di Dziga Cacace

“This Is Not For You!”
Pearl Jam

Ddv0101.jpgLeggere attentamente prima dell’uso

Due o tre cose da chiarire subito: non discuto MAI di cinema con chi non ha visto Altrimenti ci arrabbiamo, tutto Heimat (1 e 2) e almeno cinque film di Boris Barnet. Poi: nell’estate ’95 ho fatto la comparsa in Io ballo da sola, il che motiva la confidenza che vanto con Liv Tyler. Infine: in questa cosa troverete spesso citato il cineclub genovese Lumière, in cui ho passato innumerevoli serate ad affilare la mia scarsa eloquenza critica con tanti amici che avevano fatto di quella grotta umida il loro regno. Sedevo sempre in quarta fila all’estrema sinistra e quel posto (la poltrona, ma anche il cinema), oggi che vivo a Milano, mi manca molto. Divine Divane Visioni si chiama così perché la maggior parte dei film li ho assunti dal divano di casa mia, procurandomi una spina dorsale armoniosa come un mandàla. Visioni “divine” ne ho avute poche, ma mi piaceva l’allitterazione. E poi è pieno di titoli che promettono bene e mantengono male, come Il segreto della cappella della Piemme, giallo medievale venduto alla grande, turlupinando diverse casalinghe insoddisfatte.
So che siete mie lettrici: per cui, buona lettura.


“Ah! Merda! È in versi!”
Jean-Pierre Bacri ne
Il gusto degli altri

1 – Il tredicesimo piano di Un Rompicoglioni, USA 1999

Barbara, a metà pomeriggio, annuncia che va ad affittare qualcosa da Blockbuster. No! Bestemmia! La inseguo salmodiando i miei cento titoli muti e in bianco e nero, “da vedere perché Ghezzi…” e più aggiungo titoli più lei affretta il passo. Dopo mezz’ora è a casa con questo scipito film di fantascienza che passa in fretta e nulla lascia se non un notevole turgore testicolare. Realizzato discretamente, inerte come scrittura e dalla recitazione mediocre, Il tredicesimo piano racconta della creazione di una realtà parallela dove un pool di scienziati fa vivere delle proprie controfigure. Scelgono un’epoca a piacere e poi, quando gli garba, si sostituiscono alle controfigure, così, tanto per pigliarsi un po’ di svago. Il capo del progetto (che va negli anni Trenta per trombare) viene però assassinato. Chi è stato? Il suo aiutante va a risolvere il mistero nella realtà parallela per scoprire che anche il suo mondo di partenza è la realtà parallela di qualcun altro e lui stesso è una controfigura. Idea risolta con vitalità cadaverica e attori scialbi. Al riguardo è emblematica la finale visione del futuro: nelle intenzioni del regista ignoto ai più Josef Rusnak si vorrebbe mostrare una realtà idilliaca, in pratica si vedono spiagge lunghissime e sull’orizzonte grattacieli dalle forme grottesche: praticamente il futuro è Dubai, ecco. Vabbeh, una menata di cui null’altro c’è da dire se non che eviterò ulteriori film scelti da Barbara da Blockbuster. In questi giorni, poi, ho visto in tivù brandelli (e non uso il termine a caso) di film come Zombie, Paganini Horror e Allarme Nucleare. Il primo è il famoso prodotto della collaborazione tra Argento e Romero. Il ricordo infantile della cattività di quattro tizi in un supermercato, assediati da un’orda di morti viventi e altri cattivoni, è confermato. Molto meno la tensione che allora provai e che oggi sfocia nella noia. Paganini Horror è invece una grandiosa e micidiale vaccata: un gruppo musicale arrangia in chiave disco un brano di Paganini; girano il clip nella casa veneziana del maestro e iniziano le uccisioni. Visti solo quindici tremendi minuti in cui si notano una Luana Ravegnini espressiva come un centrino da tavolo e uno stranito Donald Pleasance. Infine un film inclassificabile: Allarme nucleare, con un plot a base di armi nucleari rubate. Girato in maniera allucinante, recitato pure peggio, presenta musiche incongruenti di Baldan Bembo e vede, tra gli attori, anche John Carradine. Ho resistito cinque minuti tra l’incredulo, il divertito e lo schifato. A proposito di Baldan Bembo: l’ho conosciuto per lavoro e ho approfittato per chiedergli dei trascorsi battistiani. Poi gli ho chiesto cosa fa oggi e lui mi ha parlato delle sue incisioni. “Che genere?”, chiedo io, e lui: “Il mio: genere Baldan Bembo”. Straordinario. (Vhs originale; 31/8/00)

Ddv0102.jpg2 – Let There Be Rock di Due Sconosciuti (Diligenti), Francia 1980

Parigi, 1979, pochi mesi prima della precoce morte di Bon Scott: gli AC/DC stanno conquistando il mondo con la loro onesta e potentissima sintesi di rock’n’roll e hard rock. Il palco è spoglio, lo spettacolo sono loro, soprattutto lui: Angus Young, un folletto elettrico. Quando attacca la chitarra all’amplificatore accade un miracolo: è come se la corrente elettrica — diretta e alternata — gli passasse attraverso; per un’ora e mezza Angus è in preda a un’estasi incontrollabile. La band si scatena dal primo minuto, non c’è un crescendo o un gran finale, no, Angus diventa energia pura subito, corre da un lato all’altro del palco, fa il duck walk alla Chuck Berry, rotea per terra in preda a epilessia chitarristica, salta, fa capriole, si butta in mezzo al pubblico. E gli altri? Bon asseconda il deliquio del piccolo Young, lo provoca, lo spalleggia, da vero front man che sa condividere il palco con qualcosa d’inarrestabile. Gli altri stanno dietro, rigidi in formazione: chitarra ritmica, batteria, basso. Una falange metronomica, unitissima, devastante come impatto sonoro. Questo è rock’n’roll alla massima potenza: gli AC/DC prendono la tradizione dello stage show rock e lo amplificano come conviene. C’è tutta la fisicità primigenia di questa musica, la voglia di cazzeggiare, il gioco della divisa da scolaro e c’è anche lo spogliarello, come nel più sordido juke joint del sud degli Stati Uniti. Ma non c’è solo impatto visivo: hard rock potente, ad alto voltaggio, va bene, ma anche blues, con Angus che strizza le note, le spreme con un vibrato che giusto B.B. King, Peter Green e Paul Kossoff. Se non ballate con questa musica, se non provate l’irresistibile impulso a saltare agitando la testa, beh, allora siete morti e non lo sapete. Dal punto di vista tecnico il film vale poco: la sincronia audio/video è scarsa, la qualità delle immagini varia e la regia generale (di Eric Dionysius e Eric Mistler) non brilla. Gli inserti documentari sono moscetti, ma hanno la tenera ingenuità di quando il rockumentary non era ancora pratica comune: tutto un po’ naif, ma chi se ne frega; Let There Be Rock vale come documento e non aspira da altro. Ed è bellissimo. (Vhs da Rai; 7/9/00)

4 – L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, URSS 1962

È uno di quei sabati spesi facendo mille cazzate, senza stringere un fico secco. Un libro che non ti prende, le videocassette che non ti attirano, lo stesso disco che ti ha un po’ stufato, il computer acceso senza motivo, indugiando su un solitario a carte. Ma alle 20, ta-dah, un bel film sovietico al De Amicis! Ci andiamo con la cugina Alessandra, un po’ timorosi perché con Tarkovskij non si sa mai. E il film è bellissimo. Libero, intrigante, fantasioso, durissimo, lirico, angosciante. Secondo conflitto mondiale, fronte russo: Ivan è un adolescente i cui genitori sono stati uccisi dalle truppe d’invasione tedesca. Combatte a fianco dei partigiani e dell’esercito infiltrandosi tra le linee nemiche. La sua infanzia negata torna talvolta nei sogni, ricordando una madre affettuosa e la vita in campagna, ma al risveglio è già tempo per una nuova missione. Il film è vivace esteticamente (venne accusato di formalismo): ogni scena si nota per la fotografia e l’uso dei primi piani, delle luci e dei punti di ripresa. Ma i rimandi all’espressionismo o la continua volontà di connotare visivamente ciò che si racconta sono niente al confronto di ciò che si dice: un film del 1962, a disgelo in corso, che dall’Unione Sovietica racconta al mondo l’orrore della guerra. Pensate il soggetto: un eroe dell’Armata Rossa di dodici anni. In mano a un regista irregimentato questo diventava un inno retorico assoluto e invece qui non c’è alcun cedimento propagandistico, l’afflato pacifista va al di là dell’ideologia e ogni tirata esplicita è bandita: parlano da sé le immagini e la vicenda. Ottimo. (Sala; 9/9/00)

5 – Nemico pubblico del fratello mica scemo di Ridley Scott, USA 1999

Posto che si tratta di un’opera di finzione alla quale ho creduto poco perché sono da sempre un complottista e quanto si svolgeva sullo schermo era per me realistico, posto questo, il film gira bene. A fargli le pulci qualche difettuccio c’è, e non di poco conto, ma il ritmo e la messa in scena frenetica di Tony Scott te lo fanno scordare. Jon Voight è un dirigente della National Security Agency: fa ammazzare un senatore repubblicano che si oppone all’eliminazione della tutela della privacy, ma un ornitologo riprende casualmente la scena. Caccia all’ornitologo con i potenti mezzi della NSA, cioè tutti quelli disponibili: foto dal satellite, telecamere a circuito chiuso etc.; tutto è collegato alla NSA e siccome siamo tutti attorniati da obiettivi in funzione, è praticamente impossibile scappare. L’ornitologo non ce la fa, ma riesce a infilare il dischetto con le immagini compromettenti nel sacchetto di un rampante avvocato del lavoro, Will Smith. Il quale, già nei guai per aver fatto il duro con un mafioso (grazie a un nastro video), diventa l’obiettivo della spietata NSA deviata secondo i fini di Voight. Smith si crede inseguito dai mafiosi e invece… finché non capirà l’inghippo, aiutato anche da quel vecchio marpione di Gene Hackmann che, guarda caso, è proprio lo stesso de La conversazione, solo trent’anni dopo. Finale ben congegnato. Quale il difetto più evidente? Beh, che Voight voglia più potere di quello che ha già (vede tutto) e che si opponga a una legge che è clamorosamente violata in ogni momento, quale ne possa essere la futura restrittiva applicazione. Gli americani, grandi appassionati di complotti, hanno fatto un film di fiction sul tema dell’invisibile Grande Fratello (della famiglia di Grandi Fratelli, gli uno che spiano gli altri), ma la realtà è che, per esempio in Italia, c’è una telecamera puntata ogni 5 cittadini… e non venitemi a dire che i telefoni, i cellulari, la posta elettronica e quella cartacea, i movimenti bancari, la navigazione su Internet e quant’altro non siano monitorati. Quest’estate i Carabinieri hanno candidamente ammesso di possedere milioni di dossier su cittadini schedati. L’unica certezza è che il grado culturale dell’Arma non consenta di incrociare i dati. Speriamo. (Vhs da Tele+; 11/9/00)

Ddv0103.jpg6 – Senza un attimo di tregua dell’efferato John Boorman, USA 1967

Senza un attimo di tregua, tre decenni dopo, è ancora bello cattivo e violento. Walker (Lee Marvin) è stato coglionato dal complice Reese che gli ha fregato la sua parte di bottino e pure la moglie. Un misterioso alleato aiuta Walker a trovare Reese, che però nun c’ha ‘na lira e vola giù da un balcone: Allora il nostro duro va direttamente dai superiori di Reese a chiedere i 93.000 dollari che gli spettano e dei tre caporioni, ne vede morire due: il terzo scopre essere il suo alleato e mandante degli assassinii. A Walker rimangono i soldi, ma anche l’amarezza di essere stato utilizzato per un bieco regolamento di conti. La cosa migliore di questo violentissimo film è senz’altro il montaggio: piani temporali differenti si intersecano, s’ingarbugliano, si mescolano. Il sonoro alimenta questo spaesamento: i rumori di una scena si sovrappongono a un’altra, suggerendo la sensazione di contemporaneità, salvo smentire subito dopo quest’impressione. Non male anche la fotografia e la scelta delle location: Los Angeles e San Francisco sono riprese per luoghi per niente usuali, spazi abbandonati, desolati, poco riconducibili alla tradizionale immagine urbana cui ci ha abituato il cinema americano. Buon film, dove la confezione diventa sostanza e scelta autoriale. (Vhs da RaiTre; 15/9/00)

7 – Dark City di Un Poveraccio, Australia/USA 1998

Accolto con pareri tiepidi a Cannes due anni fa, ma subito esaltato dai critici nostrani, Dark City è – leviamoci subito il peso – una cagata pazzesca. Il regista Alex Proyas è il cialtrone che qualche anno fa aveva guadagnato una dubbia fama con quella puzzonata de Il corvo, filmaccio moralista, esilissimo e dotato di una veste produttiva che sfruttava (abilmente, perché ha preso per il naso in molti) l’immaginario dark. Anche stavolta c’è un gioco citazionistico di precedenti opere o generi che può funzionare se si ha voglia di farsi qualche sega mentale, ma che per il resto non impressiona per niente. In città ci sono degli alieni e vogliono scoprire il segreto dell’umanità. Per cui, ogni sera a mezzanotte (anche se è sempre notte, in realtà), fermano il tempo e sostituiscono i ricordi degli umani per vedere le loro reazioni. Attribuiscono a tale John Murdoch (un faccione inerte) la memoria di un serial killer ma non tutto torna, anche perché Murdoch possiede un super potere proprio come gli alieni: può entrare in accordo (probabilmente cattiva traduzione di tuning, la “sintonia”, boh), cioè può modificare la realtà con la forza del pensiero. E Murdoch sconfigge questi curiosi alieni che sembrano un incrocio tra i cattivi di Hellraiser e l’Uomo ombra, intabarrati in lunghi cappotti e afflitti da pallore cadaverico. A vittoria ottenuta, sulla città tornano il sole e il mare. Gran bella stronzata, che illude per qualche minuto perché c’è un certo fascino dell’immagine. Proyas riprende il noir anni Quaranta, la città buia di Brazil, le suggestioni di tante distopie come Metropolis, ma il gioco non dura molto, anche perché se il film ha una trama noiosa, personaggi poco carismatici e soluzioni narrative prevedibili, di qualche citazione d’accatto te ne fai poco. E si vede che i soldi mancano: se te le cavi, sei un grande, ma se il film puzza di fame, beh, allora fai pepis (pena, pietà, schifo). Tra le altre cose si notano: il redivivo Richard O’Brien (il Riff Raff del Rocky Horror Picture Show) nella parte dell’alieno avversario principale di Murdoch; un William Hurt lesso che non s’è più ripreso dal Wenders di Fine alla fine del mondo; e Jennifer Connelly, splendida bambina in C’era una volta in America, adolescente conturbante in Phenomena, magnifica vittima virginale in The Hot Spot, e qui cicciona e autentica stilettata alla memoria. Non m’è piaciuto. (Vhs da Tele+; 16/9/00)

Ddv0104.jpg9 – Romance di Una Provocatrice, Francia/Italia 1998

Cannes 1998: tutti a parlare del membro di Rocco Siffredi, stallone italico, re del porno internazionale, e ora promosso al cinema “alto” dalla mestatrice Catherine Breillat. Due settimane dopo: amici che vanno al cinema a vedere Romance, chi pruriginoso, chi incuriosito, chi preso per il culo dall’equivoca pubblicità sui giornali. Due mesi dopo: copertina di Cineforum dedicata al film della Breillat, autrice già omaggiata in passato con mortali disquisizioni critiche. Leninisticamente: che fare? Ebbeh, curioso come sono, questo film lo devo vedere. Decido di non leggere nulla e aspetto che il film passi su Tele+. Incidentalmente becco Siffredi nel buon documentario di Maria Martinelli Italian porno – Gladiatori e apprendo che durante le riprese del film il superuomo s’è annoiato a morte e, udite udite, ha pure provato qualche imbarazzo. Lui. Ora, non vorrei scrivere solo del cazzo di Siffredi, ma… boh, per questo film c’è evidente sentore di bufala, di menata intellettualistica che cerca il successo di scandalo sfruttando il Rocco nazionale. In fondo, a cosa si riduce la presenza dell’attore pornografico nel film? Dà una ripassata a pecora alla protagonista. Il piano sequenza non fa capire fino a che punto si sia spinto (…), però non s’è parlato altro che della scena di sesso vero che ha dovuto sostenere con Caroline Ducey. Visto il film, mi pare che, se sesso c’è stato, non lo si è comunque fatto vedere ed era inutile parlarne. E se non c’è stato (e il film non cambierebbe una virgola), ci han tutti presi per i fondelli. Marie (la Ducey) è in crisi col suo uomo, Paul, che non vuole avere rapporti sessuali, anche quando lei (questo sí esplicito e ben visibile) si cimenta nel sesso orale. Allora lei si ritiene libera di cercare nuove strade per la sua sessualità contorta: ninfomane e frigida allo stesso tempo, divisa tra passione cerebrale e incapacitas coeundi. Sembra una trama da film porno. È una trama da film porno, manca solo l’idraulico che si tromba la casalinga sola. Non c’è, ma entra in gioco Rocco che si presenta con un “Sono inopportuno?” ironico e rivelatore al di là delle intenzioni metacinematografiche della regista. Marie ha poi una serie d’incontri iniziatori con il preside della sua scuola (lei è insegnante, dislessica, metafora facilina della sua vita sessuale) e da ultimo si dà a uno sconosciuto per 200 franchi. Paul ha però avuto un residuo sussulto di virilità e l’ha messa incinta. E così vediamo la nascita del pupo (come in Helga, trent’anni dopo). Ma per una vita che viene, un’altra se ne va e Paul salta in aria grazie al gas lasciato aperto in casa sua da Marie. Bum! Che stronzata, mamma mia. Dialoghi che uno non direbbe neanche sotto tortura e come protagonista una frignona che riesce nel (reale) miracolo di non eccitare a dovere Siffredi, mai così moscio. Ovviamente sulla stampa specializzata la definizione preferita per la regista è “coraggiosa provocatrice”. Ma andate a cagare. (Vhs da Tele+; 17/9/00)

11 – A te, fronte! del compagno Dziga Vertov, URSS 1942

Finalmente un Vertov per depurare la retina dalle tante porcate viste ultimamente. Che, ohibò, non mi esalta. Oddio, ho un Rutelli nel cervello? No, però… trattasi di film dello Dziga Vertov “normalizzato”, quando ogni tentazione sperimentale era bocciata come formalistica e pertanto sconsigliata se si voleva continuare a vivere in pace. Dopo Tre canti per Lenin il mio beniamino era stato incastrato; gli han detto: meglio di così non potrai fare, béccati premi e onori e accontentati. E non rompere più le balle. E così il buon Dziga ha prodotto poche altre cose, tutte molto lontane dalle invenzioni passate. Questo A te, fronte! ha immagini splendide, inquadrature regolari, montaggio semplice, nessuna particolare invenzione. Saulè e Giamil sono una giovane coppia di kazakhi. Lui è al fronte, lei ha preso il suo posto in miniera e batte impressionanti record stakanovistici. Ovviamente sono orgogliosi l’uno dell’altra e Vertov mostra la loro terra, il Kazakhistan, ricco di frutta, lana, cavalli veloci, bravi guerrieri, donne volitive e miniere piene di preziosi metalli. Il progresso comunista è sciorinato con entusiasmo: all’epoca le immagini dell’industrializzazione delle terre vergini erano sinonimo di progresso, oggi sono l’involontaria anticipazione dello stupro naturalistico cui sarebbero andate incontro molte repubbliche sovietiche asiatiche. E tornando al filmetto? Il tempo della sperimentazione è finito e Vertov sta a galla, celebrando. E poi chissà come glielo hanno rimontato. Film piacevole, ma rispetto agli standard rivoluzionari delude un po’. (Vhs da RaiTre; 26/9/00)

(Continua — 1)