di Marilù Oliva
“Spartaco il gladiatore”, di Mauro Marcialis (Mondadori, 2010, € 19,00) è un romanzo storico ambientato nel I secolo a. C., più precisamente nel 73 a.C. quando, nella scuola gladiatoria di Capua, un drappello di combattenti capitanati dal trace Spartaco si ribella ai metodi oppressivi del lanista Lentulo Batiato. La sommossa ha successo e molti gladiatori riescono a fuggire, rifugiandosi inizialmente ai piedi del Vesuvio. I ribelli, il cui numero aumenterà progressivamente grazie all’adesione di molti uomini appartenenti alle classi sociali più disagiate, otterranno nel frattempo una serie impressionante di vittorie ai danni dei legionari romani fino a minacciare la stessa sovranità della Repubblica. È l’inizio della rivolta servile più importante della storia della Repubblica romana e avrà il suo epilogo soltanto due anni più tardi, nella sanguinaria battaglia finale nei pressi del fiume Sele.
“Spartaco il gladiatore” è uno dei sei capitoli previsti dal progetto editoriale denominato “il romanzo di Roma” sponsorizzato da Valerio Massimo Manfredi.
Come ti sei rapportato alle fonti storiche per la costruzione del romanzo?
Quando mi è stato assegnato il capitolo “Spartaco”, ho subito avvertito la responsabilità di non far morire il personaggio nel contesto di una narrazione classica, ordinaria, e ho tentato, nel mio piccolo, di dare un’impronta sociale e “politica”, nell’accezione più nobile del termine, al romanzo. Il libro ripercorre le tappe della rivolta seguendo le informazioni riportate nelle fonti storiche più autorevoli (a dire il vero non copiosissime e tra loro contraddittorie, da Floro a Sallustio, da Appiano a Plutarco, da Cicerone a Giovenale) e, per rappresentare al meglio il mos maiorum dei romani e la situazione della Repubblica, ho raccolto notizie da una considerevole bibliografia, sia saggistica che romanzesca, oltre ad aver visionato un congruo numero di documentari. In alcune opere, inoltre, sono stati rinvenuti elementi di una tale rilevanza (dal punto di vista storico, politico, sociale, religioso, militare) che da queste sono state letteralmente “estorte” alcune citazioni. Le opere in questione sono “Spartaco” di Raffaele Giovagnoli, “Una giornata nell’antica Roma” di Alberto Angela, “Vita romana” di Ugo Enrico Paoli e “La vita quotidiana nella Roma repubblicana” di Florence Dupont, mentre una menzione speciale merita il magnifico motto tornerò e sarò milioni, riportato in “Spartacus” di Howard Fast (il capolavoro che ha ispirato l’omonimo film diretto da Kubrick) e che a sua volta si riferisce alla “promessa” fatta in punto di morte dal ribelle Tùpac Katari nel 1781.
Hai manifestato l’intento di “non far morire il personaggio nel contesto di una narrazione classica.” Come la storiografia e la letteratura si sono poste, nei secoli, nei confronti di questa figura?
Le imprese di Spartaco hanno cavalcato i secoli e, caricate di significati simbolici, mitici, rappresentano tuttora l’emblema dei riscatto della schiavitù e della ribellione degli oppressi, i quali spezzano le loro catene per svincolarsi dall’influenza delle oligarchie corrotte, detentrici del potere.
Molti scrittori romani dell’epoca hanno ovviamente osteggiato il ruolo e l’abilità di Spartaco (memorabile, per esempio, è l’attacco di Cicerone al rivale Antonio nelle Filippiche: “O Spartaco! con quale altro nome potrei infatti chiamarti, visto che le tue nefandezze hanno reso sopportabile perfino in Catilina?”) appellandolo con termini spregiativi (schiavo fuggitivo, delinquente, assassino, saccheggiatore) ma non è mancato chi gli ha attribuito lo status di “nemico” della Repubblica, qualifica che implicitamente ne ammetteva la virtù e la gloria.
Successivamente, il mito negativo di Spartaco ha assunto il connotato di una sovversione più generica, di rottura e sconvolgimento di un intero sistema sociale.
Lo stesso concetto di rottura, però, visto dal punto di vista degli oppressi, ha assunto un significato antitetico e quindi Spartaco è divenuto il simbolo della lotta per rivendicare e ottenere i propri diritti o, in estremo, la libertà.
La guerra di Spartaco si presta, in chiave ideologica, a diverse interpretazioni ed ha certamente influenzato il pensiero e l’azione di alcuni personaggi e movimenti politici, anche di diverso orientamento.
Lenin definisce la guerra del gladiatore giusta, poiché in difesa della classe servile; Stalin dichiara che tale guerra è stata determinante per la fine del modo di produzione schiavistico; Garibaldi ha avuto un copioso rapporto epistolare con l’autore Raffaele Giovagnoli e ha firmato la prefazione del suo romanzo “Spartaco”, di oltre un secolo fa; Marx cita spesso Spartaco nei suoi trattati; Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht fondarono, in suo onore, la lega di Spartaco, un gruppo rivoluzionario socialista che si opponeva al governo di Berlino nel 1917; molti partigiani italiani in lotta contro il nazi-fascismo assunsero Spartaco come nome di battaglia.
Al di là di queste citazioni, è doveroso sottolineare che probabilmente la maggioranza degli schiavi che aderirono alla causa di Spartaco, non si rivoltarono contro la schiavitù ma contro la propria condizione materiale e morale, che era a tratti insostenibile.
In ogni caso, negli anni che seguirono la rivolta, le oligarchie presero progressivamente atto che la condizione legata alla schiavitù necessitava di un ridimensionamento, proprio perché poteva essere causa del crollo del sistema (andava, in sostanza, trattata politicamente). È soprattutto per questo motivo (unitamente alla sensazione di impotenza che affliggeva le minoranze più deboli) che non seguirono altre rivolte rilevanti per molti secoli.
Il mito di Spartaco e l’identificazione per sovrapposizione sociale: dalla schiavitù alle classi più umili.
Il mito di Spartaco è sopravvissuto nei secoli attualizzandosi non a causa della schiavitù ma malgrado la schiavitù, nel frattempo (almeno formalmente) scomparsa, e rappresenta le classi subalterne che trovano la forza di ribellarsi poiché prendono coscienza della propria condizione e tentano di spezzare le catene ideologiche di cui si sentono prigionieri.
In estrema sintesi, a mio parere, quasi tutte le questioni che, per motivi di sintesi, sono state in questo contesto solo accennate (e che, in caso di approfondimento, potrebbero ragionevolmente esplodere in una serie interminabile di considerazioni) riconducono alla solita vecchia questione che ha determinato e determinerà, all’interno di ogni sistema politico ed economico, il labile rapporto tra le diverse classi sociali.
Citando ancora Marx: “la storia di ogni società esistita sino a questo momento è storia di lotte di classi.”
Tornando all’aspetto prettamente storico, gli scritti che riguardano Spartaco, nella loro brevità e approssimazione, lasciano adito a parecchi dubbi e misteri. Le stesse origini del gladiatore sono incerte e non sono sufficientemente documentati gli spostamenti dei ribelli, il loro numero, la loro reale organizzazione. Le questioni storiche più rilevanti relative al gladiatore trace si possano riassumere nei seguenti interrogativi: come ha potuto l’esercito di Spartaco, seppur numeroso ma così eterogeneo nella sua composizione e privo di disciplina e addestramento militare, sconfiggere ripetutamente le milizie romane per così tanto tempo? Dov’è finito il corpo di Spartaco? Perché i ribelli, quando ne hanno avuto l’opportunità, non hanno varcato le Alpi, con la prospettiva di poter insediarsi in un luogo meno pericoloso?
Hai proceduto, sulla base delle informazioni raccolte, a una ricostruzione coerente e plausibile. Allo stesso tempo hai evidenziato alcuni aspetti significativi per poter attualizzare il più possibile la vicenda. In che direzione ha proceduto la tua attualizzazione?
Secondo me è con questa veste che la storia dovrebbe presentarsi, poiché il suo fascino non è nel rilevare le diversità ma nello scovare le analogie.
Per esempio…
Alcune prerogative umane sono naturalmente immutabili: egoismo, ingordigia, ambizione…
La direzione delle strategie politiche è determinata dalla ricerca ossessiva del potere.
Il benessere della ristretta cerchia oligarchica può essere garantito solo mediante i sacrifici dei molti che appartengono alle classi sottoposte.
Corruzione e malaffare sono gli strumenti adatti per perseguire il fine.
Le regole del consenso si basano sulla reiterazione della propaganda, sulle promesse (anche irrealizzabili, piuttosto che sull’ammissione di limiti di fattibilità), sulla inevitabile collusione con un’entità religiosa.
Il popolaccio deve avere informazioni limitate: non deve cioè avere gli strumenti di conoscenza critica adatti a mettere in discussione il governo e, sostanzialmente, a ribellarsi. Per questo motivo, la plebucola deve essere soddisfatta nei suoi bisogni primari e “intrattenuta” (la citazione panem et circenses di Giovenale riassume egregiamente il concetto). Se queste strategie di chirurgico “ammaestramento” non dovessero bastare, occorrerà terrorizzare il popolo, fare in modo che questo indirizzi rabbia e scontento in direzione di un nemico condiviso e delegare al governo la risoluzione del problema.
Tutto il romanzo è disseminato di citazioni, dialoghi e indizi che costituiscono un fertile sottotesto nel quale gli accostamenti tra la Roma Repubblicana e il nostro presente fioriscono in continuazione.
Ecco quindi (solo per fare un paio di esempi) come i ludi gladiatori “diventano” moderni spettacoli sportivi o show mediatici (direi che, almeno in un caso, gli stessi autori televisivi ammettono con non poco sarcasmo il tenore della loro produzione definendo “arena” il luogo d’incontro degli ospiti), come i graffiti sui muri e le urla degli strilloni addomesticati rappresentano l’odierna propaganda, soprattutto televisiva, senza considerare le effettive affermazioni, in ogni epoca, delle istituzioni religiose e le reali motivazioni delle guerre, da sempre finalizzate a fare incetta di “schiavi” (attualmente anche in senso economico, in qualità di utenti consumatori), aprire nuovi mercati e aumentare la ricchezza dei committenti.
La ricostruzione storica è precisa e include sia gli aspetti pratici sia le atmosfere, le mentalità, il bagaglio istituzionale del mos maiorum. Fedeltà assoluta o licenze?
Altra intenzione era infatti quella di accompagnare il lettore nei vicoli, nelle domus e nelle insula romane, enfatizzando le caratteristiche e gli aspetti più rilevanti, comprese curiosità e ritualità, della cultura e della tradizione romana dell’epoca.
Le scelte dei tre personaggi principali e delle vicende che li riguardano sono state in parte effettuate per raggiungere questo scopo (Claudia vive in presa diretta tutte le contraddizioni di Roma; il ruolo di Floro è funzionale a delineare l’aspetto militare e la cultura romana più “robusta” attraverso le testimonianze di un uomo che ne rappresenta l’essenza, ovvero suo padre; Decio invece, attraverso il quale si narrano le gesta di Spartaco e dei suoi seguaci, evidenzia le differenze tra mondi opposti).
Si consideri inoltre che nel periodo cui la narrazione si riferisce (73-71 a.C.), a Roma erano presenti e agivano, a vario titolo, alcuni dei personaggi più carismatici e affascinanti dell’intera storia della Repubblica, tra i quali Pompeo, Cesare, Cicerone, Crasso…
Le licenze storiche che mi sono concesso sono state ponderate per adempiere alla verosimiglianza delle vicende (nei limiti di una coerenza in questo caso esclusivamente romanzesca) e raggiungere gli obiettivi più “alti” di cui facevo cenno. Gli adattamenti più significativi rispetto alla storiografia ufficiale riguardano Cesare, il fuoco di Vesta e i ludi.
Non ci sono prove dell’intervento di Giulio Cesare nelle campagne militari del 71 a.C., ma è altamente probabile il suo impiego, considerata la carica di tribuno che rivestiva in quel periodo.
Non ci sono attestazioni scritte legate allo spegnimento del fuoco del Tempio di Vesta, ma ritengo che un tale evento possa essersi comunque verificato nel corso dei secoli che hanno caratterizzato la storia romana. A tal proposito, credo fermamente che un episodio del genere non potesse essere testimoniato poiché, rappresentando la “morte” della stessa Roma, i magistrati più autorevoli ne avrebbero senz’altro impedito la divulgazione ai posteri, evitando in tal modo di vedere accostato il proprio nome a una tale infamia. L’episodio in questione, all’interno della narrazione, assume in ogni caso una rilevanza prettamente allegorica.
Alcune espressioni dei personaggi (in particolare Cicerone) appartengono in realtà a Giovenale e ad altri satirici romani. Sono state anticipate le apparizioni (in realtà documentate soltanto in epoca imperiale) di alcune figure gladiatorie, di diverse procedure e di talune bestie esotiche nelle parti relative ai ludi ed è stato adattato il Circo Massimo a un immenso anfiteatro, per consentire la piena rappresentazione degli svaghi realizzati negli anfiteatri.