di Filippo Casaccia
Il periodo illuminista
“Un buon assolo parte con un tema, qualcosa che puoi cantare; poi tento di andare dove andava Coltrane: qualcosa che magari la testa non capisce, ma il cuore sì”
Carlos Santana
Si dice che di solito la differenza tra musicisti jazz e musicisti rock è che quelli rock suonano cinque accordi davanti a cinquemila persone, mentre quelli jazz suonano cinquemila accordi davanti a cinque persone.
La diceria non sembra spaventare Carlos Santana che nel 1972, esaurito come Vil Coyote, compie un triplo carpiato e stupisce tutti: basta con lo status di guitar hero venerato dalle masse, basta coi singoli da classifica, basta con le tentazioni secolari della vita da rockstar. In quel fatidico anno Carlos vede la luce e abbraccia una nuova filosofia di vita: trova un guru, trova l’amore e soprattutto decide di esplorare nuove direzioni musicali. Del resto a cavallo tra ’72 e ’73 tutto il panorama musicale è alla ricerca di nuovi sbocchi. Gli Stones stanno licenziando l’ultimo loro grande album, forse il migliore, Exile On Main St.; la triade dell’hard rock — Deep Purple, Black Sabbath e Led Zeppelin — è spaesata e non raggiungerà più le vette passate, così come gli Who. Jeff Beck cazzeggia, Clapton è drogato marcio e tutto il progressive si sta rifugiando in un esibizionismo che provoca l’orchite in chi non ne può più di assoli quaresimali.
E fino all’esplosione del punk, la prima tangentopoli del rock, si vivacchierà così, incerti.
Anche se…
Carlos si perde, sì, ma si ritrova pure, facendo cose egregie. I rapporti col tastierista Rolie e il giovane chitarrista Schon sono ai minimi termini e i due accettano di continuare a incidere ancora un album, ma dal vivo, no: stanno mettendo su una loro band. Diventeranno i Journey, un gruppo rock che dispensa grandi escursioni strumentali nei primi tre fantastici album (invendutissimi) e poi si trasforma nella più classica band da stadio anni Settanta: diventeranno i profeti della ballatona da accendino e dell’A.O.R., l’Adult Oriented Rock piacione e radiofonico. E diventeranno anche oscenamente ricchi e, per chi scrive, un po’ noiosi.
Ai nuovi Santana si aggregano tanti ospiti e anche due musicisti che risulteranno fondamentali per il futuro. Il primo è lo storico percussionista cubano Armano Peraza, già agée e con un curriculum notevole in ambito jazz, avendo percosso a lungo per Mongo Santamaria. Tom Coster è invece un richiestissimo tastierista (rinuncerà a Zappa ed Elvis per i Santana) dallo spiccato gusto melodico. E questa nuova formazione ballerina, assillata dal management che teme l’implosione, sforna l’ennesimo capolavoro, un disco epocale: Caravanserai.
Le incisioni avvengono in un clima teso ma creativo. Un topolino che ha ascoltato i bootleg delle jam preparatorie mi ha detto in un orecchio che si tratta di orgasmi multipli in musica. Tappeti percussivi, sonorità rock e scale astruse che si arrampicano su sequenze di accordi eccedenti, diminuiti e aumentati, quelli che fan la gioia del jazzofilo e il dramma degli irrecuperabili musicali come me.
Il boss della Columbia, Clive Davis, va a fare la classica capatina in studio. Che è nella penombra, illuminato solo dalle candele e dalla nuova fede del leader. Ascolta i nastri, gli viene un coccolone e annuncia che qui si sta commettendo un suicidio artistico. Carlos, spalleggiato dal batterista Shrieve, resiste e insiste. Si fa di testa sua.
Peraltro è uno dei pochi errori di valutazione di Clive Davis, uomo che per la suddetta Columbia ha fatto firmare Bruce Springsteen, Janis Joplin, Aerosmith, Billy Joel e Pink Floyd. E infatti verrà fatto fuori di lì a breve, non a causa di Caravanserai, ma perché, come in un classico Woody Allen (cioè quando faceva ancora ridere) il milionario Davis distrae alcuni fondi della CBS per pagarsi il Bar Mitzvah del figlio. E lo beccano.
L’album risente dei ripetuti ascolti di Miles Davis, stimolati da Shrieve stanco di rock’n’roll: si coglie il gusto per quei groove da trance su cui il solista fa ghirigori, melodie e piccole fughe in avanti… ma Carlos e band non sanno trattenersi e non c’è la fredda continenza che caratterizza Miles: Carlos arriva all’orgasmo molto prima e non mi farò certo io problemi di durata.
Tutte le istanze jazzate degli album precedenti, i segni della passione per Davis o Coltrane, da sapori diventano ingredienti veri e propri. Il passaggio è preciso, marcato, e tutto l’album è pervaso da questa atmosfera che ricorda, per dire, Sketches of Spain: temi modali fluttuanti ma anche duelli chitarristici furiosi. L’insieme è omogeneo e coinvolgente sin dall’inusuale partenza aurorale: un canto di grilli e un sax sornione. Le chitarre accarezzano, poi cominciano le contorsioni funk fino all’esplosione rock. La Song Of The Wind riporta la serenità, prima del flamenco davisiano che chiude il primo lato. Il secondo è una festa di percussioni che spinge ancora di più verso il jazz rock, con tocchi brasiliani (Jobim) e africani. Non c’è niente di astruso, criptico o esclusivo: è un caleidoscopio di suoni e colori e siamo tutti invitati ad unirci al caravanserraglio in marcia verso il sole, come ci ricorderà anche un piccolo grande film di Salvatores, Marrakech Express, che citerà esplicitamente la cover dell’album. (E, aggiungo: la colonna sonora del film, di Roberto Ciotti, era felicemente santaniana).
Nonostante il terrore della casa discografica, l’album vende bene. Non come i precedenti, ma bene. Dal vivo invece si è in fase di transizione e il nuovo corso suscita qualche perplessità nel pubblico: si evitano le hit e l’introduzione invece di tanti pezzi fusion, mai pubblicati su disco, lascia spaesati.
Tra un concerto per le vittime del terremoto in Nicaragua e un tour europeo, Carlos incide anche un altro album, Love Devotion Surrender, questa volta con l’amico John McLaughlin, chitarrista jazz sopraffino e mente tra le menti nella Mahavishnu Orchestra, la band che ha portato il jazz rock in classifica con un curioso e originale sound: ascoltare un loro disco è come entrare in una stanza dove c’è della gente che sta litigando violentemente, con tutti gli strumenti sparati a mille contemporaneamente. Del resto, strumentalmente bravi come loro ce ne sono pochi (Cobham alla batteria, Hammer alle tastiere, Goodman al violino) e McLaughlin è uno che, se fosse possibile, sminuzzerebbe le note anche in centoventottesimi.
In questo album di folgorante bellezza c’è soprattutto Coltrane — rivisitato con impeto elettrico (A Love Supreme) o gentilezza acustica (Naima) —, con la sua ricerca spirituale e la tensione verso l’infinito. Poche note di Carlos e autentiche grandinate di McLaughlin: si va dall’isterico all’estatico; la melodia facile è bandita, come il coinvolgimento ritmico fisico.
Amore, devozione e resa. Alla bellezza.
All’interno del disco Carlos e John sono vestiti di bianco, seduti nella posizione del loto a fianco del guru Sri Chinmoy, di cui McLaughlin è adepto maniacale, tanto da avere una Gibson SG a doppio manico che ospita la scritta Sweetest is… sul manico della dodici corde e …my Lord su quello della sei corde, strumento da illuminazione ed ernie fulminanti. Santana, partito dallo studio di Paramahnsa Yogananda, si accoda e chiede disciplina interiore. Il guru, uno che — detto tra noi — sostiene di aver sollevato 3000 chilogrammi grazie alla sua capacità di concentrazione, manco fosse un Caterpillar di materia grigia — accoglie il nuovo discepolo e il suo nuovo amore, Deborah, figlia del chitarrista blues Saunders King. Li battezzerà Devadip e Urmila, luce di Dio e luce del supremo. “Cristiano io? Non sono nulla. Quando morirò troverò la luce e non importa se ci sarà Buddha o Gesù”.
Ahia.
Carlos si taglia i capelli e comincia a vestirsi di bianco come un chirurgo in sala operatoria. In concerto appaiono foto di Gesù e Sri Chinmoy in mezzo agli amplificatori. Per i materialisti storici della critica militante europea la conversione religiosa e musicale è un colpo basso, per gli americani una trovata come un’altra.
Durante il 1973 Carlos sposa Deborah e parte per una storica tournée mondiale che vede la registrazione di un live feroce in Giappone e soprattutto un mese di date in Sud America. All’epoca nessuno nordamericano si avventura nelle terre dei macacos: Carlos e compagni fanno 21 date toccando Messico, Guatemala, El Salvador, Costa Rica, Panama, Nicaragua, Venezuela, Colombia, Argentina e Brasile, in un tripudio di folla. Ne viene tratto anche un film documentario interessantissimo che uscirà nel 1975, Santana en colores. Su Youtube c’era il trailer ma è stato rimosso, cosa che mi fa augurare una prossima pubblicazione in Dvd coi controcazzi.
Il nuovo album esce a novembre e si chiama Welcome ed è elegante e puro a partire dalla confezione bianca e oro. Parte e chiude nella pace dei sensi, ma in mezzo ci sono canzoni jazz, devastazioni elettriche, rigoglio strumentalmente diffuso e ricchezza di percussioni. È un album meno rock di Caravanserai ma molto riuscito, anche se non per tutti – come del resto questa puntata che mi sembra una pallata micidiale.
La produzione musicale va avanti intanto senza soste. Le vendite sono calate clamorosamente ma il nostro eroe non se ne cura. Nel luglio ’74 l’amico immaginario Devadip pubblica assieme alla vedova Coltrane un 33 ghiri soporifero: Illuminations. Levigato, lontanissimo dalla violenza dei Santana prima maniera, si apre con un programmatico Oooooom. In formazione gente quotatissima come Jack DeJohnette, Dave Holland e il flautista Jules Broussard. La CBS tollera il successo irrisorio mentre Carlos appaga l’ego musicista, guadagna la stima di alcuni colleghi e la rivalutazione ipocrita delle riviste di settore. E intanto a ottobre è già pronto un altro album di gruppo, Borboletta. E qui, per l’ascoltatore medio, son cazzi amari: il titolo portoghese (“farfalla”) ricorda una caffettiera sfiatata e il disco è uno dei prodotti santaniani più ostici. Pochissimo rock, qualche splendida melodia, tanto Brasile. Lo comprano a malapena i familiari di Carlos.
Durante il 1975 Carlos suona gratis con McLaughlin al Jharna Kala Concert, a New York, celebrando il guru sbulaccone Sri Chinmoy che vanta — grazie alla meditazione – di aver eseguito 10.000 (diecimila) dipinti, 100 al giorno per 100 giorni, dipinti che non mi aspetterei accurati maniacalmente come un Canaletto, ecco. Poi per fortuna il chitarrista parte in tour aprendo per il redivivo Clapton. Qualche jam incendiaria col bluesman e una clamorosa Sympathy For The Devil ospite degli Stones al Madison Square Garden fanno riflettere il compañero che comprende di essersi troppo distanziato dal popolo. Segue un tour da headliner in Europa, passando anche per la Jugoslavia dell’illuminato maresciallo Tito, uno che in curriculum vanta un pranzo con Lemmy, non ancora Motörhead (è una lunga storia, vera). I Santana sono accompagnati dagli apripista Earth Wind and Fire, che suonano come tarantolati. Dimenticate certe faraoniche egizianate che il gruppo presenterà dagli Ottanta in poi: all’epoca erano un signor gruppo con un certo pepe rock al culo. È un momento di riscoperta terzomondista a livello mondiale e Bob Marley comincia a farsi un nome anche fuori dalla Giamaica. Carlos vede ancora la luce e capisce che servono canzoni per far muovere la gente: il cazzo non vuole pensieri, insomma.
A dicembre viene pubblicato Lotus, il micidiale triplo dal vivo registrato in Giappone due anni prima, ma — complice anche il costo — non se ne vende una copia una. Quando l’ho acquistato e l’ho aperto (è un triple gatefold) non potevo crederci: un delirio grafico nipponico di cui è magnifico colpevole Tadanori Yokoo (e chi non lo conosce?), che mescola i credits dell’album, la tracklist e addirittura l’orgoglioso programma del tour di tre settimane al minuto, ad arte sacra medievale, a Buddha, Cristo e Vishnu, piramidi egizie, colombe dorate, astronavi, ghiacci, deserti e paesaggi lunari, in un mescolone tra i più kitsch mai visti.
Su disco una voce educata, in giapponese stretto, invita alla meditazione e alla preghiera. Segue un minuto secco di religioso silenzio e poi partono il gospel spaziale di Going Home e i primi timidi applausi. Si va avanti per due ore con Carlos che improvvisa con la chitarra a manetta, presentando i grandi successi così come digressioni jazz fulminanti. Il pubblico giappo è attonito e riverente di fronte a una Incident at Neshabur da un quarto d’ora, una Samba Pa Ti da arresto cardiaco e un assolo di batteria interminabile. C’è anche tempo per un omaggio ad Angela Davis (Free Angela), esecuzione che fa salire di diverse posizioni il compagno Santana nel mio ranking dell’ortodossia.
È un live eccessivo, ma vivo veramente: un loto sbocciato e mai sfiorito e perciò bellissimo. È anche l’apoteosi del periodo jazz rock e il culmine della distanza dei Santana dal pubblico e non credo conoscerà mai una ristampa integrale.
Entrando oggi in una casa discografica potreste vedere il classico executive che si butta giù dall’ultimo piano così come un bimbominkia coi pantaloni così bassi da vedergli il buco del culo — ma da davanti — che dà ordini su cosa produrre. Gente così, qualche anno fa, ha fatto uscire una taccagna riedizione in Cd di Lotus dove, dopo l’invito alla preghiera, seguiva direttamente il primo pezzo. Per ignorantissimo horror vacui, questi fessi hanno tagliato la meditazione silenziosa. Ringrazino che Sri Chinmoy non è più tra noi, se no gli avrebbe dato diecimila schiaffi in 10 secondi.
Mondo Santana
Il nuovo corso parte con Amigos, nel marzo 1976. Torna la latinità sfrenata, fa capolino il pop e certo funk alla Stevie Wonder, così come il flamenco nella versione più bura e danzereccia. Il disco è un collage poco omogeneo, ma vende tanto e riporta i Santana in auge, anche grazie a una ballata intensissima, Europa. In Italia, per dire, Amigos si fa 8 settimane in testa alla classifica.
I concerti proseguono come sempre in tutto il mondo (i Santana fanno abitualmente dai due ai sei tour ogni anno) e con rinnovato successo, nonostante gli eccessi sartoriali dell’epoca: talvolta Carlos indossa un vestaglione o delle tuniche francamente emetiche, mascherandosi sotto degli occhialoni che potrebbe portare giusto Gustavo Thoeni in slalom gigante.
Per i depositari della critica, Santana finisce qui di essere creativo. La sua formula è già cliché e il suo sound, dalle strade e dalla giungla, è finito in discoteca e in salotto. È parzialmente vero: i dischi non sono più capolavori come i primi album (difficilmente però battibili) ma, all’interno di progetti senza un’identità precisa, spiccano sempre due o tre perle.
La formula vincente si ripete pochi mesi dopo e nel dicembre 1976 esce Festivàl, album che non ha le punte di Amigos, ma è più amalgamato, ricalca la formula e la migliora sensibilmente, introducendo nel mix anche Cuba, merengue e carnevalate cafonissime e molto coinvolgenti, riscattate magari dalla lirica Revelations.
Il momento d’oro è sfruttato per incidere un doppio album che uscirà nel settembre del 1977, metà in studio e metà live, però stavolta market friendly. Rodati da mesi di concerti (tra cui un benefit nella prigione di Soledad, assieme a Joan Baez) i Santana propongono i classici del gruppo in versioni turbo. I pezzi in studio sono di classe, sintesi ottimale di jazz, pop e rock, ed evocano — un po’ ingenuamente, ma Santana è questo — paesaggi lontani e situazioni esotiche con titoli come Zulu, El Morocco, Bahia, Transcendance. Non mancano il monumentale assolo di batteria, lo splendido lentazzo (Flor d’Luna) e il furbissimo singolo rock virato cha-cha (She’s Not There), che trascinerà l’album in vetta alle classifiche. Il risultato? 10 milioni di copie vendute nel mondo e Santana ancora saldamente in sella. Ed è qui che cominciano i guai, perché la CBS risente il profumo dei biglietti verdi e vuole un Santana da classifica. Sempre.
Ma di questo, come diceva una voce suadente alla fine di ogni puntata di Heidi, parleremo la prossima puntata, quando rievocheremo anche la calorosa accoglienza riservata a Carlos al Vigorelli di Milano.
Con una molotov.
(Continua — 3)
Qui le altre puntate.