di Alessandro Zannoni
Il rumore dell’auto entra dalla finestra socchiusa, immagino di sentire puzza di benzina e olio bruciato, allora apro la bocca a dismisura perché mi manca l’aria. Siedo sulla sponda del letto, tossisco, allungo la mano sul comodino e prendo la bottiglia dell’acqua, mi ci attacco e la finisco tutta. Qualche goccia scivola dal mento e mi bagna il petto nudo, e mi viene voglia di ficcarmi le unghie nella carne e squartarlo, aprirlo per bene e versarci tutta l’acqua che serve per riuscire a spegnere il fuoco che mi divora.
Mammamia, brucia che non ce la faccio più e mi viene da piangere, ma faccio finta di niente per non spaventarti, per non sentirti dire ancora di chiamare l’ambulanza e di andare all’ospedale, perché nessuno deve mettere il naso in questa cosa.
Tossisco che quasi sputo via i polmoni, smetto solo quando sento la tua mano che mi tocca la spalla e mi chiedi ancora come sto. Ti faccio cenno di lasciarmi stare, dormi ti dico, mi alzo e vado alla finestra.
La spalanco, cerco aria fresca che mi aiuti a respirare e mi calmi il dolore, ma è una notte di luglio e trovo soltanto l’odore caldo di questa città di merda, del suo asfalto e delle sue automobili, del cemento e degli alberi smorti, e non arriva nessun sollievo da quel mare che sta a pochi metri da qui, che non si vede e non si sente, che bagna ignaro questa falsa perla del golfo.
Le tue gambe strusciano nervose tra le lenzuola, so a cosa pensi, non mi hai mai visto così, sei preoccupata, stavolta non ti è bastata la solita scusa – colpa della polvere, amore – perché questa volta la pasticca non mi ha tolto l’irritazione rossastra della pelle e non mi agevola per niente la respirazione.
Sono le cinque della mattina e devo bere ancora, perché da ieri è l’unica cosa che mi dà sollievo. Vado in cucina e apro il frigo, bevo alla bottiglia e chiudo gli occhi mentre sento un minimo di beneficio, ma dura poco, poi ricomincio a bruciare e capisco che questa roba è davvero grave. Mi dispero in silenzio, tu non devi sentire, e penso con rabbia che me la sono cercata, che è stata tutta colpa mia.
Poi ragiono che è tanto tempo che lavoro all’inferno, e forse sono fortunato ad essere ancora vivo, e poi ricordo che ieri era il 17, proprio il 17 luglio 1984, ma penso che la sfortuna non c’entra.
Stavo aspettando di entrare in azione, sistemato sul lato destro della fossa, la ruspa pronta a spostare la terra. Seguivo le operazioni, pensavo chissà a cosa, forse al lavoro, forse a te, amore, o forse a niente, guardavo e basta, guardavo quel bestione che da lì a poco avrebbe vomitato i suoi peccati dentro il ventre della collina.
Sul camion non c’era nessuna sigla identificativa e neppure sui fusti, ma non è una novità, all’inferno niente deve essere riconoscibile, tanto tutto fa la stessa fine, sotto un mare di terra e una colata di cemento.
Il caldo era soffocante già dalla mattina e sudavo parecchio, forse è stato questo l’unico pensiero, non ho certo pensato che fosse il diciassette di luglio, io non sono superstizioso.
I fusti sono caduti regolari dentro la fossa, uno dietro l’altro, l’autista è sceso dal camion, si è acceso una sigaretta e si è messo a guardare.
Io ho mosso la ruspa come so, veloce e preciso, certo di ricoprire tutto in pochi minuti.
Invece è accaduto tutto in un istante, ed è stata colpa mia.
Ho urtato un fusto con i denti della benna, l’ho squarciato come cartone bagnato, e c’è stata un’esplosione che sembrava una bomba. Fuoco fumo e terra sono schizzati con violenza verso l’alto e la terra intorno ha preso a bruciare senza sosta; le fiamme hanno investito la ruspa, una nuvola immacolata mi ha avvolto e ho sentito un orrendo bruciore agli occhi e su tutto il corpo, e l’aria è diventata irrespirabile.
L’esplosione mi ha violentato, mi ha tolto la voglia di mangiare – a cena ho provato ma mi è venuta subito la nausea, allora ti ho detto che non avevo fame – l’incendio sta ancora bruciando nei polmoni e nel respiro, dentro la bocca e nel petto, vampate incontrollabili che non mi danno tregua, e solo bevendo mi pare di stare meglio, ma subito il martirio riprende più intenso di prima, come se l’acqua fosse benzina che alimenta e rigenera la mia sofferenza.
Vorrei fare qualcosa, ma non so fare altro che bere.
Torno a letto e mi sdraio con lentezza al tuo fianco.
Non ti muovi, spero che ti sia appisolata finalmente, ché è tutta la notte che non dormi e mi sorvegli, ma già la tua mano mi cerca e stringe forte la mia. Ti lascio fare ma resto immobile, concentro tutte le mie forze sul respiro, ma faccio lo stesso una fatica orrenda.
Accendi l’abatjour e ti siedi sul letto, sento chiaramente la paura nella tua voce mentre dici basta ora chiamo qualcuno, e vorrei dirti di farlo subito perché ho più paura di te, invece faccio un sorriso storpio al soffitto e ti dico che non ho niente, che tra poco starò meglio.
Tu cerchi di guardarmi in faccia e negli occhi, per capire se ti sto mentendo, e chiedi ancora di raccontarti quello che è successo oggi, ma anche se volessi farlo non ho fiato abbastanza.
Ho vomitato appena sceso dalla ruspa, l’ho fatto più volte mentre mi dirigevo verso le urla del camionista, anche se non capivo cosa dicesse. Andavo verso di lui per intuito, come verso la salvezza. Ci ho messo un po’ a raggiungerlo, vomitavo e non riuscivo a stare in piedi. Lui mi ha portato negli spogliatoi, mi ha aiutato a levarmi di dosso i vestiti fetidi e mi ha spinto sotto la doccia, poi ha dato di stomaco anche lui, ma l’ha fatto solo due volte, perché forse ha subito meno danni.
Io invece, anche mentre mi lavavo, continuavo a farlo.
Quando il signor Duvia è venuto a sapere della cosa, si è precipitato in discarica e mi ha chiesto se volevo andare a casa, ma io sono forte e non mi ci è voluto molto per riprendermi, così, per far vedere che stavo bene, mi sono messo a lavare accuratamente la ruspa e, senza che me lo chiedesse, ho finito di interrare i fusti e nascosto le prove di quello che era accaduto. Prima di tornare a casa gli ho chiesto cosa contenessero e lui mi ha fatto dare un’occhiata al suo libro nero: c’era scritto che i fusti provenivano dalla Unisil Union Carbide di Termoli e contenevano residui della lavorazione di silani, vapori di ammoniaca, cloro e acido cloridrico.
Sono rimasto in silenzio, lui mi ha detto che poteva portarmi da un medico di fiducia, che potevo contattarlo anche da casa a qualsiasi ora se ne avessi avuto bisogno, ma era essenziale non andare all’ospedale per evitare qualsiasi tipo di domande e noie future.
Lo ha ripetuto più volte, niente ospedale.
Ci siamo guardati a lungo negli occhi, io ho fatto cenno di sì e lui se ne è andato via.
A casa, amore, quando hai tirato fuori i vestiti sporchi dal sacchetto, hai avuto un conato e li hai gettati nella spazzatura. Per la prima volta mi hai chiesto cosa era successo al lavoro, ma non ti ho risposto e mi sono infilato dentro la doccia, perché volevo che l’acqua portasse via ogni traccia. Poi ti ho chiesto da bere. Mi hai portato la bottiglia, l’ho finita così velocemente che mi hai guardato stupita e hai fatto di nuovo la stessa domanda. Niente di nuovo ti ho risposto, e mentre lo dicevo ho fatto un rutto, tu eri vicina e hai voltato la faccia di scatto, perché hai sentito che dalla mia bocca usciva il medesimo odore nauseabondo che impregnava i miei vestiti.
Non ti ho mai visto così spaventata.
Hai domandato in continuazione cosa era successo, hai cercato di scoprire la verità mettendoti a urlare, minacciando di lasciarmi, di tornare a vivere da tua madre, ma non ti ho raccontato niente, amore, perché avevo paura della tua reazione, perché sapevo che saresti uscita di testa, che avresti fatto di tutto per farmi ricoverare.
Invece io devo mantenere il segreto.
Il tuo capo ti farà una bella tomba in marmo pregiato, mi hai gridato sgomenta, e mi hai supplicato di lasciarlo quel maledetto lavoro, di lasciarlo subito, di non aspettare la pensione a novembre, e c’è mancato poco che piangessi.
La luce dell’abatjour brilla un attimo nella tua lacrima, amore mio, mentre sussurri che Duvia è un delinquente e la sua discarica una bomba a tempo sulla città, poi la voce si indurisce e pronunci parole come assassino, rifiuti tossici, disastro ambientale, e io penso alla Pasqua dell’anno scorso e a nostra nipote Elena.
Eravamo a fine pranzo, stavamo scartando le uova quando lei ha domandato se sapevamo che esiste una legge del 1939 che dichiara la zona di Pitelli un luogo di grande valore ambientale.
Sembrava che parlasse a tutti, anche quando ha chiesto perché il Comune ha dato i permessi per costruire una discarica proprio lì, che in qualsiasi altro posto del mondo, al limite, ci avrebbero costruito ville per miliardari o alberghi di lusso con vista sul Golfo dei Poeti.
Poi ha indurito la voce, ha detto che invece da noi ci nascondono i rifiuti tossici. Mi ha puntato gli occhi addosso mentre pronunciava le ultime parole, e mi ha guardato come fossi il colpevole.
Ho distolto lo sguardo, so che lei non l’ha fatto, sentivo addosso la rabbia della sua voce, ed ha continuato.
Ha detto che i politici prendono soldi dal padrone della discarica, che di mezzo c’è la camorra e un giro enorme di rifiuti tossici, che siamo in pericolo, che moriremo tutti.
Tutta la famiglia la guardava sgomenta, solo io non lo facevo, tenevo gli occhi sulla tovaglia. Non mi sono sentito di risponderle niente, ma l’ha fatto suo padre per me. Ha detto che quando la discarica era mia ci finiva solo materiale navale di recupero come legno, ferro, stagno, rame, e che è sempre stata in regola.
Allora Elena mi ha chiesto con cattiveria se è vero che nella collina è nascosta la diossina di Seveso, ed hai risposto tu amore, balbettando come accade quando sei agitata, le hai quasi gridato che con quello che fa Duvia io non c’entro niente, che io sono solo un ruspista.
Se avessi avuto coraggio avrei potuto raccontare della notte del 12 luglio 1982, che eravamo ancora euforici dalla vittoria del campionato del mondo spagnolo, che c’è stato un andirivieni di camion che scaricavano in continuazione, che lo hanno fatto fino al mattino, che venivano dall’estero ma scaricavano fusti provenienti dall’Italia, che avevano tentato di cancellare le scritte ma che su alcuni ancora si leggeva Meda e su altri Seveso, e che la diossina, da allora, dorme dieci metri sotto terra, protetta da uno strato di ceneri dell’Enel più dure del cemento armato.
Invece non ho avuto il coraggio, amore, neppure di guardarti ho avuto coraggio, mentre prendevi le mie difese, e non ho detto niente, sono stato zitto, perchè provo vergogna di quello che faccio, perché a volte mi sento un delinquente, perché ormai ci sono dentro fino al collo in questo gioco più grande di me, di Duvia, dei politici, dei camorristi e delle loro logiche di potere, e voglio continuare a proteggerti e tenerti lontana da tutta questa merda, perchè se un giorno venisse scoperto qualcosa, i primi ad affondare sarebbero quelli che contano meno.
Se avessi avuto coraggio ti avrei confessato che sono otto anni che nascondo veleni dentro la pancia della collina, sotto le case della gente, sotto i piedi dei bambini, otto anni sai, la discarica non aveva ancora i permessi e già avevo interrato quintali di porcherie dai nomi terribili, e la cosa triste è che ho sempre saputo quello che stavo facendo, e nella mia ignoranza ero convinto che bastasse nascondere tutto bene, in profondità, e non sarebbe successo niente.
Se avessi avuto il coraggio, amore mio, avrei messo fine a questo scempio e ti avrei chiesto scusa, l’avrei chiesto alla mia famiglia e a tutta la città, invece sono rimasto sempre al mio posto, seduto sulla ruspa, in silenzio, pronto a scavare, pronto a coprire.
Elena me l’aveva detto, togliti da quel posto zio, rischi la vita, e mi ha parlato della silicosi e dei suoi danni, ma io ho voluto fare il cinico e le ho risposto che avrei avuto diritto a una bella pensione e mi sono messo a ridere come uno stupido eroe invincibile, ed ho continuato a occultare rifiuti di ogni tipo, scavato, riempito, frantumato roccia, livellato terreno, e sollevato chilometri di polvere, metricubi di polvere, cieli interi di polvere, che mi ha seguito in tutte le giornate di questi otto anni, e l’ho respirata questa merda, l’ho respirata senza paura, perché pensavo che se facevo del male sarebbe stata la mia personale punizione, ma ero convinto che non mi avrebbe fatto proprio un bel niente.
L’ignoranza si paga, amore, e guarda a che prezzo.
Trattieni le lacrime mentre dici che domani non andrai al lavoro per starmi vicino, che vuoi portarmi a fare una visita accurata.
Non rispondo ma ti ascolto e lo spero con tutto me stesso, e prego di arrivarci a domani, perché ho tanta paura addosso, perché non riesco nella cosa più semplice che un uomo può fare, perché respirare mi sembra un tormento, una prova insormontabile, e vorrei chiederti aiuto, amore mio, aiutami e fammi respirare con la tua bocca e i tuoi polmoni, e faccio uno strano suono mentre provo a dirtelo.
Di scatto ti metti in ginocchio e mi sollevi il busto gemendo nello sforzo, metti il tuo cuscino sotto la mia schiena per aiutarmi a respirare, poi mi strofini la faccia con mani fredde e sudate, mi tocchi le braccia e il petto, mi chiami per nome.
Ti guardo ad occhi sbarrati e mi rimandi gli stessi occhi, ma non vedo fiamme dentro i tuoi, vedo acqua, grosse gocce d’acqua che corrono sulla tua bella faccia e cercano le mie fiamme per domarle.
Ti sento piangere come una bimba, amore, mentre scendi dal letto e corri al telefono e gridi il nostro indirizzo, poi sento i tuoi piedi nudi che tornano in camera e sei di nuovo vicino a me, mi stringi la mano e mi accarezzi il viso, mi dici di resistere, di respirare. Riesci a darmi la forza per tentare ancora, e respiro, per due volte respiro, ma mi sembrano rantoli, poi non so.
Ecco il campanello gridi, il campanello, e mi scrolli forte per le spalle, ma io non sento. Riesco solo a vedere il lampeggiante dell’ambulanza che entra dalla finestra spalancata e macchia il soffitto e gira e gira e gira, e mi aiuta a chiudere gli occhi.
Giuseppe Stretti muore la mattina presto del 18 luglio 1984.
In sede di giudizio niente di ciò che gli è capitato – stato di salute prima dell’incidente e morte – è stato ritenuto imputabile al suo lavoro.
I parenti non si aspettano più nessun tipo di giustizia.
La città di La Spezia, per quanto riguarda la discarica, attende ancora.