Da “The Hurt Locker” a “Green Zone”: Lamenti di una sconfitta annunciata

di Alan D. Altierihurtl2.jpg

Quando i generali distruggono i loro stessi eserciti
bisogna smettere di combattere,
se non si vuole perdere la guerra.

(Anonimo)

IED, WMD. I nipotini dello zio Sam just adore, semplicemente adorano, gli acronimi, tutti indistintamente. Inclusi gli acronimi di cui sopra. Nell’ordine:
IED, Improvised Explosive Device, Congegno Esplosivo Improvvisato, una delle più recenti etichette a indicare la morte per sbrindellamento a mezzo alto esplosivo e shrapnel;
WMD, Weapons of Mass Destruction, Armi di Distruzione di Massa, vale a dire armi nucleari, batteriologiche, chimiche, insomma tutte quelle delizie in grado di far apparire Hiroshima come Disneyland.
Gli acronimi di cui sopra – più tutti i disastri che si sono tirati (e tuttora si tirano) dietro – sono una sorta di beffarda sintesi dell’ultima farneticazione iper-militare, psico-politica, sub-economica degli Stati Uniti, epoca Bush-II.
La farneticazione in questione è la Seconda Guerra dell’Iraq.

Ma difatti: la trionfale s/campagna militare (Mission accomplished, my global consumers of OIL!) in cui la demoKraZZZia è stata esportata a suon di bombe al napalm (the whole hill smelled like… Victory! ), ordigni a sciame (just kick one and enjoy your own castration, ya jerkoff!) e proiettili all’uranio imporerito (K-17, man, the best: you’ll shine in the dark!).
E gli acronimi di cui sopra sono anche gli assi portanti rispettivamente di The Hurt Locker e di Green Zone, due dei film di guerra più esplosivamente (in tutti i sensi) anti-guerra che la cinematografia americana ci abbia passato dai tempi eroici di Apocalypse Now. Antitetici solo in apparenza, Locker e Zone presentano un ineluttabile, inesorabile denominatore comune, vale a dire… Hold it, man, one step at the time.

Noi patetici abitatori della terra di sub-Z faktor, pikkolofratelloscemo e lapenisoladeglignotidioti ci limitiamo a parlare di “bombe artigianali”. Ma laggiù, nella terra della demoKraZZZia esportata con le già esposte modalità, dopo un incontro ravvicinato del 4˚ tipo con uno IED, i tuoi grumi – irriconoscibili schegge ossee, qualche fibra epatica, mezza sinapsi dilaniata – tornano a casa da mamma’ dentro una bara d’alluminio avvolta nella bandiera a stelle e strisce (the few, the proud, the dead!). A meno che “qualcuno” – palle più dure delle tue, desiderio di morte più forte del tuo, azzardo letale più spiccato del tuo – non vada “là fuori” a staccare la spina a quei fottuti IED.hurtl.jpg
Questo l’innesco, in senso letterale, di The Hurt Locker, inaspettato spoiler degli Oscar 2009. Costato meno di uno spuntino di comparse di Avatar, The Hurt Locker (L’armadietto della sofferenza, a indicare la cassetta degli utensili dell’artificiere militare), è diretto dall’unica signora “che sappia dirigere film d’azione meglio di un uomo”. La signora in questione è Katherine Bigelow, trent’anni sulla breccia del cinema americano duro & puro, ex signora James Cameron, con al suo attivo almeno tre pezzi – Blue Steel, Strange Days, K-19 – che azzannano alla giugulare.
Focale di The Hurt Locker è il rapporto dell’uomo, iniziale minuscola, con la Morte, iniziale maiuscola. E per il Sergente Specialista William James (candidato all’Oscar Jeremy Renner), lo ultimate high, lo sballo definitivo è dominare sudore, lacrime e sangue, procedendo a disinnescare abbastanza materiale detonante da ridurre in briciole… beh, fate voi: quanto a roba da ridurre in briciole “là fuori” c’è solo l’imbarazzo della scelta. Non a caso il predecessore del Sgt. James (l’ottimo Guy Pierce in una parte folgorante) se n’è andato in una gloriosa, purpurea nube di shrapnel. Per cui, nella terra post-apocalittica fatta di rovine livide battute dal vento e popolata da zombi che raschiano il fondo delle cloache che è il nuovo demoKratiKo (quanto!) Iraq, il Sgt. James di IED ne ha disinnescati oltre ottocento. Hot shit, soldier, hot shit!, nell’ammirato commento di un colonnello (il valido caratterista David Morse) che sembra il fratellino minore di Valkyria Kilgore.
Hot shit, certo. Peccato però che sia un disadattato, l’eroico Sgt. James. Peggio: uno psicopatico da manuale. Fin troppo significativo il dettaglio del ragazzino iracheno che il Sgt. James non riesce a riconoscere da vivo, né da morto. I commilitoni del Sgt. James di lui non si fidano e gli ufficiali gli scoppiano (letteralmente) in faccia. Il Sgt. James si trova molto più a suo agio nella devastazione di Baghdad, inginocchiato di fronte sei, diconsi sei, obici di artiglieria tutti collegati a un unico primer che non a comprare pannolini in un qualsiasi fasullo supermercato di una qualsiasi piovosa cittadina a east dumbfuck, USA. Il Sgt. James riesce a relazionarsi molto meglio con quello scafandro anti-scheggia che lo fa sembrare Goldrake in metamfetamina e con in pugno la pinza per tagliare il cavetto micidiale (okay, mr hero, whassigonna be, red or blue?) che non in jeans e scarpe da tennis assieme all’adorabile mogliettina all-amerikan (Evangeline Lilly appena scappata fuori da Lost).
Da siffatte premesse, The Hurt Locker emerge come la cronaca gelida e impietosa, distaccata e funerea del trionfo del Thanatos psicopatologico. Non è la nostra guerra, questa. Non abbiamo mai voluto combatterla. Non ce ne frega niente della “divisione petrolio” e/o del “battaglione metano” e/o del “plotone kerosene”. Gli unici a cui piace combatterla, questa guerra? Hey, man, what are ya, blind? It’s the fucking psychos!

Tutt’altra musica (ya sure about this, man?) suona il Sergente Specialista Roy Miller (il sempre compassato Matt Damon), buon soldato “che vuole solamente salvare vite” al comando di una squadra speciale del 75º Battaglione di Fanteria, US Army, unità creata appositamente per trovare le famose e famigerate WMD nascoste chissà dove (But we KNOW they’re there, people!) dal famigerato Saddam Hussein. Per cui, nella torrida estate del 2003, il buon soldato Sgt. Miller si affanna nella ricerca della prova provata del case for war (il casus belli). Guida coraggiosamente i suoi uomini nella devastazione urbana lasciata dai bombardamenti a tappeto delle turpe strategia Shock & Awe (Colpisci & Terrorizza), lungo strade ingorgate di poveri bastardi urlanti che chiedono acqua potabile, tra saccheggi di massa stile Guerra dei Trent’Anni, sotto il fuoco di cecchini straccioni.
Solo che… WMD? Oops, we ain’t finding jack shit! Non troviamo un beneamato cazzo! Testate nucleari, gas nervino, fusti di antrace? Manco per la canna del cesso. Troviamo solamente capannoni desolati pieni di guano e scantinati fatiscenti invasi da rottami. Quindi? Quindi o l’intelligence è fottuta o qualcuno sta “ciurlando nel manico”. O, peggio ancora, entrambe le cose. In realtà, è molto peggio di peggio ancora.
Scritto dall’abile professionista Brian (LA Confidential) Helgeland, diretto con meta-documentaristico pugno di ferro dal fuoriclasse inglese Paul (Bloody Sunday, Bourne Supremacy & Bourne Ultimatum) Greengrass, Green Zone è una cruda e crudele discesa agli inferi dell’inganno di Stato corrotto e del massacro di Stato criminale. Il casus belli contro l’Iraq? Frode, farsa, menzogna. WMD? Cessate di esistere alla fine della I Guerra dell’Iraq, 1990. Tutta quella gente macellata sotto le demoKratiKe bombe? Well, fuck ‘em all! L’unico che sa, l’unico che può testimoniare, è il Generale Al Rawi, nome codice Magellan, pezzo da novanta del regime e ora “fante di fiori” nell’oltraggioso mazzo di carte preparato dallo zio Sam con le effigi dei gerarchi più ricercati di Saddam Hussein. Il paradosso macabro mentre l’esercito iracheno viene dissolto ab imperio dall’occupante americano e mentre il labirinto devastato di Baghdad si tramuta di nuovo nel fondo dell’inferno? Salvare un boia iracheno per portare alla luce i boia a stelle e strisce. Come va a finire? Beh, lo sappiamo quale paradiso di pace (eterna)/libertà (di Abu Grahib)/diritti (IN)umani è il demoKratiKo Iraq di oggi. O no?

greenzone1.jpgCosì i due vettori narrativi di questi due grandi film apparentemente antitetici – psicopatologico (The Hurt Locker) e politico (Green Zone) – si sovrappongono, si fondono in un’unica osmosi dell’orrore.
Nell’Iraq ridotto a immondezzaio post-Zombi Holocaust, non c’è nessun John Rambo, deità grottesca, che falcia nemici di gomma con una mitragliatrice di plastica. E di certo non c’è nessun Mr. Manhattan, demone pornografico di Watchmen, che disintegra nemici di stracci con un semplice gesto della mano a neutroni. No, l’orrore puro di The Hurt Locker e di Green Zone è la trita, noiosa, quasi masturbatoria, ripetitività della distruzione e dell’autodistruzione. Nel nome del nulla.
Emblematiche in entrambi i film le prodigiose immagini finali: l’essere dentro lo scafandro di The Hurt Locker in marcia solitaria lungo una strada devastata, diretto all’ennesima missione ignota, sul margine di un baratro arcano; e il buon soldato di Green Zone, sconfitto dalla sua stessa guerra sbagliata, in un vuoto, inutile pellegrinaggio attraverso un paesaggio di totale annientamento.
Immagini che sono promemoria definitivi della più ancestrale verità umana: i nemici più infami, i mostri più mostruosi… siamo noi.