di Vittorio Curtoni
Sigmund Freud, Il disagio nella civiltà, a cura di S. Mistura, Einaudi, 2010, pp. LVI+93, € 14,00.
Quando Freud pubblica questo saggio, in due parti tra il 1929 e il 1930 e nella sistemazione definitiva nel 1931, chiaramente avverte i tremori tutt’altro che sotterranei di un’epoca che dopo i disastri della prima guerra mondiale sta correndo verso la seconda: il mondo occidentale è nella morsa della Grande Depressione economica; in Germania, la repubblica di Weimar, ormai giunta al capolinea, soffocata da un’inflazione incontrollabile, è destinata a soccombere al nazismo. Non per la prima volta, ma senza dubbio con un’urgenza maggiore che in passato, Freud sente il bisogno di applicare gli strumenti della sua dottrina non più al singolo individuo ma all’intero contesto sociale. Alla civiltà. Per meglio dire, all’individuo inserito nel contesto sociale e al disagio che da questo inserimento deriva.
Le conclusioni sono raggelanti. Demolito il valore consolatorio della religione e dei suoi precetti nei capitoli iniziali, Freud procede sulla base di considerazioni dettate dalla sua morale economica. La società nasce per garantire sicurezza, ordine e pulizia a chi ne fa parte, ma gli imperativi che la civiltà pone al singolo sono spesso in contrasto con la soddisfazione dei suoi bisogni psichici. Se è vero che la nostra vita interiore è dominata dal perenne conlitto tra due grandi pulsioni, Eros e Thanatos, Amore e Morte, spinta costruttiva ed egoistica di piacere e spinta distruttiva di annichilamento degli altri e di se stessi, la civiltà, per intrinseche necessità di ordine, porta a soffocare Eros, incanalandolo sui binari di risultati socialmente accettabili (la famiglia in primo luogo) ma insufficienti a soddisfare la libido dell’individuo. Il singolo soffre già dei conflitti tra l’Io, la parte interiore cosciente (contrapposta di suo alle vorticose richieste dell’Es, il subconscio che ignora i freni morali), e il Super-Io, il censore etico che lo castiga provocandogli sensi di colpa a ogni infrazione, ogni azione eticamente errata, in un inarrestabile processo di cause ed effetti a catena che può portare alla nevrosi. Nella civiltà, a questo stato di cose già problematico si aggiungono i dettami della convivenza sociale, non sempre facili da rispettare e soprattutto non sempre in linea con il soddisfacimento dei desideri di Eros; sicché al preesistente conflitto interiore si somma quello generato dalla vita di società, in un moltiplicarsi di sensi di colpa che rischia di travolgere ogni possibile equilibrio. In quanto a Thanatos, uno dei fini della civiltà dovrebbe essere proprio l’abbattimento delle pulsioni distruttive, che ovviamente non corrispondono ai canoni del buon convivere; ma, constata lucidamente Freud, il fatto è che queste pulsioni esistono comunque, per quanto le si voglia negare, e richiedono sfoghi. Per ottenere i quali la società ricorre all’espediente di individuare se stessa come gruppo omogeneo contrapposto ad altri gruppi, coi quali si possono sì intrattenere rapporti cordiali, ma nel momento in cui le tensioni individuali e collettive divengono troppo forti, troppo laceranti (magari per effetto di una situazione economica disastrosa che porta inevitabilmente al disastro politico, come negli anni in cui Freud scriveva), la benevolenza reciproca muta in razzismo, xenofobia, e conduce al possibile esito finale della guerra.
Freud intuisce ciò che sarebbe accaduto di lì a pochi anni, la seconda guerra mondiale (e, mi sia permesso di aggiungere, l’attuale stato di panbelligeranza), non perché possedesse la sfera di cristallo del mago ma perché l’affilato bisturi della sua osservazione e interpretazione del reale non gli permetteva facili vie di fuga. Non è un predicatore, non è un profeta. Anche in queste pagine, come nella sua intera opera, si avvertono lo strazio e la riluttanza a sistematizzare ciò che l’analisi gli ha suggerito; ma tant’è, della realtà bisogna prendere atto. Qui arriva a ipotizzare l’esistenza di un Super-Io della società e invita i futuri psicoanalisti a studiarne i meccanismi: forse solo da una loro comprensione potrebbero nascere prassi che permettano di riconciliarlo, nei limiti operativi disponibili, col Super-Io individuale e per lo meno attutire i colpi inferti dai sensi di colpa. Non mi risulta si siano ottenuti grandi risultati in questa direzione. Un vero peccato, perché forse ci troveremmo a vivere in un mondo diverso da quello attuale, o almeno avremmo a disposizione qualche robusto strumento di comprensione.
La nuova edizione di Il disagio nella civiltà, fresca d’uscita nella Piccola Biblioteca Einaudi, è curata da Stefano Mistura, psichiatra, psicoanalista, attualmente direttore sanitario dell’Ausl di Piacenza e autore in proprio di importanti saggi. In Italia, l’editore per eccellenza di Freud è Boringhieri, ma d’ora in poi sarà possibile leggerlo anche presso altre case editrici, essendo scaduti i diritti d’autore sulla sua opera. Mistura premette al testo una lunga, minuziosa introduzione che analizza le varie parti di cui è composto, ponendole in relazione con le tappe di sviluppo del pensiero freudiano. Personalmente, consiglio di leggerla dopo avere letto il testo: offre chiavi che risultano più chiare a chi sia già informato delle tesi freudiane. È solo un mio punto di vista, s’intende. Mistura ha anche compilato, in coda all’introduzione, una preziosa cronologia, Il contesto del movimento psicoanalitico 1918-1929, capace di interessare e dare lumi anche a chi della psicoanalisi non sia professionista. L’eccellente traduzione di Enrico Ganni restituisce la prosa di Sigmund Freud in tutto il suo terso, lucidissimo nitore. Una novità di questa edizione sta anche nel titolo, più fedele del consueto all’originale: non più Il disagio della civiltà ma Il disagio nella civiltà, perché in effetti non del disagio della civiltà in sé si tratta ma del disagio di chi nella civiltà vive.
Vorrei chiudere su una considerazione personale. Questo non è un libro divertente, rilassante, anzi è a modo suo una sorta di pugno nello stomaco. Particolarmente, suppongo, per chi riponga le proprie speranze nel credo religioso, ma certo non solo. È singolare che il saggio possa avere ancora un effetto così dirompente, a quasi un secolo dalla sua prima apparizione? Tutt’altro. Perché non sono rilassanti e/o divertenti i tempi che viviamo. La crisi di idee, di valori, di buona convivenza sociale è sotto gli occhi di tutti. Eros trionfa, però sotto la forma malata della soddisfazione narcisista; Thanatos anche, in tante parti del mondo che non sono vicinissime a noi, che fondamentalmente non ci interessano (lascia che si scannino tra loro) ma che, a prescindere da ogni considerazione etica, nell’epoca dell’economia globale hanno su noi pesanti ripercussioni anche se ce ne infischiamo. La crisi è ben viva e presente nel tessuto della società occidentale, Italia compresa. La xenofobia è ai più alti livelli di gradimento. Nell’universo dei media, l’urlo, l’insulto, l’accusa gratuita hanno sostituito il dialogo, la pacata dialettica. L’analisi di Freud non ha perso niente perché ci troviamo esattamente nello stesso punto in cui si trovava lui. Che il Fato ce la mandi buona.
Per gentile concessione dell’Editoriale Libertà – Piacenza