andrea_inglese.jpg5 prose brevi
di Andrea Inglese

[Presentiamo qui, ringraziando l’autore per il permesso, cinque inediti di Andrea Inglese, una delle voci più apprezzate nel panorama poetico contemporaneo. Poeta sì, ma anche prosatore, avendo partecipato a una splendida collettanea di prosatori, Prosa in prosa, nella collana de Le Lettere diretta da Andrea Cortellessa. In calce ai cinque testi, mi permetto di apporre una breve riflessione sulla prosa di Inglese. giuseppe genna]

Degenza volontaria
Era entrato in una casa di cura sostenuto da un’urgenza famelica, ma il calo di pressione lo rendeva sgonfio alle estremità, e poco maneggevole tra le braccia degli infermieri. Continuava a depistare diagnosi attraverso repentini miglioramenti. Sparivano i grossi orzaioli sulle palpebre, le macchie gialle sul collo, e i tanti difetti di pronuncia.

Con una sciolta loquela proponeva a degenti e primari una possibilità di recupero in alcune cliniche parallele, situate in zone climaticamente favorevoli in universi paralleli, ma spesso interferenti con il loro almeno in ragione di una percentuale non irrilevante. “Di qui a qualche anno il cumulo d’interferenza farà sparire dai noi le malattie cardiocircolatorie e intestinali, spostandole su di un pianeta gemello”. Più o meno tutte le sue arringhe terminavano con un grosso balzo in avanti simbolico e pratico, sempre in prossimità di finestre. Il medico grosso, dall’aria meditabonda di Orson Welles, lo prese sotto la sua ala protettiva, lasciandolo camminare nudo nel laboratorio di analisi. Non destava ancora sospetti la cautela con cui parlava, in ore regolari del giorno, a facoltosi zii americani. Ma quando comparirono alla porta alcuni senza tetto, guidati da cani malamente addestrati, tutti si accorsero che sulla schiena il degente volontario aveva tatuati appartamenti vuoti e canili svizzeri. Anche l’infermiere meditabondo lo lasciò al suo destino. Si persero le sue tracce sulla tangenziale, quando dirigendosi verso un mucchio di sterpaglie fu nuovamente colpito dal morbo dell’invisibilità.

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Il progetto
Enzo sapeva benissimo di non avere le carte in regola, insomma non tutte, ma quel desiderio così forte sì, una spinta che sembrava non cessare mai, neppure durante le ore dedicate al sonno, insinuandosi persino nei sogni, e spingendo oltre pure loro, dall’interno, ampliando le situazioni, rendendole più terse, trasparenti, con panorami ampi, discese, grandi specchi d’acqua dalle forme regolari. In virtù di quella stessa spinta, lui si presentava quasi ogni pomeriggio da quelli dell’associazione, giocava un po’ a calcetto con i giovani che frequentavano il luogo, e poi andava da Anselmo o da Rita, o addirittura dal loro capo, e spiegava meglio del giorno precedente le sue idee, i nuovi accorgimenti che avrebbero facilitato il progetto. Sapeva che queste sue proposte arrivavano tardi, che il capo era occupato da faccende ben più gravi, la sua foto compariva ormai su molti giornali, gli avvocati gli stavano intorno come spasimanti, senza mai abbandonarlo con gli occhi. Ma per il capo Enzo era come una breve e serena parentesi, lo costringeva a non pensare a sé, a quali sarebbero state le mosse dei nemici, e così si rassegnava a sedersi e a fingere un ascolto accigliato, e qualche volta accadeva che decifrasse per davvero le frasi che uscivano dalla bocca di Enzo e intervenisse a tono, come di soprassalto, a disfarne il castello di carte, a mostrare senza sforzo e particolare perspicacia che i punti deboli erano tanti, che nulla davvero poteva tenere in quel discorso, che era una proposta irrealistica, un tentativo da abbandonare subito, per passare oltre, a cose vere, realizzabili, come succedeva a lui ogni giorno, scavalcando le leggi, schiacciando gli avversari dentro e fuori la propria associazione, come insomma succedeva a tutti, ovunque, quello era il rumore di fondo, non le parole veloci, smisurate di Enzo. Ma a sera tardi Enzo correva all’uno o all’altro bar, che costituivano il vestibolo ad un diverso tempo, il tempo puro della giornata, quello in cui ogni abbozzo o resto, ogni germe carbonizzato o ferita non rimarginata, tutto quanto era rimasto incompiuto, isolato, o sospeso, veniva di colpo riagguantato, e spinto in un cerchio di concentrata esaltazione. Le miserie si riscattavano lì, con un amico, Santo, nel bar della zona Nord, o con l’altro amico, Emil, nel bar dei “ruffiani”, vicino al canale. Mai con i due amici assieme, in quanto questo avrebbe annoiato Enzo, anzi gli sarebbe apparso come un tentativo di fuga impossibile, e si sarebbe sentito come lo scorpione che, nel cerchio di fuoco, è costretto a inarcare la coda e a piantarsi nel dorso il proprio pungiglione. Alternando bar e amici, i discorsi ripetuti, sempre gli stessi, relativi al viaggio, a tutte le sue fasi preparatorie e a quelle successive, postume, tutte quelle parole così simili, di sera in sera, e di bevuta in bevuta, apparivano negli anni, grazie a questi piccoli giochi d’inversione, a questa combinatoria minima, binaria, qualcosa di inaspettato, di tremendamente attuale, parola sputate fuori per cominciare qualcosa di diverso, di mai pensato, una vita priva delle vecchie immagini, tutta risucchiata in un’altra luce.

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Jazz
Per Simone, il tortino d’uva era a buon punto. Ora ci avrebbero pensato i fattori indipendenti quali il forno, e tutto quanto fosse concatenato alla sua azione calorica uniforme, come l’asciugarsi della crema e lo scurirsi dei chicchi. A Simone non importava nulla, in realtà. Erano rituali che lo tenevano lontano dal caos. La brasiliana lo stava lasciando. Per questo s’intestardiva sul jazz. Aveva rubato a casa di Clori un cd di Sam Rivers la sera stessa in cui lei, scoppiando a piangere, gli confessò di essere incinta di un poliziotto di frontiera. Quando si era messa a guardare su internet cosa comportasse una gravidanza, cercando di decifrare d’un colpo tutte le ansie che le avrebbe procurato la sua nuova condizione, lui mise una mano su un cd a caso, e se lo infilò nella borsa a tracolla. Quella sera, nonostante fosse piena estate, batteva un vento gelido proveniente dalla distesa siberiana. Proprio all’uscita del palazzo in cui abitava Clori, quel vento gli sferzava le braccia nude e la faccia. Ma Simone aveva altro a cui pensare; chiese un passaggio ad uno sconosciuto che, del tutto ubriaco e di buon umore, lo lasciò nel quartiere desolato dove abitava la brasiliana. Per un attimo sospettò che l’ubriaco conoscesse fin troppo bene quei luoghi, in genere poco frequentati dagli abitanti prudenti della città. Citofonò, cominciando già a piangere. La brasiliana non rispose, forse addormentata, forse assente, forse morta per un incidente domestico. Pensò di svitare l’intero quadro dei citofoni per gettarlo in mezzo alla strada. Ma mancando di senso pratico e di strumenti adatti, emise un urlo stridulo e si allontanò. Ora che si preparava nel forno il tortino d’uva, Simone poteva ripensare a tutto questo e persino immergersi nella musica jazz, anche se ciò implicava un notevole sforzo mentale. Da quando era iniziato il secondo pezzo, dal titolo oscuro di “Danza del treppiede”, si curava di distinguere la tromba dal sassofono. Distinguere gli ottoni dalla batteria e dal pianoforte era possibile senza un’eccessiva concentrazione. Quanto al contrabbasso, vi aveva rinunciato subito, perché assomigliava al pensiero molesto della brasiliana, che pareva scomparso per sempre, salvo poi riaffiorare chiaro e ostinato d’improvviso. Ma tromba e sassofono erano divenuti una questione d’onore. Tutto sommato, dopo l’iniziale tentennamento, si capiva che la tromba non suonava mai come un sassofono e viceversa. Spesso c’era un gran casino nel pezzo: tutti ci davano dentro di colpo, come presi da un immediato nervosismo. Una musica da nevrotici. Come nevrotica era la brasiliana. Come tutti ormai, ma di un nervosismo vigliaccamente accettato, insolente, che faceva correre ognuno incontro a qualche irrealizzabile desiderio, scappando da occasioni di gioia facili come respiri. “Cazzo! Se questa non è la tromba!” Proprio mentre pensava al nervosismo globale, quella che credeva la tromba cominciò a insospettirlo; gemeva in modo strano, a volte a singhiozzo a volte con fare strascicato, e del sax manco l’ombra. A meno che da qualche minuto, come un perfetto irresponsabile, non avesse scambiato di nuovo il sax per la tromba, trovandosi ora più confuso e agitato di prima. Quando suonò il campanello, la sua vista era annebbiata dallo sforzo. Ma fortunatamente il pezzo stava per finire. Non era la brasiliana ma Clori. Appena entrata gli disse: “Facciamolo assieme un figlio.” Lui le pose una mano sul collo. Ma come la tromba con il sax, i suoi sentimenti si confondevano, e dell’amore nemmeno l’ombra.

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Azione dimostrativa
Militanti alla conquista della scena. Accesi, allarmanti. Prendono tutti di sorpresa: sono vestiti benissimo. Gli uomini della sicurezza scontano un ritardo motorio. Le signore, tacchi a spillo dorati e plastica facciale, non scendono più la scalinata. Coccodrilli e cobra gonfiabili fluttuano a mezz’aria, la strategia dell’elio. Tutti o quasi i nemici ora come scomparsi. Gli avversari di classe, i manutengoli del sistema, la servitù mediale. Il presentatore ancora in piedi, ma come svenuto. Fuori dagli studi ammassano elettrodomestici nuovi di zecca, per dare loro fuoco durante un urlo risanatore. Non tutti i propositi insurrezionali vanno a buon fine. La gente si è tirata fuori dal letto, almeno per qualche ora. I colori acquistano intensità, si staccano a poco a poco dalle superfici. I militanti soddisfatti, accorati, esausti. Scatenano infine una discussione sui motivi veri della militanza. La gente li ascolta dai diffusori, versandosi bicchieri di latte. I motivi falsi e apparenti non bastano. Bisogna tutti calarsi nel pozzo dei veri motivi. È quanto sostiene uno biondo, tenendo alte e aperte le palme delle mani. Le forze dell’ordine sono rallentate da un sistema di sensi unici alternati. E gli uomini della sicurezza stanno avanzando con estrema calma oltre le fantasiose barricate di animali gonfiabili. Secondo alcuni, i militanti sono persone che fanno quello che fanno per pura disperazione numerica. Si sentono dei numeri, ma dei numeri bassissimi, con molti zero davanti. E vogliono con azioni eclatanti raggiungere lo splendore dei numeri interi, ma abbastanza alti, che superino almeno il cinquanta. Altri sostengono invece, schiumando dalla bocca, che tutto è frutto d’imperizia sessuale. L’impossibilità di una brevissima penetrazione genera energia rivoluzionaria: l’atto sessuale mancato produce un’azione di disturbo riuscita. Il terzo gruppo, poco propenso a repliche, difende la nota tesi dell’arrivismo attraverso la miseria. Il miserabile usa la sua verificata infelicità, la sua patente e indubitabile disperazione, come capitale per piccoli e progressivi investimenti simbolici, che lo porteranno a divenire il primo dei cameraman o degli esperti luce. I numerosi leader dei militanti — ogni tre militanti ne esiste uno — decidono di comune intesa di ballare intorno al marchingegno che emette una nebbia inodore. Questo balletto nella nebbia artificiale avrà un valore di denuncia per chi guarda da fuori. Quanto agli spettatori, la maggioranza dei quali non ha avuto il coraggio di tornare a letto, non può vedere nulla, in quanto le trasmissioni sono state sospese. Proseguono solamente le sigle pornografiche di sottofondo.

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La fiamma
Il giorno che avevo deciso di dare una svolta alla mia vita attraverso azioni violente, anche se tecnica e metodo della violenza, oltreché obiettivi determinati, mi erano ancora in gran parte sconosciuti, mi imbattei, proprio in camera mia, nel fenomeno della fiamma. Nel giro di pochi giorni mi familiarizzai a tal punto con esso, che quasi non lo notavo più, però sentivo che agiva in modo costante su di me, e sotto forma di lenitivo psicologico. Ero ritornato più calmo, anzi completamente passivo e, avendo abbandonato del tutto i progetti di devastazione della società, mi limitavo a rileggere alcuni passi del libro sacro, cercando invano di mandarli a memoria. Intorno a me tutto peggiorava: mia sorella usciva con unghie quasi fosforescenti e con capigliature visibili anche dal sesto piano, mia madre interrompeva il pianto giornaliero solo per andare a letto e per fare delle commissioni in quartiere, mio padre accumulava nuovi debiti, e si faceva malmenare dai creditori. In tali condizioni io non cercavo lavoro, avevo persino smesso di masturbarmi e passavo i pomeriggi a guardare sul canale satellitare vecchie partite di pallone. Di tanto in tanto, però, appena veniva buio, mi mettevo ad osservare il fenomeno della fiamma. Era un fenomeno abbastanza regolare, si ripresentava quasi tutti i giorni nel cantiere di fronte al mio palazzo, in un vano tra due impalcature di cemento. Neppure all’inizio ho avuto l’impressione che vi fosse una causa divina. Ma qualcosa di puro, di autenticamente spirituale, emanava da quella fiamma, in fondo assai piccola e intermittente. Non una possibilità di fuga o di cambiamento. Solo un monito allegro. “Se qualcosa inizia a bruciare, gettati nella fiamma, e brucerai anche tu”, mi sembrava dicesse questo fenomeno, volendolo a tutti i costi tradurre in un linguaggio umano. Le cose peggiorarono ancora: mio padre si fece quasi ammazzare, mia madre si ammalò, e smise di alzarsi dal letto. Mia sorella, dovendo curare mia madre, fu costretta a portarsi gli uomini in casa. Non avendo più una stanza mia dove stare tranquillo, scesi una sera per strada. Scavalcai la palizzata di metallo e presi a camminare nel cantiere. Fu facile raggiungere la fiamma. Proveniva da un potente accendino a gas che un tipo con il foulard in testa estraeva di tasca ogni dieci secondi. Assieme ad altri due tizi più giovani, veniva ogni sera in cantiere a riempirsi di marijuana e fumo. Aveva una strana pipa lunga, con un braciere d’osso di forma ottagonale. Quel primo giorno mi fecero fumare gratis, ma i giorni successivi mettevo la mia parte di denaro per l’acquisto della droga. In genere si stava tutti zitti, fumando in piedi o accovacciati, ma qualche volta il tipo con il foulard iniziava a raccontare strane storie. Erano storie molto più varie e divertenti di quelle che avevo letto e riletto nel libro sacro. Alcune di esse mi si scolpirono in mente, anche se le avevo ascoltate una sola volta. Quando tornavo a casa, entravo in camera di mia madre e gliele raccontavo. La cosa mi divertiva moltissimo. Mia madre si girava con la testa contro il muro e si metteva a piangere.

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Breve nota sulle prose di Andrea Inglese
di Giuseppe Genna

andrea_inglese2.jpg“Il miserabile usa la sua verificata infelicità, la sua patente e indubitabile disperazione, come capitale per piccoli e progressivi investimenti simbolici, che lo porteranno a divenire il primo dei cameraman o degli esperti luce”. L’assolutezza di certi inserti, che però costruiscono tutti gli edifici in prosa eretti (o scavati, nella roccia delle lingue italiane) da Andrea Inglese è, a conti fatti, la renitenza a qualunque riduzione di cui è capace certa prosa gnomica tipica del romanzo ottocentesco e post, della poesia soprattutto di certa avanguardia storica, di certo diarismo o epistolarismo (Leopardi, Kafka, soprattutto Beckett). C’è qualcosa che mi ha sorpreso fino allo sconcerto nelle prime prose brevi di Inglese che ho letto (le Due storie su Nazione Indiana): una disinibizione totale rispetto a un problema che ha molto condizionato la formazione mia e dei miei coetanei durante gli anni Ottanta e Novanta, ovvero la necessità impellente di stabilire il confine e la prassi della prosa poetica. Si respirava l’aria della fine: della poesia, anzitutto, ma anche del romanzo-romanzo. Si derrideggiava, l’ideologia generica (cioè massiva, ma anche propria dei generi) si proponeva come alternativa trionfante, a fronte di un impasse che, come ogni autentico rimosso, sarebbe ritornato: oggi. La disinibizione nell’uso di formulari di matrice surrealista (“Se rispondono al telefono, si è sbagliato di cadaveri.”) è tale solo se non si considera il percorso con cui si arriva a quell’apparente matrice surrealista – che è una strana, obliqua narrazione, per cui quell surrealismo non è tale. Le prose qui sopra pubblicate non fanno altro che misurare un territorio di mezzo tra la narrazione dura (cristallizzata in racconto-racconto) e una poesia che allunga la propria metrica e il proprio respiro. Che si tratti del carattere realistico o di quello più schiacciato sul versante onirico, poco importa, poiché ogni prosa è destinata a misurare l’esistenza di uno zwischen, di un intermezzo che, a conti fatti, è un distillato eccezionale che è maturato nel secolo scorso. E non penso tanto agli Stückenprose di Robert Walser, poiché non si dà angelologia nelle prose di Inglese, e nemmeno creaturalità inerme o esposta. Piuttosto Beckett, Micheaux, Ponge, tutti in deriva da Baudelaire e dalla sua iracondia non sedabile – che è l’espressionismo stesso di queste prose, sempre furibonde sia pure sotto un controllo di mente e di cuore.
Il problema che avanza Andrea Inglese (ma, con lui, tutti i partecipanti allo splendido volume Prosa in prosa, uscito per Le Lettere) è un interrogativo ai romanzieri e ai poeti, contemporaneamente: se sia possibile, e in quale forma, lo slittamento verso quell’intermezzo in cui si pone Bartleby, seduto a fissare un muro, o molte apodissi di Kafka, mentre si persiste, sulla sponda prosastica, a ricercare un genere di appoggio e, sulla sponda poetica, a liricheggiare postnovecento, in maniera stanchissima.
Qui lo stile è un’aggressione, non una difesa psichica. Qui, in queste brevi zone di erba incolta che cresce con la forza di tutta la biologia e la proiezione della rabbia inconcussa che vi ravvede un osservatore come il sottoscritto – qui si dà a mio parere il problema e la soluzione a venire: cioè l’abbraccio inevitabile o lo slittamento necessario tra prosa e poesia, per giungere alla narrazione ritmica, allo sfondamento che mi pare di intravvedere quale futuro non sfuggibile per chi utilizzi artisticamente il plurilinguismo italiano.

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andrea_inglese3.jpgAndrea Inglese (1967), filosofo di formazione, ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003), i libri di poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 1998), Inventari (Zona 2001), Colonne d’aveugles, in edizione bilingue con traduzione (Le Clou Dans Le Fer, 2007), La distrazione (Luca Sossella, 2008) e la raccolta di prose Prati nel volume collettaneo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Ha curato e tradotto l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei fondatori del blog letterario Nazioneindiana.