questi anni lo trovo ancora bellissimo. Ci sono difetti, ma che importa? Tutti i recensori specificano: “solo per i fan dei Pink Floyd”, e io chi sono? Il figlio della serva? (Vhs originale; 19/11/00)
(Continua — 3)