a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero
In ricordo di Romano Alquati, scomparso il 3 aprile scorso, pubblichiamo alcuni stralci iniziali dall’intervista compresa nel volume Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri (a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero, Derive e Approdi, Roma 2005, pp. 325, € 20). Romano Alquati è stata una figura di primissimo piano nell’elaborazione teorica e pratica che ha dato vita all’operaismo degli anni Sessanta attraverso riviste come Quaderni rossi e Classe operaia.
Qual è stato il tuo apprendistato politico?
Verso la fine del ’55 con Montaldi ci dicemmo che non si poteva continuare con la disperazione e l’angoscia dostoijewskiana, bisognava acquistare efficacia nel provare a cambiare qualcosa del mondo; mentre la cultura tradizionale della sinistra era basata sulla storia e la filosofia, noi dovevamo studiare soprattutto economia e sociologia. E così facemmo per alcuni anni.
Cominciai applicando la scienza sociale che apprendevo soprattutto alla questione della burocrazia. Nel ’57, ottenuto finalmente il passaporto, feci il mio primo viaggio a Parigi con Danilo. Conobbi Castoriadis, Léfort, Morin, Goldmann, Lyotard e altri. Entrai in corrispondenza con alcuni di «Socialisme ou barbarie» e di «Pouvoir ouvrier», in specie con Daniel Mothé, che verrà a trovarci a Cremona.
Nell’inverno del ’57, in un secondo e meno breve soggiorno milanese, con l’aiuto di Carniti fui un sindacalista in prova nella zona di Piazza Napoli e a Corsico. Stava iniziando il grande boom nella re-industrializzazione. Presi contatti con fabbriche grandi e piccole, soprattutto tayloristiche e proto-fordiste, e con lavoratori milanesi ed immigrati, anche se non ancora dal Sud. Era l’anno dopo i fatti d’Ungheria, e nell’autunno lo stesso Di Vittorio aveva parlato del primo «autunno caldo», soprattutto milanese, sebbene a Torino il movimento operaio tradizionale fosse stato duramente sconfitto. Non volli diventare sindacalista, così all’inizio della primavera del ’58 tornai a Cremona. Con l’esperienza indiretta e diretta di un’intera fase storica d’anticipo rispetto al movimento operaio locale, ma con un certo anticipo pure rispetto al ritardatario movimento operaio ufficiale dell’Italietta, che magari cominciava a non essere più tale, sebbene con anni di ritardo rispetto agli Usa e perfino alla Francia.
[…] All’inizio del ’60 ho conosciuto Pierluigi Gasparotto, che allora viveva già in via Sirtori, e con lui ho cominciato ad assaggiare le nuove inchieste nelle fabbriche milanesi. Nell’estate del ’60 ci siamo trasferiti a Torino. Qui è cominciata una nuova fase della mia vita.
I fatti vissuti torinesi di cui mi ricordo con maggior piacere sono: i primi colloqui (procurati da della Rocca, ma poi allargatisi spontaneamente su indicazione degli stessi intervistati) con operai FIAT nelle loro case; il ritrovamento in un buio antro senza finestre della vecchia Camera del lavoro dell’originale del volantino che proclamava l’insurrezione di Torino nel ’45; la mia relazione sulle «giovani forze» (letta nel salone della Federazione del Psi nel ’61); la redazione con Soave di uno schema di colloquio onnicomprensivo e i colloqui successivi della seconda ondata senza Panzieri di mezzo (sarà lui a rivenirci a cercare nell’autunno del ’61); la riuscita dei primi scioperi alla Fiat rinnovata nel ’61; l’organizzazione a Stura, sotto la tettoia del tram ed in una piola, insieme a Romolo Gobbi e a Banzato della risposta all’accordo separato della Uil che diverrà la celebre rivolta di piazza Statuto, e la redazione (appoggiato sul tetto di un’auto sotto il palazzo della Uil stessa) di un documento che rilanciava la lotta; momenti del grande sciopero della Lancia (che fu anche l’occasione dell’inizio della mia rottura definitiva con Panzieri); le interviste e lo sciopero all’Olivetti di Ivrea; gli operai che nel ’65, tre anni dopo, avevano ancora con sé la copia spiegazzata del «Gatto selvaggio».
Nel ricordo del tuo percorso formativo c’è un accenno esplicito al problema della cultura e alla ricerca di una «differenza culturale».
Io, come Gasparotto e qualcun altro, fummo sempre trattati dai sostenitori intellettuali nostrani di sinistra di Panzieri e dei «suoi» «Quaderni rossi» prima, e poi dai sostenitori analoghi di «Classe operaia», e a dire il vero anche da alcuni collaboratori romani di queste riviste, come dei bruti rozzi e ignoranti perché ritenuti privi di «cultura esplicita» umanistica, ossia (alla maniera tradizionale) perché giudicati privi di dottrina storico-filosofica e letterario-artistica. Ma era un giudizio sbagliato: noi tenevamo nascosta la nostra cultura umanistica perché non la consideravamo importante; anzi per certi aspetti allora ci sembrava negativa! Però in una nostra polivalenza, sapevamo di averne anche più di loro, che si specializzavano, ma fuori della specializzazione rispettiva spesso sapevano poco.
Ad esempio, in seguito, benché avessi fatto lavoro professionale in vari istituti di ricerca scientifica, malgrado mi sia laureato a Torino prima nell’indirizzo economico con una tesi d’econometria e fossi uno dei rari in Italia a conoscere Lazarfeld e ad aver fatto ricerche multivariate alla Hymann, analisi fattoriali ecc., per il semplice fatto di parlare e usare nel giro operaista metodi qualitativi, non sono stato creduto un vero «scienziato» sociale.
Fra l’altro ho fatto anche qualche esplorazione «empirica» di quali erano le funzioni effettive della «cultura umanistica» nella nostra società dopo il boom. Anche nel giro dell’operaismo politico quello della «cultura esplicita» è un nodo importante. E’ molto significativo l’uso che ne ha fatto sempre Toni Negri, il quale fra l’altro fu di estrazione sociale piuttosto umile, il che ai miei occhi aumentava il suo merito. Lui parlava del «lavoro culturale» come faccenda di tattica, una specie di copertura necessaria anche a uscire dall’isolamento, ottenere sostegni nell’arretratezza del mondo della sinistra culturale ed accademica italiana. Toni era consapevole dell’ambiguità della faccenda, e in maniera diversa anche il Cacciari del pensiero negativo, e il Tronti di allora. Ma altri no: per me esemplare è stata la vicenda di Asor Rosa, la più divergente dalla mia.
Il fatto che conta in queste misere storielle è che malgrado certe prese di posizioni nietzscheane contro i valori, alcuni abbisognavano di un’emancipazione personale mediante un ingresso, tradizionalmente specialistico inoltre, nella cultura umanistica accademica, per cui contraddicevano in tutta la loro pratica «professionale» certe loro sparate trasgressive. Asor Rosa voleva salire dove io era nato, e dopo il mio tracollo ed espulsione da quel mondo ne avevo piuttosto disprezzo. Un altro nodo è l’importanza che si dà alla propria professione. Alcuni di noi l’avevano messa in secondo e terzo piano, o non l’avevano neppure, vi avevano rinunciato! E poi quale professione uno va a scegliersi: noi anche per sopravvivere, come proletaroidi, noi della ricerca partecipata e conricerca cercammo di fare dei lavori che potessero servirci anche per la nostra militanza politica. Quello che conta di questa vicenda è che mentre da un lato non riuscii mai a fare davvero passare in quei contesti «operaisti» la questione della «soggettività operaia», non trovai nemmeno la conoscenza e la sensibilità necessaria a discutere e trattare della «cultura esplicita», e ad attaccare a fondo l’arretratezza culturale degli intellettuali di sinistra italiani.
Non si trattava soltanto di superare la contrapposizione — pure crociana, gramsciana e storicista — fra la cultura umanistica, la scienza sociale e la cultura tecno-scientifica, ma piuttosto di combinarle con un taglio trasversale entrambe, però in una maniera peculiare, e questo contava anche per il nostro metodo. Bisognava portare molto più a fondo lo studio, la ricerca, l’esplorazione di questa peculiarità. E lasciar perdere tutto il resto! Dovevamo quindi dedicarci a scavare nei fondamenti metodologici e anche epistemologici della scienza sociale e della sociologia.
Alcuni di noi campavano con la ricerca sociologica, che era considerata dai più nell’operaismo politico degli anni Sessanta una questione privata. Invece volevamo che se ne discutesse anche in termini «pubblici»: ci sembrava che l’argomento già meritasse osservazione, ricerca, studio e riflessione, anche «politica», verso l’uscita dal labirinto del feticismo del capitale. Ma nella ricerca e conricerca che facevamo, come gruppi che si richiamavano criticamente alla classe operaia e alla tradizione storica del comunismo (che si diceva scientifico in maniera abbastanza oggettivistica, e nel ‘900 non mise più in questione la scienza galileiana), noi non eravamo certo degli scienziati sociali tipici. Infatti in questo impegno militante collettivo cercavamo di tagliare trasversalmente la scienza sociale galileiana per «soggettivizzarla» anche in senso politico, nei metodi e nei contenuti, tenendo conto della ricomposizione e risoggettivazione di classe di quegli anni, oltre che delle nuove determinazioni della società specifica in rinnovamento verso l’integrale attuazione della società-fabbrica occidentale. Il problema era di usare la scienza guardando ad esempio alle critiche di Nietzsche, dei fenomenologi, degli esistenzialisti, dei cosiddetti scienziati dello spirito, di Freud e più sotto di Jung. E poi pure cercando un vaglio critico di vari altri interessanti pastrocchioni che, come Morin, proponevano ambigue ma interessanti insalate, e guardando molto ad alcuni scienziati e filosofi, compresi certi politologi.
Questa diventava la questione della teoria e della pratica politica «di parte operaia» da tenere distinte ma mai separate, e dell’eventuale riproposta, critica oppure no, di un nuovo tipo d’intellettuale organico, dello scambio coi militanti operai ed i militanti politici operai, della formazione reciproca di entrambi, della posizione decisiva del metodo, della questione di un’élite magari interna alla classe. Se l’operaismo doveva davvero essere «politico» ed in un significato particolare, c’era da fare un immenso lavoro di scoperta, di produzione e d’acquisizione di un’enorme e in gran parte nuova conoscenza e di critica di questa, di sperimentazione ed esplorazione.
Perché hai parlato di «secondo operaismo politico»?
L’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta era definito «politico» dai protagonisti stessi. Perché ci sono stati altri operaismi ai quali essi si sono espressamente contrapposti e dai quali sono stati anche duramente attaccati. C’è stato e c’è ancora fra l’altro l’operaismo populista ed assistenziale (di derivazione cristiana), l’operaismo sindacale, e una combinazione dei due; e questi si sono caratterizzati nel considerare gli operai come una «quota debole» della popolazione, e quindi bisognosa d’aiuto; questi operaisti amavano gli operai, l’operaità stessa. Gli operaisti «politici» al contrario s’interessavano ai proletari operai perché, contro ogni universalismo, li vedevano come una parte forte, una forza. Una forza-parte almeno potenziale da cercare di mobilitare per ottenere la trasformazione generale e radicale del sistema sociale capitalistico complessivo e da conseguirsi mediante una capacità d’influire, un potere, sui centri di decisione dell’intero movimento del sistema sociale, e in specie di riuscirci mediante il partito politico, come organizzazione di quella parte contro il capitalismo detentore dell’insieme. Ci sono stati però pure movimenti (come ad esempio poi la Cisl ed in specie la Fim di Carniti, la Fiom un poco, e frange del Pci) che si sono mossi almeno a tratti al confine fra i due operaismi.
Inoltre, si trattava di un secondo operaismo politico perché, anche per certe condizioni di ritardo ed arretratezza del capitalismo italico ancora agli inizi degli anni Sessanta e nella reindustrializzazione post-bellica, in specie nella rivista «Quaderni rossi» si guardò molto al primo operaismo politico, quello social-comunista a cavallo fra i due ultimi secoli, col suo modello di partito di massa non più solo di opinione ma di organizzazione dell’agire politico, riferita agli operai di mestiere. E in specie al modello bolscevico. Per questo si trattò di una ripresa, di un ritorno, o di una regressione. Però ci tengo a precisare che a Torino nel ’60-’61, prima e al di fuori della nascita dei «Quaderni rossi» di Panzieri, il gruppo dei conricercatori si era mosso esplorativamente e sperimentalmente sia forzando la tradizione consigliare verso nuovi modelli, sia cercando di andare oltre la politicizzazione di peculiari momenti della lotta e dei movimenti più propri dell’operaio-massa.
Formulerei la seguente ipotesi generale sul secondo operaismo politico e sulla notevole importanza che ebbe in Italia (ma la vicenda italiana interessò pure operaisti politici di altri paesi europei ed anche extraeuropei). La sua importanza è stata soprattutto nell’anticipazione, nel fatto che, anche per il ritardo dell’ingresso generalizzato dell’industria italiana nella «seconda fase» tayloristico-fordista, alcuni peculiari intellettuali piuttosto comunisti seppero anticipare d’alcuni anni l’arretrato movimento operaio «istituzionale» italiano funzionando come una vera avanguardia a partire da alcuni punti traenti. Questi «secondi operaisti politici», ed in particolare quelli che erano passati per la conricerca dal ’57 al ’62, compresero studiando direttamente il come e le conseguenze, che sia il cosiddetto taylorismo come organizzazione scientifica di massa del lavorare operaio, sia il cosiddetto fordismo come nuova politica di salari meno bassi per il consumo di massa della nuova produzione, cambiavano la società industriale capitalistica anche italiana introducendo una nuova ambivalenza, in cui criticare e combattere la faccia negativa ma valorizzare quella positiva della medaglia. Una nuova rappresentazione della società industriale capitalistica fu introdotta in una sinistra in cui sia l’intellettualità sia la leadership italiana era ancora ferma ad una visione ottocentesca del capitalismo e della società, dell’industrialità e del lavoro. Ciò avvenne pure attraverso la conoscenza (rarissima a sinistra) di un’importante letteratura internazionale, anche di grande destra. Questi giovani intellettuali erano già convinti che la vecchia visione e strategia socialcomunista che aveva come referente la prima antica operaità dell’operaio «professionale» (il quale si muoveva nella stessa cultura dell’altra parte dell’artigiano dimidiato, ossia della borghesia imprenditoriale, e quindi era scientista, tecno-scientista, sviluppista, per la programmazione totale ed autoritaria, sacrificista e universalista) era chiusa in un labirinto che ritroviamo anche nel pensiero di Marx, della socialdemocrazia classica e poi degli stessi bolscevichi. Non avrebbe mai potuto trovare la strada per uscire dal capitalismo uscendo dalla classe operaia stessa senza una nuova teoria e strategia, e un nuovo soggetto sociale per farla camminare.
Ma il nuovo referente sociale forte, potente e collettivamente forte anche se singolarmente debole ormai c’era: era proprio quello che fu chiamato l’operaio-massa di nuova e seconda operaità e soggettività operaia, che la nuova organizzazione scientifica e razionalizzata del lavorare stava diffondendo pure in Italia. Giovani operai senza qualificazione singolare, unskilled, ma abbastanza scolarizzati, provenienti da famiglie di contadini e piccola borghesia proletarizzati che il movimento operaio socialcomunista riteneva a torto estranei e refrattari alla lotta di classe contro il capitalismo, eso-aggregati scientificamente dal nuovo capitalismo. Questi nuovi operai avevano per slogan «più soldi e meno lavoro», e potrebbero essere definiti dei nichilisti fordisti, potenzialmente mobilitabili pure contro se stessi. Era la «rude razza pagana» che tanto ha scandalizzato il populismo.
Ma anche questo nuovo referente operaio aveva i suoi limiti, e solo una nuova organizzazione politica poteva portare verso il loro superamento la nuova classe operaia in ricomposizione. Parve subito a molti secondi operaisti politici che mentre la loro rappresentazione socio-economica ed in alcuni casi anche antropo-culturale fosse adeguata e importante, essi non sapevano e soprattutto i più nemmeno vollero elaborare una linea politica e, soprattutto limitati dalla tradizione «organizzativista» del socialcomunismo classico, una concezione del comunismo e del partito comunista adeguata alle condizioni nuove; e rimasero anch’essi fermi all’imitazione della banca del 1910, così intendendo il «leninismo». Così si votarono al fallimento, rapido.
All’interno di questo secondo operaismo politico si distinguono però almeno due momenti e vicende abbastanza diverse, soprattutto per la scala dell’agire. Mentre intorno alle prime due riviste si mossero poche centinaia fra intellettuali e militanti, e inoltre il partito di massa al quale si guardò sperando di trasformarlo è stato il Pci, dal ’69 (a mio parere l’anno in cui la lotta di classe operaia italiana raggiunse il suo culmine) i nuovi periodici interessarono decine di migliaia di militanti diversamente collocati nel lavoro-occupazione, e allora alcuni «gruppi» cominciarono a considerare se stessi il partito e soprattutto si contrapposero al Pci, sebbene adottando a loro volta il vecchio modello bolscevico di partito. Entrambi fallirono.
Oggi siamo in un’altra ulteriore particolare transizione e passaggio di fase: da un lato si ripropongono molte questioni che già si erano poste nella precedente transizione al taylorismo-fordismo, e dall’altro molte peculiari questioni odierne hanno le loro radici in Italia nelle vicende di quegli anni.
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