di Jari Lanzoni

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lanzo03.jpgVentisette minuti all’intervento.
Adriano scagliò l’i-Call contro il muro e si prese la testa tra le mani. Stava per piangere. Si chiese come cazzo avesse fatto a finire in quella situazione. Il Ministro Lombardo aveva una cosa, una roba, lappendice, lì, che gli faceva male.
Mazieri. Alla fine era tutta colpa di Mazieri.
Quel veneto del cazzo era bravo nel suo lavoro: sapeva leggere le cartelline, fare le cose. Nemmeno un errore in otto anni di lavoro insieme. Insieme. Insieme entravano nell’ambulatorio chirurgico. Poi lui usciva dall’accesso riservato e si faceva i cazzi suoi. In genere si faceva Arianna, o Naomi. Mazieri intanto tagliava il tagliabile al coglione di turno e il lavoro era fatto. E insieme uscivano. E quindi ecco un’altro successo per la famiglia Serravalle, medici da quattro generazioni. Altro successo dei medici della Libertà Azzurra. Mazieri si pigliava un sacco di soldi, e figa, e stava zitto.

Un sistema perfetto. Perfetto. Tanto quella testa di cazzo di più non poteva sperare di ottenere nella vita. I suoi erano di quegli sfigati poveri del cazzo e lo avevano fatto studiare fuori Italia, a Parigi. Ecco perché aveva la laurea. Francesi froci del cazzo. Se Mazieri avesse cercato di entrare in università nel suo paese la security lo avrebbe preso a calci in culo. Ecco come andavano fatte le cose, altro che. Non si dava un camice al primo che passava, no, ad uno che non si sapeva da che famiglia venisse, chi cazzo fosse. No, cazzo, no.
E Mazieri si era ammazzato finendo sotto un’auto.
Coglione. Coglione. Coglione.

Di colpo il suo video si illuminò. Una comunicazione urgente. Sybil aveva usato un protocollo d’emergenza. Il suo avatar era circondato di didascalie. L’ultima, la più grande, era bordata di un rosso acceso, pulsante.
Un rapporto sulle condizioni mediche del Ministro Lombardo e altre stronzate di Sybil. Adriano lesse e rilesse. Si nettò il sudore dalla fronte. C’erano due problemi, a quanto capiva. Ignorava cosa fosse una peritonite acuta, ma forse l’aveva già sentita nominare da qualche parte. E poi l’altro problema su cui la troia negra insisteva e insisteva. Una complicazione medica mai sentita. Che cazzo era una deontologia?

8

Quello che uscì dall’ufficio era uno strano animale rifatto. Italiano, pensò Patterson. Ma un altro italiano, non come il suo “Italiano”. Un diverso italiano, di quelli che a lui non piacevano. Vestiva in nero, un gessato di classe rovinato da una patacca dorata sul petto. Sorrideva. Denti perfetti. Sorrideva. I tre bestioni dai capelli unti dietro di lui camminavano e annuivano, sapevano di steroidi e cattiveria. Annuivano anche se l’altro ancora non parlava, annuivano e lo seguivano. E l’altro sorrideva. Tutti i ricchi sorridevano in quel paese. I diversi Italiani erano tutti ricchi. E giravano ben scortati.
Il CapoSettore li squadrò duramente, poi entrò nell’ufficio del Controller regionale del CEO.
Si sentiva un residuo di sudore e acqua di colonia, qualcosa di dozzinale.
– Che volevano, quelli? — chiese Patterson puntando il pollice alle proprie spalle.
Luyah ticchettò i polpastrelli scuri sulla superficie della scrivania, evidentemente a disagio. Il completo blu dell’uniforme ufficiale aderiva sul suo corpo asciutto.
– Allora? – ringhiò Patterson. Ab Luyah era un suo superiore, un Controller, ma lui aveva una sufficiente fama di burbero per potersene fregare.
L’altro aprì la posta elettronica. Uno stretto rettangolo luminoso gli comparve di fianco. Fece scorrere una serie di icone e didascalie. – Cambiamo il gruppo di operai italiani. Tutto. Da domani.
– Eh? – Patterson aggrottò la fronte. – Come mai?
– Siamo a posto come organico, ma il Segretario Regionale sta facendo pressioni per inserire un gruppo di operai. Non c’è posto per tutti e quindi ha detto di licenziare quelli attuali e rimpiazzarli.
– Ha detto un cazzo, ha detto – sbottò l’altro, portandosi i pugni sui fianchi. – Chi è che comanda qui dentro?
– I rapporti con la manodopera locale sono gestiti dal Governatore e dal Segretario Regionale, lo sai benissimo. Non possiamo metterci becco. Siamo a casa loro.
– Denacci resta.
Luyah scosse il capo. – Non è una decisione nostra.
– Denacci resta.
Il Controller spense il display delle email. – E’ un italiano. Pensavo ti stesse sui coglioni.
Patterson puntò il dito verso terra: – Questo paese mi sta sui coglioni.
Puntò il dito verso terra, di nuovo: – Questo modo di fare del cazzo mi sta cui coglioni, ma Denacci resta. E’ bravo, ha manualità. Non devo nemmeno dirgli più cosa fare sulle vecchie linee di distribuzione.
– E’ l’unico feedback positivo che ho avuto fino ad ora. – Luyah deglutì, a fatica. – Ma ha perso il posto. Questioni interne dell’Amministrazione Regionale.
– Mi prendi per scemo? – Patterson scosse il capo, con violenza. – ‘fanculo! Cos’è successo? E’ cambiata la spompinatrice del Segretario?
Luyah alzò la mano sinistra, facendogli segno di tacere. Spense i sintonizzatori audio della sua postazione e si allentò il colletto.
– No, quella penso che lavorerà a lungo, ma è morta quella del SottoSegretario, e lui pure. – Trasse un lungo respiro. – Un incidente d’auto, due giorni fa. Lui ha tamponato l’auto di un medico in autostrada, sono scesi dalle macchine per parlare e un Suv con la mignotta di un Ministro li ha spappolati entrambi. – Mise in avanti la mano destra, il palmo verso l’alto. – Denacci era stato integrato assieme ad un gruppo di operai dei “signori” Melzi, che erano amici del vecchio SottoSegretario. – Chiuse la mano, ritirandola. Portò avanti la sinistra, il palmo verso l’alto. – Il nuovo SottoSegretario, bontà sua, per ora è sposato con la figlia dei “signori” Castella che si scopa anche il figlio del Governatore. I “signori” Castella devono – quella parola quasi la sputò – avere personale nelle strutture produttive e quindi il…
– Stà zitto! – Patterson sbatté le sue mani enormi sulla scrivania. Due rettangoli azzurri comparvero attorno a Luyah, riportando una serie di parametri di configurazione. Li spense con un gesto della mano e fissò le iridi chiare dell’americano, circondate da aghi di sottili vene intrecciate.
Il CapoSettore era paonazzo. – Che merda di posto… – ringhiò, voltando le spalle a Luyah e aprendogli il frigo bar. – Non c’è più un cazzo in questo paese, si sono venduti anche il culo. – Trasse una bottiglia di whisky, quello per i clienti, stappandola con rabbia. – E nemmeno lo capiscono. – Ingollò due sorsate. Un rigagnolo colò fino al mento.
Il Controller continuava a fissarlo, immobile. Lavorava con quel bestione da dodici anni.
Patterson tornò a troneggiare davanti a lui, tenendo il braccio destro rilassato. La bottiglia, inclinata, colava scotch sul pavimento.
– Adesso glielo vai a riferire tu – disse, puntandogli addosso un dito. – Vai – ringhiò. – Voglio vederti mentre glielo dici. – Gocce ambrate caddero su di un display.
Luyah scollò le spalle. – E’ compito dell’amministrazione. – Fece comparire un altro display olografico davanti a sé. – E sono le regole degli Italiani. Non possiamo farci nulla.
– Vai a farti inculare. – Patterson uscì bestemmiando in maniera oscena.

9

Un mucchio di giovani ruggì all’unisono scagliando la preda in aria. Un ragazzotto grasso volò, volò letteralmente, contro un muro distante diversi metri. Prey-throwing. Una moda dell’est. L’impatto con la pietra polverosa fu tale che il ciccione rimbalzò schiantandosi al suolo con la spalla sinistra piegata quasi fino allo sterno. Gridò, con la bocca dalle grosse labbra vermiglie spalancate in maniera grottesca. Gli aguzzini dalle logore maglie verdi gli saltarono addosso in branco, colpendo con tutto quello che avevano in mano.
Avrebbero continuato fino a ridurlo a polpa viva.
Era una serata di festa.
Samuele Denacci fissò la scena alzando il braccio destro al cielo, con l’altra mano finì di vuotarsi una bottiglietta di broda. Era carico da matti. La mescalina sintetica gli aveva appena bruciato la bocca. Non sentiva nulla. Nulla dal naso al mento. Era come se al posto di carne, cartilagini e nervi ci fosse solo un buco nero. Sapeva di aprire e chiudere la bocca, ma non avvertiva nulla.
Lasciò la mattanza scivolando lungo un vecchio muro rovinato, trovandosi davanti a una bambina dalla pelle olivastra che si rotolava per terra, tenendosi le mani sul pube. La gente le camminava o danzava attorno senza vederla. Samuele, caracollando, notò che aveva la maglietta lacera e le cosce rigate di sangue. Provò un primo moto interiore, qualcosa di spiacevole, poi vide che aveva il naso adunco. Era una bambina dalla pelle olivastra. Lasciò cadere per terra la bottiglia vuota. In seguito non si sarebbe mai ricordato di averle orinato addosso.
Tutt’intorno a lui la notte esplodeva in una sequenza ininterrotta di giochi di luce su vecchi schermi d’acqua alti una decina di metri, che vibravano con violenza per le emissioni dei trasmettitori sonori. In Italia c’era la fame, ma musica, fica e roba non mancavano mai. Le attività serali erano al lumicino ma per chi sapeva arrangiarsi qualunque spiazzo poteva essere circondato da proiettori liquidi e trasmettitori, diventando un rave in poche ore. A quel punto, nelle province povere come quelle di Samuele, la gente sgusciava fuori dagli edifici fatiscenti e di perdeva tra luci e colori, smarrendosi con slancio febbrile.

Samuele affondava ormai in un mare di carni sudate, tra gli afrori tipici dei ragazzi dei quartieri della middle class, agglomerati urbani quasi del tutto privi di allacciamento alla rete idrica. Allargò la bocca di cui non aveva ancora alcuna sensibilità. Voleva mordere. Voleva mordere. E invece ingollava altra broda.
Ogni volta che la sua mente lo riportava a qualche ora prima, sentiva le spalle abbassarsi, i testicoli diventare di ghiaccio, ma bastava un giro di broda per non perdere il ritmo. La broda era un distillato casalingo, qualcosa che poteva mandare su di giri o ammazzare di colpo. Ogni volta era un giro di roulette russa. Alternative non ce n’erano: i liquori stranieri erano rari e costosi e i pochi vigneti intatti erano nelle terre dei “signori”.
Quella notte Samuele continuava a far girare di continuo il caricatore a tamburo.
Sonya era sparita. Le aveva detto per i-Call di essere stato licenziato da quei pezzi di merda della CEO, di certo la colpa era di Patterson, e lei aveva messo giù. Poi era sparita. Lui si era sentito come un ramo secco. Sonya lavorava nell’azienda di pulizie di un figlio dei “signori” locali, un lavoro di merda, e per restarci doveva darsi da fare. Sonya non si chiamava Sonya, ma Sofia. Sofia però non andava bene. Per succhiarlo a uno con i soldi non ci voleva Sofia ma Sonya, o Lydia, o Michelle, o Penny o altri nomi del cazzo: a loro piaceva così, a loro piaceva pensarsi come quelli con i soldi e il nome straniero che vedevano nelle fiction. Allora niente Sofia Berti, ma Sonya B. Il cognome spariva.
E Sonya si scopava il capo. E non si era mai scopata lui, Samuele, che adesso era a terra. E non se lo sarebbe mai scopato, lui, un ramo secco.
Era a terra. Era a terra.
Un vecchio a torso nudo, magro fino all’assurdo, corse di fianco a lui mancandolo di poco con le lunghe braccia venate che mulinava tutt’attorno. Un gruppo di ragazzini lo inseguiva con le bocche spalancate e le lingue arancioni per le nezramfetamine D. Volevano dare fuoco ai suoi capelli da rasta, luridi e lunghi.
Samuele li guardò ridacchiando. Si portò alle labbra la bottiglietta di broda e la scoprì vuota.
Ebbe un violento singulto. L’Amministrazione Regionale gli dava solo 36 giorni per trovare qualcos’altro da fare, altrimenti fine della tessera di partito e niente lavoro in futuro, e quindi niente di quel poco che rimaneva dell’assistenza sanitaria pubblica, nemmeno un angolo nei tombini funebri comunali. Erano tutti cazzi suoi.
L’alternativa c’era. Lavorare per i “signori”. E morire facile.

Il ragazzo prese a camminare in mezzo alla folla urlante. Il contatto con la schiena nuda e sudata di una ragazza gli fece avvertire una sensazione strana, si sentì con le braccia ricoperte di ghiaccio, pezzi di ghiaccio. Urtò con un piede una massa anomala di carne fremente: tre tizi si stavano scopando a sangue una ragazzotta. Per terra, in mezzo alla calca. Fatti fino al midollo. Quell’immagine pulsante non gli suscitò alcuna eccitazione, solo una febbre gelida. Altro ghiaccio sulla pelle. Si sentiva forte. Tanto ghiaccio. Lame di ghiaccio.
Aveva retto per tanto tempo. “Italiano!” gli aveva gridato Patterson. “Italiano!” E giù scapaccioni. Scapaccioni: troppo poco per una denuncia formale, ché i froci stranieri si permettevano anche questo, ma abbastanza per disturbare. Ci contava su quel posto, cazzo. Aveva bisogno di quel posto. E adesso non aveva nemmeno Sonya.
Non si accorse di aver perso del tutto la sensibilità al ventre. La broda e la mescalina sintetica avevano sciolto ogni controllo sotto la cintura. – Italiano… – piagnucolò Samuele, a occhi chiusi, senza sapere di star orinando e defecando contemporaneamente. – Italiano… Italiano…
Un tizio dalla barbetta tinta di verde lo urtò un poco. Tolse una lunga lingua arancione dalla bocca di una ragazza e si volse verso Samuele. – Cazzo fai…?? – e storse il naso. – Ehi, ma puzzi come una merda!
Samuele lo fissò inebetito. – Italiano.
La ragazza si voltò dall’altra parte, scossa da alcuni brividi, poi prese a vomitare broda bollente. Broda e nezramfetamine D non andavano mai d’accordo.
– Italiano. – ripeté Samuele, fissando spiritato i tratti dell’altro.
Questi piegò la bocca in una smorfia e sollevò un sopracciglio: – Eh?
Dondolò il capo, passandosi una mano sul pizzetto tinto. Sembrava uno di quei vecchi rapper dei video. Stava per dire qualcosa quando il collo della bottiglia di broda gli arrivò sull’occhio sinistro. Cadde all’indietro portandosi le mano al volto.
Samuele ritrasse la mano destra scoprendo qualcosa incastrato nel vetro. Un qualcosa che prima era una parte del bulbo oculare. – Italiano?
La ragazza si voltò di scatto verso di loro, con un filo di bava arancione che le colava dalla bocca. Voleva urlare, ma dalla gola proruppe solo un nuovo fiotto di broda.
– Italiano! – piangeva Samuele, disperato, chinandosi sulla sua vittima con fare quasi premuroso. Il giovane dal pizzetto verde apriva e chiudeva la bocca, con un gemito appena percepibile.
– Italiano! – gridò affondandogli con violenza la bottiglia in gola. – Italiano! Italiano! – continuò a urlare fino a quando aveva ancora fiato, fino a quando tutto non era diventato rosso e caldo, fino a quando la ragazza non gli conficcò un coltello tra le spalle, fino a quando il mondo non cadde di lato e tutto scivolò via. – Italiano! Italiano!
Odiava quella parola. “Italiano.”
Odiava quella parola.

(Fine – 3)