di Marilù Oliva
Valerio Varesi ha ambientato in terre inospitali il suo settimo romanzo, “Il commissario Soneri e la mano di Dio”, tra locali poco inclini alla socievolezza, paesaggi impervi alternati a valli e faggeti, passi percorsi in passato da mercanti o pellegrini e ora battuti da ambulanti extracomunitari e da trafficanti. Un luogo glocal, forse metafora di uno stato stridente che induce al male di vivere. Attraverso un’intervista all’autore abbiamo parlato del suo personaggio, il commissario Soneri: un uomo con debolezze e virtù, schivo, di temperamento randagio, poco ossequioso ma educato. Scruta la realtà con l’attenzione di chi non si ferma in superficie e ha una filosofia di vita che molto si confonde quella di Varesi.
Parto facendo un breve riferimento alla tua laurea in filosofia conseguita con una tesi su Kierkegaard. Una formazione filosofica che trapela attraverso la tua narrazione soprattutto —ma non solo— nei dialoghi. Preferisco inquadrarla ora -rompendo gli schemi- sotto l’aspetto dei piaceri della vita. Scorre in te una vena epicurea?
Sì, se epicureo significa uno che “vive nascosto” per coltivare i propri interessi culturali e non un più banale senso godereccio della vita. In altre parole, mi piacerebbe passare il tempo a studiare, leggere e scrivere, i piaceri veri secondo Epicuro. Ciò non toglie che non disdegni anche gli altri piaceri. A un certo punto il mio Soneri dice di sé di essere un pigro costretto all’azione. Ecco, io mi sento un po’ come lui.
“Il commissario Soneri e la mano di Dio” è l’ultimo romanzo uscito per Frassinelli sul tuo personaggio seriale. Un commissario che non ha pretese di perfettibilità eppure è dotato di un rigore morale, un personale Corpus Iuris Civilis che prevede un grande senso del rispetto verso un mondo da cui spesso è nauseato. Si può dire che in Soneri ci sia un male di vivere? Ce lo spieghi meglio?
É il male di vivere in questo mondo dove vengono capovolti i valori e l’etica. Dove sono premiati quelli che calpestano la legge e fregano il prossimo, dove conta far parlare di sé, magari con comportamenti orrendi, per avere una riconoscibilità sociale. Questa nostra Italia, è la bengodi di quelli che se ne fregano di tutti e tutto in cui conta più un personaggio insignificante del Grande Fratello di un qualsiasi altro cittadino che si renda utile al prossimo. É anche il Paese dove si vendono più telefonini che libri, dove i calciatori ignoranti sono maestri del pensiero. Potrei andare avanti all’infinito.
Soneri osserva il mondo con cui si trova costretto a misurarsi come se volesse porre un filtro tra sè e la parte più becera della società, in questo caso individui meschini, opportunisti legati a finanziarie per riciclare il denaro sporco e ai traffici della droga. Nello stesso tempo trapela un’esigenza di comunione con la natura e con la vita in generale. Ci risolvi questa discrasia? Il suo sguardo sul mondo è il tuo?
Soneri, da poliziotto, fa i conti con la realtà sulla quale gli tocca indagare. Basta aprire il giornale per trovare, ladri, assassini, politici corrotti, concussori, corruttori o gente che si vende per andare a letto con prostitute. In questo caso chi è più prostituta? Non sono più “escort” i politici che cedono al mercato la propria onestà? La società sotto gli occhi di Soneri è in piena dissoluzione cosicché, così, dopo ripetute venefiche immersioni in essa, il commissario sente il bisogno di respirare di nuovo un po’ di purezza che può essergli restituita sia dal rapporto con gente onesta che lavora per gli altri (ne esiste ancora parecchia, per fortuna), sia dal rapporto con la natura che non è né benigna né matrigna, ma sicuramente bella e mai ambigua.
Ma cosa c’è che non va nell’Italia di questi anni, nel momento storico, nell’ansia di consumismo che devasta quest’epoca?
C’è che sono morte le idee con le ideologie e oggi non sappiamo più decifrare la realtà secondo un’impostazione culturale, dunque ci troviamo smarriti nella “liquidità” di questo mondo che ci sfugge. A livello collettivo, la politica, che dovrebbe mantenere vivo il concetto di comunità inteso come l’interesse di tutti, è ormai defunta e relegata a feticcio di tornaconti personali o di poteri economici forti. Oggi sono proprio l’economia e i profitti individuali a farla da padrone, col denaro quale l’unico valore riconosciuto e l’auto affermazione come sola pulsione. In definitiva, una giungla in cui emergono i più spudorati e quelli che hanno mezzi più potenti. Con tanti saluti alla democrazia. Oggi l’Italia è già in un condizione di autoritarismo predittatoriale.
Se ci fossero delle soluzioni, quali sarebbero?
Cambiare la stella polare che guida questa accozzaglia di società, vale a dire il modello di sviluppo predatorio che ci contraddistingue e, nel contempo, recuperare il valore della politica e quindi della comunità. Vedo segni di democratizzazione nel mondo dell’informazione con internet e in quello dell’energia col diffondersi delle fonti rinnovabili. Però deve prima tramontare questa orrenda parentesi berlusconiana figlia tardiva dell’altrettanto orrendo liberismo degli anni ’80.
Uno si scrittore si deve porre il problema del suo contributo? In che direzione?
Il contributo di uno scrittore ci può essere, ma minimo vista la diffusione marginale del libro in questo Paese. Forse può fare di più come cittadino. Mi viene in mente il ruolo di Thomas Mann a radio Londra durante la seconda guerra mondiale.
Come si compenetrano il tuo ruolo di scrittore e di giornalista presso la redazione bolognese de la Repubblica (per cui dirigi anche la pagina culturale del martedì)?
Sono un narratore con forte inclinazione sociale e quindi prendo molto dai casi che finiscono sul giornale. A volte una piccola storia può diventare una grande storia agli occhi di uno che vuole reinventarla. Come redattore anche di una pagina settimanale di libri cerco di contribuire alla diffusione della lettura. In genere, chi legge è anche una persona civile.
Il “Il commissario Soneri e la mano di Dio” è ambientato in un Appennino inospitale, tra autoctoni poco inclini alla socievolezza, paesaggi impervi alternati a valli e faggeti, passi un tempo percorsi da mercanti e pellegrini e ora da ambulanti extracomunitari e trafficanti. In che senso si può parlare di luogo glocal?
É glocal perché sono arrivate la modernità tecnologica e i comportamenti globalizzati, ma si sono sovrapposti a una serie di comportamenti e codici non scritti sedimentati nel tempo tra la gente dell’Appennino. Il risultato è una miscela originale ma quasi sempre mal assortita fortemente stridente come una voce seghettata in cui si alternano sillabe e silenzio.
In alcuni momenti il commissario si lascia sfuggire accenni malinconici legati all’ineluttabilità del tempo. Cos’è il tempo per Soneri e cos’è per te?
La misura del nostro trascorrere sul palcoscenico di un mondo che non siamo in grado di conoscere. Il tempo è una misura mentale di per sé infinita e come tale capace di relegarci nella nostra finitezza. Non solo: come già ci ha mostrato Heidegger, questa finitezza ci condanna all’assurdo. L’unica uscita da questo culo di sacco è porre l’obiettivo della propria vita oltre questo mondo.
Ci lasci con una citazione dal libro?
Poco dopo l’inizio, scoprendo un vassoio del dolce tradizionale della festa del patrono di Parma, Soneri dice: “Abbiamo paura anche dei nostri ricordi”. Mi sembra una frase che si adatta ai tempi odierni in un Paese anestetizzato e privo di memoria.